calcio Olimpiadi

Quando il calcio alle Olimpiadi non aveva nazionali

CS Curiosità Slider

Non è la prima volta che sotto i lumi di Parigi si decreta un vincitore del torneo di calcio delle Olimpiadi; quella del 9 agosto 2024 è infatti la terza occasione, ma è al contempo soltanto la seconda in cui sono delle nazionali a sfidarsi. Il dato, comprensibilmente, a primo acchito non ha assolutamente senso: se i Giochi Olimpici sono per eccellenza la competizione sportiva tra i popoli del globo, come può una disciplina disputarsi senza avere una formazione rappresentativa di un intero paese?

La spiegazione è ricavabile in primis contestualizzando a livello cronologico le tre edizioni francesi. Se alle Olimpiadi del 1928 e in queste del 2024 al calcio era/è già riconosciuto uno status di rilevanza nel pantheon degli sport, molto diversa erano percezione e soprattutto conoscenza del pallone di cuoio nel 1900. Niente più che un nuovo gioco venuto dall’Inghilterra, con attorno chissà, la fama di un passatempo hipster “poco olimpico”, come oggi qualche semplicistico commento potrebbe battezzare skateboard o arrampicata.

La premessa mostra anche la natura spiccatamente dimostrativa del calcio nelle prime Olimpiadi: nel 1896 ad Atene, di cui si racconta un fantomatico e probabilmente inesistente triangolare tra una squadra locale, una ottomana e una danese, e appunto quattro anni a seguire, quando si ebbero senza dubbi i primi incontri calcistici, ma non organizzati in un torneo e, per l’appunto, senza nazionali.

Vere e proprie esibizioni del gioco, in piena linea con l’inglobamento del tutto nell’ultima e più maestosa Esposizione universale parigina – quella, per dirne una, in cui i fratelli Lumière mostrano a un pubblico di massa quel curioso strumento chiamato Cinématographe. Di fatto, fu solo dal 1920 che l’evento agonistico venne riconosciuto come la seconda Olimpiade della storia, nonostante il celeberrimo barone de Coubertin avesse rivendicato quel titolo già durante lo svolgimento.


Le tre pretendenti

Il programma originario prevedeva effettivamente quattro selezioni contro cui la Francia si sarebbe dovuta misurare tra il settembre e l’ottobre 1900: Svizzera, Belgio, Germania e UK; ma la diserzione di Svizzera e Germania convinse gli organizzatori ad abbandonare le nazioni e passare ai club, scelti per conto proprio dalle tre rispettive proto-federazioni dei paesi rimasti.

L’USFSA – Unione delle società francesi degli sport atletici – elesse il Club Français, compagine parigina vincitrice del campionato di calcio del 1896. Perché non la squadra più recentemente campione, cioè il Le Havre che aveva sconfitto proprio il Français nella finalissima nazionale? Possiamo soltanto supporre una mera ragione geografica.

Tra le file dei transalpini si può ad esempio annoverare il difensore Louis Bach, il più giovane in rosa con i suoi 17 anni, morto poi nel 1914 a Servon-Melzicourt, sulla Marna, nei primi fuochi della Grande Guerra; o Jean Bloch, centrocampista, primo francese ebreo a vincere una medaglia; ancora Fernand Canelle, attaccante formatosi in Inghilterra con Norwood e Selhurst FC, ritenuto proprio dal capitano dei due club, un certo Reeves, una delle migliori punte francesi del tempo; infine Lucien Huteau, portiere e impiegato commerciale morto quasi a cent’anni, nel 1975.

Molto meno omogenea era la rappresentativa proveniente dal Belgio. Dopo il rifiuto dei campioni nazionali del Royal Racing Club, gli organi federali lanciarono all’avventura un gruppo di giovani studenti della Libera università di Bruxelles, a cui furono accorpati dei non-studenti, più un inglese e due olandesi; sembrano i protagonisti di una barzelletta, ma si tratta semplicemente di elementi che giocavano in Belgio in quella fase.

Su questa sgangherata banda abbiamo poche cose da tramandare: tra queste, che il belga Eugène Neefs fosse un veterinario militare, che l’olandese Hendrik van Heuckelum partecipò a quella che è forse la primissima competizione europea di calcio nella storia, la Coupe Van der Straeten Ponthoz dello stesso 1900, e che l’inglese Eric Thornton, arrivato a studiare a Bruxelles per ignote ragioni, passò da attaccante a portiere del Belgio negli anni successivi all’Olimpiade, lasciando poi il calcio per fare da mediatore marittimo – che a quanto pare è una professione.

Infine la compagine del Regno Unito. Il Comitato per i dilettanti della Federcalcio, dopo alcuni rifiuti, trovò la prima risposta positiva dal londinese Upton Park. Una scelta piuttosto obbligata, se è vero che quest’ultimo all’epoca non partecipava a un campionato, giocando solo partite di coppa e amichevoli, né aveva mai in sette edizioni raggiunto neanche le semifinali della FA Amateur Cup – appunto la versione amatori dell’FA Cup.

Dal portiere e segretario del club James Jones furono selezionati in realtà anche membri di altri team britannici, come William Gosling, luogotenente della Seconda guerra anglo-boera in quel momento in congedo, sposato con una Lady la cui matrigna era la regina Vittoria, nonché fratello minore di Robert Cunliffe Gosling – calciatore mitico che meriterebbe un articolo a sé, descritto da molte cronache sportive come una sorta di fusione perfetta tra il paradigma del british lord e Adone.

Tra coloro già situati all’Upton vale la pena citare Claude Buckenham, all’occorrenza terzino destro, tecnicamente fuoriclasse del cricket inglese con 165 presenze per la nazionale; praticante dei due sport era anche Henry Haslam, ala sinistra, riservista dell’esercito durante la Prima guerra mondiale e con un anno di carcere per furto in un negozio.



Le sfide

Poco ci vuole a intuire che la durata del “torneo” fu particolarmente esigua, ma non si trattò nemmeno di un triangolare: si giocarono due partite. In fondo, se il piano originario era di far affrontare alla Francia vari avversari, non fu tanto diverso il mini-programma che scaturì in seguito, con semplicemente il Français che sfidò prima l’Upton e poi la squadra universitaria di Bruxelles, entrambe al Vélodrome de Vincennes, tecnicamente un impianto per il ciclismo su pista – detto velodromo appunto.

Il primo incontro fu piuttosto un’esibizione britannica, anziché francese. Chiuso il primo tempo 0-2, con i gol nei primi sette minuti di Turner e Zealley, l’Upton dilagò nella ripresa grazie alla doppietta di John Nicholas, per uno 0-4 che ribadiva la supremazia degli inventori del gioco sui loro seguaci. Il sistema applicato dai vincenti era la Piramide o 2-3-5, uno dei più riconoscibili e adoperati nel calcio inglese a cavallo tra i due secoli; uno schieramento senza dubbio spregiudicato, con due soli centrali e i terzini che andavano a trasformarsi in ali d’attacco – 3-2-5 anyone? – e un’idea di base che si allontanava dal “kick and rush” per legare maggiormente i reparti col palleggio.

Anche la seconda partita ebbe un rotondo passivo, ma fu meno a senso unico. L’Università di Bruxelles, dopo aver subito gol al primo minuto da Peltier, ribaltò il tutto con Spanoghe e van Heuckelum; reazione seguita da una contro-reazione straripante dei padroni di casa, sopra tutti di Marcel Lambert, autore di cinque gol per il 6-2 finale. Sarà tristemente uno degli ultimi bagliori della sua vita, preso dalla morte solo un anno dopo, a 26 anni.

Ora, per come si svolse il tutto, l’idea di attribuire a qualcuno delle medaglie non venne proprio a nessuno. Potrebbe aver pesato inoltre il fatto che le medaglie olimpiche non fossero proprio una cosa nel 1900, essendo state introdotte nell’edizione successiva del 1904 a Saint-Louis.

Eppure anni dopo il Comitato Olimpico Internazionale, nel tentativo di incastrare le partite nella logica dei Giochi, assegnò comunque dei piazzamenti: oro all’Upton Park, argento al Club Français, bronzo all’Università di Bruxelles.

La facile obiezione «Hey, ma i britannici giocarono solo una partita!» è facile perché ha semplicemente senso: la partita tra loro e i belgi del resto non si ebbe, lasciando il beneficio del dubbio circa una possibile vittoria dei secondi che avrebbe messo tutti alla pari nei risultati; è possibile che l’ipotetica, di certo non infondata, assunzione di superiorità dei primi abbia spinto il Comitato a prendere tale decisione.

Alla fine, il medagliere parla lapidario, e a noi non restano che congetture. Parliamo in fondo del calcio ai suoi primi passi, e da esso non possiamo aspettarci che una mitopoiesi sportiva, sballottolata tra realtà e menzogna, per cui un semplice club, o un’università persino, possano vincere delle medaglie olimpiche.

Leggi anche: Storia di una vecchia Superlega italiana