Non ho un ricordo nitido degli ultimi momenti di Khvicha Kvaratskhelia con la maglia del Napoli. I dettagli mi appaiono sbiaditi, affidati a una memoria che cerca di ricostruire affannosamente quegli istanti. Affiora alla mente l’immagine di Kvaratskhelia che percorre la linea laterale del campo ingobbito, dopo l’ennesima sostituzione. Lo vedo sbottare deluso, arrabbiato, più con sé stesso che con l’allenatore. Forse le telecamere torneranno su di lui più avanti, seduto in panchina con le braccia incrociate, la testa bassa e lo sguardo corrucciato mentre continua a borbottare qualcosa di incomprensibile. È un mosaico di immagini raccolte sovrapponendo le partite di questa stagione, che per lui si sono concluse quasi tutte in questo modo.
Tutto appare sfocato, approssimativo: le notizie sullo scollamento dalla società e il suo passaggio al Paris Saint-Germain si sono susseguite così rapide da non darmi il tempo di elaborare propriamente il distacco, come normalmente accadrebbe per chi ha lasciato il segno nella storia di un club. Per Kvaratskhelia non c’è stata una partita di addio, un saluto rituale con il pubblico; quel momento in cui fermarsi a ricevere un po’ di gratitudine per quanto fatto nei due anni e mezzo a Napoli, o raccogliere la piccola parte di risentimento covata da chi gli ha voluto bene e lo vede allontanarsi per sempre dalle proprie giornate, come quegli amici di una vita che decidono di lasciarsi tutto alle spalle e partire, perché la città in cui sono cresciuti gli sta troppo stretta. Non ha dovuto, né potuto, farsi carico di quel sentimento di abbandono che a volte non siamo così bravi a mascherare, e che vomitiamo come bile quando ci diventa insopportabile tenercelo dentro.
Gli addii a Napoli hanno preso spesso questa non-forma, riempita dall’assenza di una conclusione vera e propria a storie che un finale degno lo avrebbero meritato. Il giorno prima c’eri e il giorno dopo non più, e il vuoto si riempie con la frustrazione per la mancata catarsi. Così si va avanti, cercando di passarci sopra, alla frustrazione, e passare sopra anche alla nostalgia, cercando di rimuoverla nel momento stesso in cui sta nascendo: si sostituisce il vuoto con la negazione del ricordo.
Io, pur volendo, il ricordo di Kvaratskhelia al Napoli non potrei cancellarlo. E se gli attimi finali al Maradona appaiono sfumati, la sua prima partita in quello stadio resta scolpita nella mia memoria. Il suo svelamento, osservato dagli spalti della Curva B, ha assunto i contorni di una piccola epifania, l’iniziazione ai segreti di un mondo fino ad allora intravisto come uno spiraglio di luce da una porta socchiusa. Osservare quel puntino lontano raccogliere un pallone innocuo al limite dell’area di rigore, spostarlo in avanti con un controllo a seguire quel tanto che basta per creare la giusta distanza rispetto al piede d’appoggio, per poi tornarci su col destro e spedirlo chirurgicamente all’incrocio dei pali; guardarlo far fuori due avversari con un’unica, abbacinante finta con l’interno del piede, la stessa finta con cui prepara anche il tiro, trasformato in rete il secondo successivo. Iniziare ad aspettare con ansia il momento in cui quella piccola figura con i capelli scuri e i calzerotti abbassati avrebbe nuovamente preso palla per inventarsi qualcosa di diverso; farsi attraversare da una piccola scarica elettrica ad ogni sua sterzata, cambio di direzione, passaggio illuminante. Imparare ad attendere l’inatteso, questo ha significato l’arrivo di Kvaratskhelia.
Per la prima volta dopo anni, o forse nella vita, mi sono riscoperto a guardare il Napoli con un’eccitazione diversa, rinnovata nello spirito. Sedersi sul divano non voleva dire soltanto tifare la propria squadra. Il risultato passava in secondo piano, così come il modo in cui si stava in campo. Vittoria o sconfitta, la differenza si assottiglia; giocare bene, giocare male, a chi importa. Ogni partita accoglieva in sé la possibilità di diventare memorabile; sarebbe bastato un guizzo del 77, di qualsiasi tipo. Come la trasferta all’Olimpico contro la Lazio: il risultato è sull’1-0 quando Kvaratskhelia parte in progressione, e mentre corre verso la trequarti del campo, il pallone incollato al piede, trova il tempo e la forza per inventarsi una rouleta, liberarsi di Luis Alberto e far partire la gamba. Il pallone si stampa sul palo così forte che ritorna al limite dell’area. Quella partita, il Napoli, avrebbe anche potuto perderla. Il ricordo di quel gesto sarebbe stato abbastanza, perché Kvara incarnava alla perfezione la definizione antiquata e un po’ abusata di «giocatore che vale il prezzo del biglietto».
Quella partita, però, il Napoli la vinse, trasformandola nel manifesto spallettiano. Lo fece grazie alla rete, neanche a dirlo, di Kvaratskhelia, il giocatore che alla squadra era mancato per puntare alla vittoria dello Scudetto. Il georgiano è stato il cambio di paradigma, dopo anni in cui la squadra aveva provato a competere andando oltre le proprie possibilità grazie a un gioco codificato, preciso e geometrico, che però mostrava tutti i suoi limiti quando qualcosa nei meccanismi si inceppava. Aver inserito qualcuno come lui, capace di dare fluidità a un apparato sclerotizzato, ha significato trovare il tassello mancante di un mosaico che rischiava di rimanere incompiuto. Tutto funzionava perfettamente, perché Kvaratskhelia era il perfetto giocatore di sistema capace all’occorrenza di snaturarlo, facendo saltare il banco. Era autosufficiente, ma dava il meglio quando riusciva ad associarsi con i compagni, mettendone in luce i punti di forza liberandoli da avversari, spazi stretti e responsabilità.
Poi Luciano Spalletti è andato via, ed è stato come cancellare la figura del mentore dalle pagine di un romanzo di formazione. Si è iniziato a fraintendere Kvara, lasciandolo sempre più solo partita dopo partita, stagione dopo stagione. Aumentavano i compiti e le responsabilità, così come le distanze dai compagni. Nella totale anarchia della scorsa annata, più il Napoli scendeva in classifica e più lui si caricava il peso della squadra sulle spalle, diventando via via più stanco, più frustrato. Ha accolto la sfida come un Sisifo moderno, costretto a sbattere contro le difese avversarie ogni domenica in cambio di nulla, se non di un’altra ripetizione.
Il supplizio sembrava poter terminare una volta per tutte quest’anno: nuovo allenatore, nuovo progetto, nuovi obiettivi da raggiungere. Con Osimhen esiliato alle frontiere dell’Europa, il georgiano sarebbe sicuramente diventato la pietra angolare del nuovo corso, colui attorno al quale costruire l’architettura del nuovo Napoli. È andata così, in un certo senso, ma non nel senso in cui sperava Kvaratskhelia: il vuoto attorno a lui si è fatto sempre più fitto, mentre lui veniva relegato ai confini del gioco per attirare sempre più uomini su di sé. Più uomini, più botte, più frustrazione. Antonio Conte ha costruito un Napoli efficace sfruttando il suo uomo chiave come un arnese, un grimaldello per fare leva sugli spazi in altre zone di campo. Nel frattempo sono arrivati nuovi compagni, nuovi volti capaci di accendere la fantasia dei tifosi. È arrivato soprattutto David Neres, che ha portato in dote altri dribbling e un’anarchia simile a quella che un tempo fu di Lavezzi. La storia di Kvaratskhelia al Napoli ha assunto pieghe sempre più scure, con l’ombra del «nuovo è sempre meglio» ad allungarsi su di lui. Dopotutto ci siamo abituati ad accettare abbastanza in fretta – forse l’abbiamo addirittura accolta con gioia – l’idea della fungibilità. Siamo stati così bravi ad accoglierla che abbiamo traslato il concetto dai beni alle persone. E poi, Kvaratskhelia sembrava ormai rotto, non funzionante, incapace di ripetere i fasti della prima stagione a Napoli. Su di lui iniziavano ad aleggiare dubbi sul reale valore, critiche sulla sua testardaggine. Eravamo ormai pronti a metterlo da parte come Woody, il giocattolo cowboy protagonista di Toy Story, che in un incubo viene gettato via da Andy, il suo padroncino: «Oh, I forgot, you are broken. I don’t wanna play with you anymore». Un giocattolo rotto e uno nuovo e integro subito pronto a prenderne il posto. La soluzione al problema è sembrata abbastanza scontata, soprattutto se insieme alla soluzione vengono offerti in cambio settanta milioni e nuovi giocatori di cui innamorarsi, almeno fino alla prossima cessione.
Ragionare in questi termini ci espone a un rischio di cui non teniamo conto, abituati come siamo a confrontarci solo con gli aspetti utilitaristici dello scambio di persona: rischiamo di sottostimare il costo emozionale della cessione di Kvaratskhelia. Il suo addio non significa soltanto privarsi di un giocatore tecnico, capace di creare superiorità numerica e occasioni da gol. Significa ridefinire il baricentro emotivo della squadra di cui, volente o nolente, si era fatto carico; significa anche ridefinire il nostro baricentro emotivo, condizionato a propria volta da quello della squadra. Lasciarlo andare vuol dire lasciar andare una parte di noi, quella parte rappresentata al meglio dal modo in cui il georgiano stava in campo ogni week-end. E se il modo di stare in campo nel suo piccolo definisce un po’ il modo in cui si sta al mondo, allora con la sua partenza abbiamo perso una piccola parte di mondo.
Salutando Kvaratskhelia abbiamo acconsentito a salutare l’apparente fragilità che lo accompagnava ogni volta che scendeva in campo, e che nell’ultimo periodo aveva raggiunto lo zenit, a furia di subire colpi dagli avversari sempre più frequentemente. Colpi che lui sembrava accettare di buon grado, perché significava assumersi responsabilità. Abbiamo perso la sua caparbietà e la sua testardaggine, dovute alla necessità che aveva di caricarsi il peso del mondo sulle spalle, con quell’aria malinconica da antieroe che sa che avrebbe potuto, e voluto, fare molto di più, non solo per sé stesso ma anche per gli altri. Abbiamo perso la nostra frustrazione per la sua testardaggine, e ancor più per la necessità di accettare una personalità timida, un po’ scostante, che rifuggiva i gesti plateali e le manifestazioni d’amore incondizionato; noi tifosi che, come tutti i tifosi, apprezziamo più l’ostentazione dell’affetto che l’affetto in sé. Soprattutto, abbiamo perso il nostro istinto protettivo, la nostra voglia di alzarci dal divano quando un avversario lo colpiva troppo duramente; la nostra necessità di consolarlo, di dirgli che va tutto bene perché sappiamo che non è colpa sua, e se pure fosse colpa sua andrebbe bene lo stesso, perché Don Chisciotte non va biasimato se combatte contro i mulini a vento. Kvaratskhelia restituiva una certa idea di sofferenza, di chi sa che la maggior parte delle volte si è destinati all’insuccesso, ma che bisogna continuare a lottare, perché altrimenti cosa ne sarebbe del significato che cerchiamo di dare ai gesti che compiamo? Provare e riprovare, finché le cose non andranno per il verso giusto.
Il georgiano ha incarnato lo spettro completo delle emozioni che un tifoso può provare: stupore, eccitazione, gioia, frustrazione, rabbia, delusione, sentimento di abbandono. Emozioni filtrate dallo sguardo di Kvaratskhelia, dalla sua visione del mondo.
Mentre scrivo riaffiora alla mente il ricordo della partita di Champions con l’Eintracht Francoforte: è il ricordo che più mi avvicina a Kvaratskhelia, slegato dalla vittoria dello Scudetto, da un gol o da un’esultanza particolare. Slegato, apparentemente, da un momento felice. Kvara ha appena sbagliato il rigore del possibile 0-1 e ha le mani sui fianchi, lo sguardo sconsolato, la testa bassa; sembra che niente possa scuoterlo. Si avvicina Victor Osimhen, che gli porta una mano sotto il mento e lo invita ad alzare lo sguardo. In quel momento ci siamo sentiti un po’ tutti Osimhen.
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