«Il calcio è un libro che si scrive ogni giorno. […] La prossima sarà una stagione tanto importante per noi, tanto importante per la Roma. Siamo in un punto dove possiamo veramente dare una sterzata, e magari creare qualcosa di più duraturo». Le parole estratte dall’ultima conferenza stampa di Daniele De Rossi, alla vigilia dell’ultima partita di campionato, sono state una dichiarazione d’intenti sul futuro della Roma. Sulla volontà di proseguire un percorso iniziato in medias res, partito bene e terminato con più di qualche affanno, senza che per questo lo spirito si fiaccasse.
Il passaggio della Roma da Mourinho a De Rossi
La sterzata di cui parlava De Rossi, a dire il vero, era già arrivata nel suo primo giorno a Trigoria, quando aveva preso in eredità da Josè Mourinho una squadra prosciugata delle proprie energie mentali prima ancora che del proprio gioco. L’ultimo prestigio riuscito all’allenatore portoghese era stato quello di far credere a una piazza intera che dai giocatori in rosa non sarebbe stato possibile ottenere nulla di buono, se non attraverso la riduzione all’osso di qualsiasi momento esaltante di una partita. La strada per la vittoria sarebbe necessariamente dovuta passare per un calcio apocalittico, dove la distruzione del gioco altrui prendesse il sopravvento sulla creazione del proprio gioco in ogni singolo istante. La distruzione che quindi diventava essa stessa fonte di spettacolo, incapace di sostenersi su trame tattiche elaborate o sulle invenzioni dei singoli, isolati o sacrificati sull’altare della sofferenza: la squadra di Mourinho era diventata fin troppo reattiva, abituata a lunghe fasi di difesa posizionale in attesa di uno spiraglio di verticalità che potesse liberare le doti atletiche di Lukaku e quelle tecniche di Dybala. Ma più la concentrazione difensiva aumentava, più la capacità di offendere si esauriva. Dopo una mesta sconfitta contro il Milan per 3-1, i Friedkin hanno probabilmente intravisto prima degli altri la possibilità che il progetto iniziato tre anni prima e mai decollato – dal punto di vista tecnico – potesse implodere su sé stesso, e hanno preso la decisione di esonerare Mourinho in favore dell’unico allenatore che godesse di un credito verso i tifosi tale da non far rimpiangere il portoghese, che aveva nascosto fino ad allora le fragilità della sua squadra dietro un atteggiamento gladiatorio.
De Rossi ha subito scoperto il velo, mostrando che un tipo di calcio diverso non solo era possibile, ma addirittura auspicabile. Ha reso la squadra propositiva, alzandone il baricentro e facendo del pressing alto un suo tratto distintivo. La Roma ha cercato di tenere di più il pallone, fin dalla prima costruzione. Il numero di tocchi della squadra sotto la gestione De Rossi è aumentato sensibilmente rispetto alla media dell’era Mourinho; è accaduto praticamente in tutte le zone di campo: nella propria area, nella trequarti difensiva e nella trequarti centrale. I passaggi verso il portiere sono aumentati, così come in generale il numero di passaggi effettuato ogni 90’, sintomo di come la squadra cercasse di arrivare in maniera meno verticale alla porta avversaria, ma attraverso azioni più ragionate. La Roma però ha anche iniziato a subire di più: delle prime dieci partite con più tiri nello specchio subiti, in otto occasioni la squadra era allenata da De Rossi. L’impressione da fuori è che la rosa non fosse atleticamente attrezzata per esaudire sul lungo periodo le richieste del nuovo allenatore, che richiedeva un tipo di pressing decisamente più intenso rispetto al suo predecessore. Spesso la Roma si è trovata a difendere – male – in transizione, perché con tanti giocatori sopra la linea del pallone diventava difficile ripiegare; col tempo la difficoltà è andata crescendo, causa la perdita di brillantezza di alcuni giocatori. Non è un caso che El Shaarawy sia stato il simbolo della Roma nel finale di stagione: è sembrato uno dei pochi in grado di mantenere un buon compromesso tra qualità e intensità, e di farlo con continuità.
Le attenuanti, per De Rossi, sono state tante: l’arrivo in corsa, una preparazione atletica e dei giocatori ereditati dal precedente allenatore. Le sessioni di mercato fino a gennaio sono state opera del precedente DS, certo, ma avallate da Mourinho in larga parte, se non nel merito dei singoli nomi – e su questo punto c’è più di qualche dubbio – almeno nella tipologia di giocatori da prendere per costruire un certo tipo di squadra: a centrocampo sono arrivati calciatori come Paredes, Renato Sanches, Aouar, che per motivi diversi non hanno aggiunto qualità alla Roma, anzi hanno contribuito a sottrarla: Paredes, inserito nel sistema mourinhano, ha potuto abbracciare il suo lato oscuro e si è trasformato in un semplice distruttore di gioco; Renato Sanches ha passato più tempo in infermeria che in campo; Aouar non è riuscito a dare quello che ci si aspettava, e non è un giocatore di costruzione. Lo stesso Pellegrini, in zone più avanzate di campo ha fatto fatica a legare il gioco con Mourinho, mentre è diventato indispensabile per le manovra della Roma di De Rossi. Di Bove e Cristante, sappiamo quali siano le qualità, e sappiamo che non possono essere usate per creare e mantenere il possesso del pallone.
I motivi per i quali la Roma dovrebbe ripartire da Le Fée
De Rossi si ritrova oggi a dover costruire, più che ricostruire, una squadra nuova. L’idea dell’allenatore e della dirigenza è quella di invertire la tendenza a creare un instant team fatto di giocatori presi a parametro zero, che possano magari dare qualcosa nel breve ma che non diano garanzie nel lungo periodo, sul rendimento (Lukaku, Renato Sanches) o sulla permanenza (Matić, Dybala). Quando in conferenza stampa parla di “creare qualcosa di più duraturo”, sicuramente si riferisce a dare maggiore stabilità al suo progetto tecnico, ma è una stabilità che passa attraverso la programmazione prima di tutto degli acquisti di mercato, che dovranno essere funzionali al suo gioco e futuribili.
Sotto questo aspetto, Enzo Le Fée può essere considerato come un acquisto-manifesto del nuovo corso della Roma. Il centrocampista ex Lorient aveva scelto di accasarsi al Rennes alla fine del campionato scorso, rifiutando le diverse possibilità di trasferirsi in Germania. Un anno di permanenza non facile tra i rossoneri lo ha convinto a scegliere di continuare la sua carriera alla Roma, che ha speso 23 milioni di euro per portarlo sulle sponde del Tevere. Il nuovo DS Florent Ghisolfi, che viene da anni di militanza in Ligue 1 prima da giocatore, poi da allenatore e infine proprio da DS al Nizza, sa bene cosa potrebbe portare il calciatore francese ai giallorossi, anche dopo una stagione opaca che lo ha visto scomparire dai radar per i troppi infortuni nella sua ultima parte.
Pur avendo giocato soltanto 30 gare in quest’annata, le qualità di Le Fée saltano subito all’occhio. È prima di tutto un giocatore duttile, che in carriera ha coperto diversi ruoli a centrocampo, e lo ha fatto con diversi compiti. Al Lorient era partito da trequartista, prima di essere utilizzato come mezzala sinistra e di venire ancora arretrato nell’ultima parte della sua esperienza. L’arretramento graduale è avvenuto perché nell’ultima stagione al Lorient il suo ex allenatore, Régis Le Bris, si era reso conto della sua dinamicità sia in fase di possesso che in fase di non possesso: avrebbe potuto portare più qualità e intensità alla manovra partendo da dietro, dove le sue doti sarebbero spiccate maggiormente, piuttosto che andando a imbottigliarsi in zone di campo che ne avrebbero ristretto la capacità di agire. È nella progressione palla al piede che il ventiquattrenne si esalta, e dargli più campo da vedere e da percorrere gli permette di sfruttare al meglio la sua capacità di risalire il campo in conduzione.
Tra i centrocampisti in Europa è nel 98° percentile per distanza percorsa palla al piede, e nel 92° per quanto riguarda la distanza progressiva, a significare che la conduzione non è volta soltanto a mantenere il possesso del pallone, ma a cercare di far avanzare l’azione e renderla pericolosa. Le Fée prova a farlo non solo attraverso conduzioni individuali, ma anche scaricando il pallone ai compagni, sempre in avanti e sempre scegliendo soluzioni che diano pericolosità alla manovra offensiva: è nel 90° percentile per passaggi filtranti, e in media effettua 1,7 passaggi fondamentali a partita – ovvero passaggi che portano i compagni direttamente al tiro. Non si limita solamente a condurre e scaricare il pallone, ma aiuta la manovra offensiva a non rimanere sterile: tocca spesso il pallone sulla trequarti offensiva e contribuisce a portarlo dentro l’area – 1,5×90’, 90° percentile.
Dal punto di vista difensivo, invece, Le Fée si configura come un calciatore con l’argento vivo addosso. Pur non essendo particolarmente prestante – 69 kg per 173 cm – riesce a fare dell’intensità la sua arma migliore. Non sarebbe adatto a una squadra che volesse fare della difesa posizionale a oltranza la sua caratteristica principale – la Roma della passata stagione, per intenderci – essendo poco efficace nello schermare le linee di passaggio e nei contrasti aerei; piazzarlo davanti alla difesa con l’obiettivo di fargli intercettare quanti più palloni possibili sarebbe controproducente in primis per lui, che si ritroverebbe ad affrontare a viso aperto avversari che lo metterebbero facilmente in difficoltà nell’uno contro uno – Le Fée è riuscito a contrastare solo il 45% dei dribbling tentati contro di lui – e nelle chiusure degli spazi – 0.97 intercetti e 0.92 blocchi a partita.
D’altra parte, De Rossi ha già mostrato nella seconda parte dello scorso campionato di non voler proseguire con una strategia difensiva conservativa, ma di andare a pressare più in alto gli avversari, mescolando difesa a uomo e a zona. Le Fée sarebbe l’uomo perfetto per una Roma che vuole adottare questo approccio: è un giocatore che si esalta nelle fasi di pressing, trovandosi nell’1% dei centrocampisti che effettuano più contrasti nella trequarti offensiva, ed in generale andando a contrasto spesso all’interno di una partita – 2,73×90’; di tutti i contrasti, in media ne vince il 70%. In molti casi, quindi, non si limita soltanto a rallentare l’azione avversaria, ma recupera palla con l’obiettivo di andare subito in verticale. Anche il numero di contrasti nella propria trequarti lo vede in alto tra i pari ruolo, sintomo della sua generosità nel ripiegare difensivamente dopo essersi proiettato in avanti.
I problemi di Le Fée
Le Fée sembra un profilo perfettamente in linea con le idee tattiche che De Rossi ha cercato di mettere in pratica lo scorso anno nella sua Roma: è un giocatore che riesce a rendersi utile in entrambe le fasi, duttile – anche se preferisce posizionarsi e ricevere il pallone sul centrosinistra – e con un livello tecnico mediamente superiore rispetto agli altri centrocampisti della rosa. Ci sono però delle incertezze che lasciano qualche dubbio su quanto riuscirà a incidere in questa Roma. Il primo dubbio riguarda la sua tenuta fisica: Le Fée è stato fuori un mese e mezzo per un infortunio alla coscia nello scorso campionato, e non è rientrato al cento per cento, perdendo il posto da titolare e subentrando spesso dalla panchina. Nell’arco di tutta la stagione ha accusato infortuni fisici di varia natura, ed è il motivo per cui è riuscito a giocare soltanto 1.500 minuti in tutto il campionato scorso. La Roma dello scorso anno, soprattutto nella prima parte di campionato, è stata falcidiata dagli infortuni, e la coperta a centrocampo è sempre rimasta corta. Aggiungere un giocatore che sotto questo punto di vista non dà totale affidabilità potrebbe essere un rischio.
Il secondo motivo per cui il suo acquisto suscita qualche perplessità è legato alla concorrenza che il giocatore potrebbe trovare nel suo ruolo di competenza, e cioè quello di mezzala sinistra. In quella zona di campo, infatti, ha gravitato Lorenzo Pellegrini sotto la gestione De Rossi. Il capitano della Roma è sembrato il giocatore maggiormente rivitalizzato dopo il cambio di allenatore, e i suoi numeri offensivi sono migliorati sensibilmente nella seconda parte di campionato. È vero anche lui, come tutti i suoi compagni, nell’ultimissima parte della passata stagione ha subito una flessione importante, ma il suo calo di rendimento gode delle stesse attenuanti che abbiamo menzionato per i risultati ottenuti dalla nuova guida tecnica.
I numeri di Pellegrini in fase offensiva sono decisamente migliori di quelli di Le Fée – più tiri, più tiri in porta, otto reti contro le zero del centrocampista francese –, che però dalla parte sua gode di statistiche migliori nel possesso, nei passaggi e nei contrasti effettuati e vinti. La sensazione è che, sebbene il capitano giallorosso riesca ad essere uno degli uomini offensivi più pericolosi di questa Roma, Le Fée potrebbe garantire più solidità alla squadra, al contempo permettendo ad altri di diventare pericolosi. Agirebbe, insomma, come una sorta di scudiero per i compagni che presentano doti tecniche ancora più spiccate di lui. Ma Pellegrini è tra questi, e sarebbe un peccato privarsi della sua pericolosità offensiva.
De Rossi dovrà cercare di far convivere i due, provando a cambiare modulo o dirottando Pellegrini ancor più sull’esterno – come fatto da Spalletti in questi campionati Europei, ad esempio. Un 4-3-3 con Pellegrini alto a sinistra permetterebbe di avere Le Fée nella sua posizione preferita, a costo di abbassare leggermente la pericolosità del romano, che ha mostrato di trovarsi più a suo agio in posizioni in cui può fare da raccordo tra centrocampo e attacco. L’alternativa potrebbe essere quella di spostare Le Fée o lo stesso Pellegrini sul centrodestra, dando vita a un centrocampo decisamente più tecnico di quello della passata stagione, ma che forse perderebbe molto in solidità difensiva; starebbe a De Rossi, in questo caso il compito di trovare i contrappesi giusti per far funzionare questo tipo di centrocampo, magari con l’inserimento di terzini che siano meno di spinta e di El Shaarawy, che aiuterebbero in fase di copertura. L’ultima opzione potrebbe essere quella di passare definitivamente a un 4-2-3-1 con Pellegrini trequartista e Le Fée accanto a un mediano che riesca a proteggerlo. Difficile dire se il bretone, arretrato di qualche metro in un centrocampo a due, riuscirebbe a provare allo stesso modo le sue qualità, non avendo le stesse libertà nel condurre il pallone in avanti e dovendo smistare più frequentemente il pallone, dettando i tempi del gioco. Difficile anche immaginare che riesca a mantenere la stessa efficacia difensiva, dovendo fare maggiore affidamento alla lettura del gioco e meno alla propria intensità.
Al (semi)nuovo allenatore della Roma spetterà il compito di mettere a sistema due giocatori di alto livello, provando contemporaneamente a valorizzarne i punti di forza e a nasconderne i limiti. Se riuscirà nell’intento, i giallorossi potranno dire di aver posto la pietra angolare per il nuovo progetto, una pietra che dia alla sua architettura una solidità tangibile e non di facciata, come paventato negli ultimi anni. Se non sarà così, i dubbi sulla bontà della programmazione torneranno a farsi insistenti, e l’idea che a Trigoria si stia continuando a navigare a vista diventerà praticamente certezza.
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