Liverpool Klopp

Il Liverpool di Jürgen Klopp, we’ll never walk alone again

Le Squadre PSS Slider

Il 19 maggio del 2024, Jürgen Klopp ha guidato per l’ultima volta il Liverpool, chiudendo un percorso straordinario durato otto anni e mezzo. Il rapporto simbiotico tra l’allenatore tedesco e i Reds ha generato un’esplosione emotiva incredibile al termine della partita, con uno scambio di abbracci a distanza talmente potente da non poter lasciare impassibile neanche il più cinico degli appassionati. I più sensibili e navigati non devono aver faticato troppo a cogliere i legami con l’addio al Borussia Dortmund: si chiudono gli occhi tornando a quel lontano pomeriggio del 2015 e si riaprono anche solo dopo un istante realizzando quanto poco sia bastato per renderli nuovamente lucidi, al cospetto di una figura che a distanza di anni ha conquistato anime e fatto battere cuori all’unisono con la naturalezza propria solo dei grandissimi.


Liverpool calling

La macchina del tempo è ferma sempre al 2015, la squadra rossa della città dei Beatles naviga in acque torbide con Brendan Rodgers in panchina e i tifosi hanno ovviamente ancora nella loro mente lo scivolone di Steven Gerrard, generatore costante di incubi. Un campionato di alta classifica in mezzo a due campagne deludenti non è sufficiente ad alimentare speranza, e la cessione di Luis Suárez contribuisce ad amplificare gli strascichi della delusione cocente impossibile da smaltire.

Il telefono di Klopp, in vacanza con la famiglia a Lisbona, squilla a ottobre e non si ferma più, scatenando da subito l’entusiasmo dei figli e la soddisfazione della moglie Ulla Sandrock, decisiva quasi sempre nell’accompagnare le scelte di Jürgen durante la sua carriera, soprattutto quando, non troppo tempo prima, consiglia al marito di non cedere all’interessamento del Manchester United, intuendo in anticipo che di lì a poco sarebbe arrivata la chiamata giusta, quella che lo avrebbe portato a scrivere la storia a Liverpool.

Riascoltare oggi la conferenza stampa di presentazione è un esercizio doveroso per comprendere quanto sia stata profetica la visione del tedesco dal carisma magnetico, con il solito sorriso contagioso che lascia trapelare l’emozione di aver ricevuto un incarico così prestigioso. Le massime di quel giorno destinate ad essere poi ripescate e ricordate sono tante – partendo dalla definizione di «Normal One» che lui si attribuisce autonomamente sino ad arrivare al calcolo esatto del tempo necessario a vincere il primo trofeo. Ciò che impressiona non è solo la credibilità della sua comunicazione, ma anche la capacità innata di danzare tra l’ironia e la seria focalizzazione sul percorso da intraprendere.

La sensazione di aver fatto centro è da subito chiara sia per la società che per i tifosi: d’altronde Klopp non ha semplicemente vinto due titoli consecutivi in Germania con una squadra diversa dal Bayern Monaco, ma ha anche fatto rinascere dalle ceneri e plasmato a sua immagine e somiglianza una realtà ancor più in difficoltà rispetto al Liverpool di quel periodo. La fiducia è enorme, ma senza il coraggio di difendere la scelta e supportare l’allenatore nei momenti difficili avrebbe perso qualsiasi valore, a testimonianza del fatto che nel calcio, a prescindere da quanto si possa essere speciali e incidere più del dovuto, nessuno vince da solo, perché ogni singola particella di un club è fondamentale con le proprie funzioni per il raggiungimento dei risultati.


Nella fine il principio

L’impatto di Klopp a Liverpool è immediato, nonostante il livello della rosa non altissimo. Se la corsa in campionato non decolla, lo stravolgimento dal punto di vista della metodologia degli allenamenti comincia ad aggiungere al calderone due degli ingredienti principali della ricetta: verticalità e intensità. Le fasi elettriche, seppur ancora alterne per ovvi motivi, bastano a rendere entusiasmante il cammino in Europa League fino all’ultimo atto, con il Siviglia di Unai Emery pronto però anche in quella circostanza a cannibalizzare la competizione. Di solito una sconfitta tende a spegnere la luce nella squadra, ma l’allenatore tedesco riesce ad alterare l’amarezza del sapore, ribaltando le energie e indicando il principio in una fine solo apparente. La partita iconica proprio contro il suo Borussia Dortmund, nel quarto di finale di ritorno, è la prima vera tappa del memorabile viaggio: una rimonta da 1-3 a 4-3 in poco meno di mezzora che riaccende la fiamma divampante di Anfield e segna in maniera inevitabile il percorso «from doubters to believers» tracciato sempre da Klopp nel giorno del suo arrivo.

Nell’annata 2017/2018 i Reds sono protagonisti di un’altra grande campagna europea, questa volta in Champions League, ma devono arrendersi di nuovo sul più bello alla maestosità del Real Madrid e alla prestazione drammatica di Loris Karius, kamikaze inconsapevole dopo l’uscita prematura dal campo di Salah per un intervento di Sergio Ramos. Non sono rari i momenti in cui ci si ritrova a pensare che il calcio sia stato inventato dal Diavolo, e l’interpretazione dei segnali nefasti contenuti all’interno della seconda bastonata consecutiva sembra poter avere vita facile anche contro il più inguaribile degli ottimisti, ma è forse questo il momento in cui l’energia positiva di Klopp conquista definitivamente i suoi giocatori. Il flusso degli eventi avrebbe probabilmente affossato la maggior parte degli allenatori del mondo, ma la capacità del tedesco di risollevare e ridisegnare la strada porta la squadra a puntare lo sguardo verso l’alto e a visualizzare il grattacielo prima che venga costruito, cancellando dalla mente la depressione delle macerie.

Nel processo di modellamento della rosa, la partenza di Coutinho per la cifra monstre di 135 milioni di euro – ancora oggi quarto acquisto più costoso di sempre – e l’arrivo del gigante corazzato di nome Virgil van Dijk rappresentano due mattoncini pesantissimi per il futuro.


Anatomia di un trionfo

La sceneggiatura della finale di Champions League del 2018 non lascia spazio a interpretazioni sulle priorità assolute in sede di mercato del Liverpool. Il resto del tesoretto ancora a disposizione derivato dalla cessione al Barcellona di Coutinho viene investito senza troppi fronzoli su un altro brasiliano, Alisson Becker, messosi in mostra a Roma e testimone impotente anche da avversario del 5-2 dell’anno prima ad Anfield nella semifinale europea di andata. Il filo invisibile generato dalla connessione tra il portiere e van Dijk instaura la potenza necessaria ad avvicinare la macchina rosso fiammante alla versione migliore possibile e quindi definitiva.

Sono ormai tantissimi i giocatori cambiati rispetto alla primissima stagione: l’importanza del reparto più importante di tutti, ovvero il centrocampo, comporta per esempio l’ulteriore aggiunta di Fabinho, equilibratore eccezionale nonché chiave di volta difensiva di un sistema che grazie alle sue letture e ai suoi intercetti riesce a essere solido e allo stesso tempo intenso; il naturale completamento della spina dorsale della squadra avviene invece grazie a un elemento presente già con Rodgers ma trasformato sapientemente da Klopp, Roberto Firmino. Con i suoi movimenti a venire incontro, il terzo brasiliano della cerniera è il regista avanzato della squadra, cuce il gioco con sensibilità tecnica sopraffina e si impone sul rettangolo verde come tessera chirurgica di un puzzle in cui le due saette africane, Sadio Mané e Mohamed Salah, assaltano gli spazi da lui creati e danno forma e significato anche alle ultime parole presenti nel dizionario dell’allenatore tedesco. Il passaggio dal Lewandowski di Dortmund a Firmino spiega perfettamente come le direttive di gioco siano legate ai principi di base e allo stesso tempo flessibili in base alle caratteristiche degli interpreti.

La stagione è straordinaria, ma anche questa volta sembra contrassegnata dalla beffa tragicomica. Nessuna squadra nella storia del calcio è mai riuscita a non vincere un campionato mettendo a referto 97 punti, eppure l’assurdo verdetto sancito dall’ultima giornata riceve in risposta applausi scroscianti e saluti calorosi a un gruppo che ha ormai introiettato i valori del proprio allenatore e ha annusato la maturazione della svolta assoluta.

Il primo giugno del 2019, il giorno della seconda finale di Champions League di fila, il Liverpool di Jürgen Klopp non è mai stato eliminato in un doppio confronto di una competizione europea. La partita contro il sorprendente Tottenham di Mauricio Pochettino è lontana dai picchi di entusiasmo del percorso che ha condotto al traguardo, ma rappresenta il manifesto della piena consapevolezza raggiunta dalla squadra, che dopo aver dimostrato di saper giocare divinamente, gestisce nel momento topico la propria superiorità nei confronti dell’avversario dopo il vantaggio immediato e raggiunge l’obiettivo con un pizzico di sana praticità, accettando di prendersi dei rischi legati anche alla pressione di una vittoria tanto attesa quanto meritata.

La miscela di gioia e liberazione racchiuse nell’espressione di Klopp al momento dell’alzata della coppa è un libro aperto ed emozionante fatto di parole accessibili solo a chi conosce la sua storia dagli albori. L’abbraccio paterno con Jordan Henderson, capitano spesso ritenuto non idoneo al prestigio della fascia, stringe benissimo l’inquadratura sulla profondità del rapporto umano e non solo professionale tra l’allenatore e i suoi giocatori.



Sliding door

Il calcio è meraviglioso non solo per le giocate e le interpretazioni degli attori principali sul campo, ma anche perché per quanto lo si voglia controllare attraverso gli infiniti strumenti a disposizione, è governato da dinamiche che sfuggono alle nostre possibilità. Lo sport che amiamo è ricco di situazioni e fotogrammi in movimento che hanno orientato con potenza inafferrabile la storia di squadre, giocatori e allenatori.

La sliding door per antonomasia del Liverpool di Klopp e in un certo senso della carriera dell’allenatore tedesco è senza nessun dubbio la parata di Alisson allo scadere contro il Napoli di Ancelotti, nel match da dentro o fuori nel girone di Champions League. Senza quel miracolo, con il brasiliano a immolarsi facendo scudo come una montagna al tiro a botta sicura di Arek Milik, questo articolo non avrebbe visto la luce, e probabilmente oggi Klopp sarebbe apprezzato per la sua schiettezza ma non ritenuto poi così capace, sulla scia della celeberrima uscita di Fabio Caressa, che avrebbe avuto una risonanza opposta facendo riferimento a tutti gli effetti al perdente di lusso.

Quella sequenza di immagini, datata 11 dicembre 2018, è impetuosa a distanza di anni, non solo perché ogni replay continua ancora a far sobbalzare il cuore e a incentivare lo schermo nero, suggerendo al tempo stesso paura e desiderio di un esito diverso a seconda del punto di vista, ma anche perché madre indiretta della partita che ha iscritto definitivamente Klopp alla categoria delle leggende, dando quasi per scontata la vittoria della coppa che di lì a poco sarebbe comunque arrivata: Liverpool-Barcellona 4-0.

I Reds arrivano all’appuntamento con più di una montagna da scalare, dopo il 3-0 parecchio bugiardo della gara d’andata e le assenze di Salah e Firmino, ma l’atmosfera grida alle occasioni uniche e il clima sembra da subito stonare con l’utopia dell’impresa. L’egiziano viene immortalato nei pressi della panchina con una maglia che recita «Never Give Up». Il messaggio è chiaro, impossibile da non assorbire con ogni cellula del corpo.

L’epicità dell’evento è scandita da un ritmo incessante, con la corsa dei giocatori alimentata dalle fiamme dell’inferno e l’aura eroica pronta a circondare protagonisti inaspettati. L’1-0 del primo tempo è un parziale che può significare tutto e niente, se non fosse che all’intervallo Robertson si rende conto di non poter proseguire la gara. Scatta in quel momento il racconto dell’impossibile, attraverso una serie infinita di immagini in grado di comunicare da sole, tenendo conto di quanto sia complesso trovare parole adeguate per scannerizzare le emozioni profonde. Al posto dello scozzese entra Gini Wijnaldum, che segna una doppietta in pochi minuti, mentre Divock Origi cristallizza il poker nella maniera più letteraria possibile, servito dal genio di Trent Alexander-Arnold sugli sviluppi di un calcio d’angolo che trova il suo posto nei manuali nell’esatto momento in cui viene battuto. Forse «You’ll Never Walk Alone» non è mai stato potente e irreale come quella sera, dopo il triplice fischio.



La Premier League trent’anni dopo

La stagione successiva prosegue il viaggio all’interno di una dimensione superiore e inafferrabile, con il trionfo europeo che conferisce al gruppo una forza propulsiva tradotta in numeri quasi mai vista prima nella storia della Premier League. Nel biennio in questione, il Liverpool di Klopp colleziona 196 punti complessivi in campionato a fronte di 30 vittorie nel 2018/2019 e addirittura 32 nel 2019/2020, vince 24 partite consecutive in casa da febbraio 2019 a luglio 2020 e 18 di fila in generale tra ottobre 2019 e febbraio 2020, eguagliando il Manchester City di Pep Guardiola. Solo tre allenatori sono riusciti a sottrarre un titolo nazionale al catalano: Josè Mourinho con il Real Madrid, Antonio Conte con il Chelsea e Jürgen Klopp con il Liverpool. I Reds, per poter avere la meglio, devono raggiungere quota 99 – due lunghezze dal record assoluto – facendo tra l’altro i conti con un periodo storico nefasto, durante il quale il calcio viene sopraffatto dal COVID-19 e si ferma all’interno di una bolla senza conoscere il proprio futuro nel breve termine.

Immaginate un popolo che attende un evento così grande da trent’anni ed è costretto a riporre quel sogno prossimo finalmente alla realizzazione nel cassetto impolverato, completando una sorta di rituale di rassegnazione di fronte ad un’inevitabile maledizione. Poco prima dello scoppio della pandemia, il Liverpool sale anche sul tetto del mondo, e a distanza di pochi giorni dalla finale contro il Flamengo e dal rientro in Inghilterra annienta 0-4 il Leicester dell’ex Brendan Rodgers, portando a casa la diciassettesima vittoria nelle prime 18 giornate di Premier League, con in mezzo solo il pareggio ad Old Trafford contro il Manchester United. Nessuno all’interno dell’ambiente si sbilancia, ma non c’è un singolo elemento che non autorizzi a prendersi beffe della scaramanzia e ad approcciare qualche timido canto di trionfo anticipato.

La stagione riprende dopo la paura, e se le immagini della festa con lo stadio vuoto non possono non continuare a trasmettere un senso di profonda amarezza. Resta la certezza che, sulla base della cruda realtà dei fatti, i tifosi avrebbero firmato ad occhi chiusi per questo compromesso, perché l’unica alternativa credibile si sarebbe tradotta in una cancellazione del campionato con conseguente titolo non assegnato. I pianti di una tragedia umanitaria che in pratica avrebbero lasciato il posto alle risate isteriche di una catastrofe non prevedibile.



Valorizzazione dei giocatori e gestione delle risorse umane

John William Henry, nel corso dei suoi anni di proprietà, ha deciso di adattare il metodo “Moneyball” degli Oakland Athletics anche al calcio. Le “fredde” analisi scientifiche di un team specifico arrivano però a fondersi con l’imprescindibile componente umana, mentale, empatica e tattica di un allenatore come Jürgen Klopp. Durante la gestione del tedesco i Reds diventano un modello di riferimento sia in campo che fuori, proponendosi come esempio sul piano della conduzione di un’azienda e tracciando un sentiero dal punto di vista dell’investimento sapiente delle risorse a disposizione. Secondo Transfermarkt, al termine della stagione 2023/2024, il Liverpool era la dodicesima squadra in Europa per indice di spesa netta, ultima tra le “Big Six” d’Inghilterra, ma allo stesso tempo seconda per numero di trofei vinti alle spalle ovviamente del Manchester City.

Il processo di trasformazione della rosa porta la macchina ad essere disegnata e perfezionata in maniera chirurgica, misurando la portata degli acquisti in base al peso specifico all’interno del sistema e alla futuribilità.

Individuare in Mohamed Salah e Virgil van Dijk i due giocatori simbolo di questo ciclo è un’impresa alla portata di tutti: l’egiziano, nel passaggio da Spalletti a Klopp, impara prima a stare in campo e poi a sprigionare la sua forza in un contesto cucito su misura sulle sue caratteristiche, trovando un’impressionante continuità di rendimento con standard sempre elevatissimi; il colosso olandese, invece, è il giocatore più importante di tutti, capace di governare un intero reparto e di difendere con enorme campo alle spalle senza dare la sensazione di sudare, alzando il livello prestazionale di tutti i suoi compagni e consentendo di fatto alla squadra di dominare con il baricentro altissimo; esaltante anche la parabola di Sadio Mané, che da scheggia impazzita cresce di stagione in stagione nella gestione del proprio volume di gioco, fino ad abbracciare un percorso di maturazione tale da consentirgli di svariare su tutto il fronte offensivo, ampliare in maniera raffinata il repertorio dei movimenti e sensibilizzare la freddezza negli ultimi metri.

Nessuna squadra di alto livello può prescindere dallo spessore del centrocampo, il cuore e il cervello del gioco sul rettangolo verde. L’evoluzione a 360 gradi di Georginio Wijnaldum con Klopp in panchina sfrutta l’assist di questa considerazione e strizza l’occhio ad una delle massime del tecnico: «No playmaker in the world can be as good as a good counter-pressing situation». L’intensità e i tempi di pressione e riaggressione nelle zone di campo giuste costituiscono l’innesco delle transizioni supersoniche offensive e le chiavi di volta dell’equilibrio della struttura in fase di non possesso.

Ripercorrendo dagli albori la carriera dell’olandese, è constatabile come alla facilità e frequenza realizzativa delle prime esperienze e dei tempi del Newcastle si sia poi aggiunta non solo l’abilità di abbassarsi per ricevere il pallone, ma anche di occupare praticamente ogni settore del terreno di gioco a seconda della partita o situazione specifica, grazie ad un’intelligenza tattica sottovalutata e a una predisposizione alla comprensione del gioco cresciuta in maniera esponenziale. Il tutto sempre nel pieno rispetto del suo spiccato senso di inserimento senza palla.

Il capolavoro attira però i riflettori sulle fasce laterali, perché la coppia composta da Alexander-Arnold e Robertson riscrive la peculiare influenza degli esterni in uno sport in costante mutamento: lo scouser e lo scozzese violentano i parametri legati alle statistiche individuali offensive degli interpreti del loro ruolo, raggiungendo sistematicamente la doppia cifra di passaggi vincenti e creando una distanza abissale nei confronti dei loro colleghi dal punto di vista della centralità e dell’incisività nell’ultimo terzo di campo. Il costo complessivo della “doppia operazione” è 9 milioni di euro, ovvero quelli spesi per acquistare il terzino mancino dall’Hull City, visto che Trent viene plasmato da Klopp direttamente dall’Academy del Liverpool, esordendo in Premier League a 18 anni.



Il Quadruple sfiorato

Il quinto e il settimo anno sono stati sicuramente i più difficili del ciclo Klopp a Liverpool. I problemi di queste due stagioni condividono in un certo senso la stessa radice, con alla base una squadra che ha reso abitudinario in più di una circostanza il fatto di andare oltre i propri limiti. Nel primo caso, complice anche la pandemia a indirizzare ancora le vite di tutti e i tantissimi infortuni, il gruppo paga essenzialmente il biennio precedente, che tra risultati e continuità di prestazioni arriva a prosciugare le energie psicofisiche di una squadra vincente in tutte le competizioni principali; la seconda circostanza, invece, è soprattutto figlia di una singola stagione irripetibile e massacrante sotto tutti i punti di vista, conclusasi con “solamente” gli ultimi due trofei reclamati dalla bacheca di Anfield – FA Cup e Coppa di Lega – e nella quale vengono giocate tutte le partite possibili e immaginabili. Una stagione che, paradossalmente, pur non avendo portato per un soffio di nuovo alla Premier League e alla Champions League, viene assorbita come se invece fosse accaduto il contrario, instaurando nei giocatori in maniera automatica e inconsapevole la convinzione che il massimo sia stato dato e rendendo di conseguenza estremamente difficile il lavoro dell’allenatore.

La grandezza di Klopp è da sempre legata anche alla sua umanità, che lo porta a riconoscere gli errori commessi quando le cose non vanno come si vorrebbe. Uno dei principali si ramifica in realtà da un suo pregio, ovvero la capacità di far sentire tutti importanti, e gli si ritorce contro. Il rovescio della medaglia lo priva della forza e della lucidità di riconoscere in quell’annata il canto del cigno di un ciclo glorioso, con il processo di restaurazione del centrocampo che subisce un ritardo sul piano del ricambio di alcuni uomini chiave fino a quel momento.

La portata del Quadruple sfiorato nell’annata 2021/2022 è ai limiti del surreale, manifesto emblematico della spietatezza dei dettagli quando ti ritrovi a pesarli dalla prospettiva infelice. L’innesto chirurgico di Thiago Alcántara, uno dei pochissimi, se non l’unico, ad essere arrivato a Liverpool con lo status di consacrazione già abbondantemente conquistato, si rivela decisivo per la gestione del ritmo e delle energie all’interno della singola partita, incidendo purtroppo molto meno del dovuto nel lungo termine a causa della cronicità dei suoi problemi fisici. La capacità del centrocampista spagnolo di regolare i battiti attraverso il controllo del tempo permette ai Reds di accettare anche un contesto tattico a velocità ridotte, nel quale i giri del motore non sono sempre forsennati e il pressing viene sapientemente modulato nell’altezza e nell’intensità. 

La rimonta del Manchester City all’ultima giornata contro l’Aston Villa di Gerrard e una prestazione da 10 in pagella di Thibaut Courtois in finale di Champions League cancellano parzialmente dalla mente dei tifosi e degli addetti ai lavori il valore di una stagione potenzialmente leggendaria, ma enorme a prescindere nel suo complesso. Sarebbe stato bellissimo poterla ripercorrere attraverso un documentario stile ‘All or Nothing‘ per toccare con mano la sensibilità unica di Klopp nella gestione delle risorse umane, prima ancora che tecniche. La parata in bus nonostante il finale amaro riceve recensioni anche ironiche, ma il coinvolgimento attivo della città è un segno di riconoscimento evidente del lavoro enorme dell’allenatore, dello staff e dei giocatori.


Il dualismo con Guardiola

Il battesimo di fuoco della storia incrociata di Jürgen Klopp e Pep Guardiola avviene il 27 luglio 2013, in occasione della Supercoppa di Germania. Il Borussia Dortmund batte 4-2 il Bayern Monaco e inaugura uno dei capitoli più entusiasmanti dell’era contemporanea sul rettangolo di gioco, soffermandosi in quella circostanza sulla reazione di entrambi gli allenatori in seguito al triplice fischio: la corsa sfrenata del tedesco verso i tifosi gialloneri e lo sguardo ancora concentrato e pensieroso del catalano, consapevole forse sin da subito di aver trovato un avversario degno della sua genialità e un’autentica kryptonite dal punto di vista tattico.

In mezzo al primo confronto ufficiale e il trentesimo finale tra i due allenatori, il calcio è in grado di raccontare una delle rivalità più alte e allo stesso tempo sane che siano mai esistite, costellata da enorme rispetto reciproco e fine sapienza nell’accompagnamento dei processi evolutivi delle loro squadre, in grado di assorbire vicendevolmente i rispettivi punti di forza per spingersi in più di un’occasione oltre la dimensione del possibile.

Da un lato Pep, che nasce chef stellato, nel senso che lavora gli ingredienti pregiati e le materie prime come nessuno, allinea il concetto di arte a quello di vittoria e riesce a convincere giocatori di alto livello a fare cose che prima neanche pensavano pur avendo sempre a disposizione multinazionali e squadre abituate a vincere; dall’altro Jürgen, che chef stellato invece lo è diventato con la gavetta, trasformando giocatori in potenza universali solo grazie al suo tocco e facendo entrare le squadre in smoking dalla porta principale dopo averle prese in consegna spaesate e ferme all’uscita.

La mente di Guardiola è un universo a sé stante nel quale lo spazio e il tempo sono misurabili in maniera differente e in cui le idee si sovrappongono al punto da non poterne regolare la quantità e la velocità. Uno dei segreti del Manchester City in questi anni non è solo il valore complessivo superiore di base rispetto alle avversarie, ma anche l’abilità del catalano di pungolare e stimolare costantemente i giocatori a livello cerebrale, riducendo il pericolo che possano adagiarsi. E non è un caso se ogni anno emerge un protagonista diverso che fa la sua miglior stagione in carriera fino a quel momento. L’ex Barcellona ha cambiato la storia del gioco e l’ha influenzato al punto da rendere le sue squadre modello di riferimento e oggetto di studio. Ciò che invece rende unico nel suo genere Klopp è l’impossibilità di trovare chiavi di accesso credibili al suo sistema e alla sua metodologia che siano slegate dalla sua personalità e intelligenza emotiva. Il calcio del tedesco magari è meno stuzzicante dal punto di vista accademico rispetto alle geometrie chirurgiche di quello di Guardiola, ma la trasposizione sul campo può toccare quei livelli e raggiungere quella continuità nel corso del tempo solo attraverso empatia e credibilità fuori scala nei rapporti con i giocatori.

Nessuno dei due giganti è chiaramente replicabile, l’unica sottile differenza è che mentre Guardiola esercita una forza che ti illude di poterlo comprendere e di tenere il suo passo, Klopp mette da subito le cose in chiaro proponendo un pacchetto completo inapplicabile, poiché inaccessibile allo sforzo e all’esercizio. Non è per niente casuale neanche il fatto che in questo senso sia più automatica la nascita di una scuola di allenatori “figli calcistici” del catalano rispetto ad una che faccia capo al tedesco.

Le partite iconiche tra i due durante la loro convivenza in Inghilterra si contano sulle dita di diverse mani: dal 4-3 in campionato ad inizio 2018 fino ad arrivare al 3-0 nel quarto di finale di Champions League nello stesso anno ad Anfield, passando per i due 2-2 nel doppio confronto in Premier League nella stagione 2021/2022 e l’esaltante 2-3 in semifinale di FA Cup a Wembley nella stagione del Quadruple sfiorato dai Reds; gli incontri invece dall’esito più impattante per i verdetti in campionato sono il 3-1 in favore del Liverpool nel gennaio del 2023 e il 2-1 per il Manchester City all’Etihad nella stagione precedente, con il salvataggio pazzesco di Stones sulla linea richiamato spesso dal sorriso amaro di Klopp e collegato al gol vittoria di Agüero in casa del Burnley a poche giornate dalla fine. Quando i dettagli diventano millimetri e incidono come chilometri. L’unico grande rammarico è la finale di Champions League cancellata dalla rimonta del Real Madrid, che nel 2022 avrebbe portato i due pesi massimi ad affrontarsi nell’ultimo atto della massima competizione europea, nella suprema summa di questa fantastica rivalità.

Il Liverpool di Klopp è stata in ogni caso l’unica squadra in grado di reggere il confronto nel corso degli anni con il Manchester City di Guardiola per organizzazione e compattezza attraverso il baricentro alto e la risposta colpo su colpo. Senza la spinta dell’allenatore tedesco, il catalano si sarebbe annoiato più del dovuto e sarebbe stato meno propenso a trovare di volta in volta soluzioni diverse da contrapporre a quelle del collega. Come Federer e Nadal nel tennis e Messi e Cristiano Ronaldo sul rettangolo verde, due fuoriclasse della panchina, sollecitandosi a vicenda, hanno contribuito ad arricchire la narrazione calcistica con pagine indelebili e leggendarie.



End of an era

L’ultimo anno di Klopp sulla panchina del Liverpool si è chiuso con la seconda Coppa di Lega della sua gestione, nell’economia di una stagione pensata per essere di transizione e in cui invece i Reds si sono ritrovati a lottare da subito di nuovo per il titolo fino al crollo ad un passo dal fotofinish. L’impronta letteraria della sceneggiatura della finale contro il Chelsea è carica però di un significato potentissimo, perfetto per descrivere la portata del lavoro del tedesco anche negli aspetti meno tangibili e ultima tappa ideale dal punto di vista simbolico. Una piccola parte dell’immensa eredità lasciata al futuro è circoscritta anche alla visione e al coraggio con il quale ha lanciato nel momento topico diversi giovani dell’Academy, tra cui Jarell Quansah, Conor Bradley, Bobby Clark e Jayden Danns, responsabilizzandoli, rendendoli protagonisti e privandoli di qualsivoglia pressione. Dall’inizio dei tempi supplementari fino al gol vittoria di van Dijk allo scadere, i Reds hanno visto contemporaneamente in campo tra le loro file tre 2003, un 2004, un 2005 e un 2006. Al netto delle difficoltà e delle cadute, la più rovinosa contro la grandissima Atalanta di Gian Piero Gasperini in Europa League, è difficile anche per questo motivo trovare un modo più bello per chiudere un ciclo del genere.

Un ciclo caratterizzato da tre finali di Champions League, di cui una, l’unica da reale favorita, conquistata e portata a casa, una FA Cup, due Carabao Cup, una Supercoppa Europea, un Mondiale per Club e il titolo nazionale dopo trent’anni. C’è chi sostiene potesse fare di più, ma vincere tutto condividendo l’era calcistica con Guardiola e Ancelotti, forse i due allenatori più grandi di ogni tempo, è un risultato straordinario. E nel momento in cui ti ritrovi appena secondo dopo aver collezionato 97 punti prima e 92 poi in Premier League e obbligato il miglior portiere al mondo ad una prestazione sovrumana in un’altra finale di Champions, realizzi di poter solo toglierti il cappello, anzi, il cappellino, di fronte ai tuoi avversari senza andare oltre un sano e legittimo rammarico.

La verità è che Jürgen Klopp ha segnato in maniera indelebile la storia del Liverpool e ha raccolto concretamente meno di quanto seminato, imparando dai propri errori e accogliendo con leggerezza il fatto di non aver potuto trasformare i tanti singoli trofei in multipli per ragioni slegate dalle sue possibilità. Ha sempre attirato i riflettori su di sé con il suo carisma innato senza essere accentratore, sottolineando anzi l’importanza dei suoi collaboratori e non perdendo occasione di mettere al primo posto il lavoro degli altri.

Le basi affinché ci sia continuità tecnica dopo di lui sono in teoria solide, ma prendere il suo posto a tutti gli effetti è un’impresa quasi impossibile. Fa sorridere che il primo a non aver già celebrato il funerale automatico al suo successore designato, ovvero Arne Slot, sia stato proprio l’allenatore tedesco, che nel giorno dei saluti ad Anfield ha invece addirittura intonato un coro in suo onore, dando l’ennesima lezione di umanità e di cultura sportiva. Speriamo non l’ultima.


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