Il calcio è un sistema più complesso di quanto non si possa credere. Riprendendo un concetto espresso dal mitico Lobanovskyi, grande amante della matematica, una squadra è un insieme “matematico” il cui rendimento complessivo può essere maggiore o minore rispetto alla somma dei rendimenti dei singoli elementi che lo compongono. In altre parole, non è sufficiente aumentare il numero e il valore dei giocatori per ottenere migliori risultati perché ciò che determina il rendimento della squadra è, in ultima istanza, la qualità del sistema nel suo complesso, ovvero la qualità delle associazioni che si generano tra i singoli giocatori.
L’allenatore sovietico applicava una concezione olistica alle dinamiche di una squadra di calcio, un metodo che potrebbe essere ripreso per analizzare la situazione in cui il Napoli si trova impantanato alla fine del girone di andata.
Quasi nessuno pronosticava una partenza di questo genere da parte del Napoli, e non a torto: i partenopei, nella scorsa stagione, avevano dimostrato di essere una squadra estremamente solida ottenendo un tranquillo secondo posto; il mercato estivo sembrava poi aver addirittura rinforzato il Napoli, allungando la rosa e fornendo preziose alternative ad Ancelotti.
In questi ultimi anni gli azzurri hanno abituato il pubblico a exploit e prestazioni che, seppur raggiunte con modalità e metodi molto diversi tra loro, hanno permesso di collocare di diritto il Napoli tra le élite del calcio italiano. Eppure, oltre agli onori, una dimensione di tale caratura porta con sé anche alcuni oneri: in prima battuta, quando si raggiungono determinati livelli, tutto l’ambiente si aspetta una continuità di risultati difficile da mantenere e, inoltre, si sa che più in alto si osa più rischia di diventare rovinoso l’impatto al momento della caduta.
Ma la qualità di un sistema complesso non è riducibile all’acquisto estivo di alcuni profili interessanti, difatti, arrivati in prossimità del primo giro di boa della Serie A, la classifica ha collocato il Napoli di Ancelotti all’ottavo posto, a 18 punti dalla vetta.
Il presidente, i veterani e il ritiro disertato
Se pensiamo all’attuale situazione del Napoli l’unica certezza che si ha è la profonda e incolmabile frattura nella triade dirigenza-tifoseria-giocatori.
Dal canto proprio la dirigenza sembra aver fatto di tutto per rompere i rapporti con una parte della rosa: le esternazioni su Mertens e Callejon prima e il successivo ritiro “costruttivo” imposto da De Laurentis e disertato dai giocatori hanno dato una scossa all’interno dell’ambiente che sembra non essere ancora stata totalmente assorbita.
La rosa stessa è apparsa poi frammentata al proprio interno dalla presenza simultanea di giocatori che hanno caratterizzato un ciclo – Mertens e Callejon, per intenderci –, giocatori che si spera caratterizzeranno il ciclo successivo – Lozano e Milik, tra gli altri – e giocatori che hanno raggiunto il proprio apice per quanto riguarda il valore di mercato e che rischiano di svalutarsi rimanendo a Napoli – Koulibaly e Allan tra tutti.
Queste diverse anime all’interno della stessa rosa non hanno permesso al Napoli di raggiungere quell’uniformità di obiettivi e prospettive necessaria per aprire chiaramente un nuovo ciclo: come direbbe Gramsci: «Il vecchio mondo sta morendo. Quello nuovo tarda a comparire. E in questo chiaroscuro nascono i mostri»; se di “mostri” non si può propriamente parlare, il concetto è però comunque chiaro: troppo datato il vecchio progetto per essere efficace, ancora acerbo quello nuovo per subentrargli.
A trovarsi immischiato, suo malgrado, in questa difficile situazione, è stato Carlo Ancelotti, un allenatore rispettato da tutte le dirigenza per la sua proverbiale capacità di smussare gli angoli. Eppure nemmeno le qualità diplomatiche di uno degli allenatori più esperti in circolazione sono bastate per far rientrare la situazione. E, infatti, la sua esperienza napoletana è culminata con un esonero dopo una vittoria per 4-0 sul Genk, valida per la qualificazione agli ottavi di Champions League.
Valorizzare le individualità
Lo scoglio più difficile da affrontare per Ancelotti è stata l’eredità tattica e culturale di Maurizio Sarri, un personaggio “ingombrante”, in grado di dare al Napoli una dimensione da top club a tutti gli effetti e di lasciare un segno pressoché indelebile nella storia della squadra e nella memoria del pubblico.
Come è noto a tutti, il Napoli di Sarri si basava su un sistema di gioco prettamente codificato, fatto di schemi e giocate memorizzate e applicate dai giocatori.
Un sistema che potremmo definire “collettivista” in cui l’organico nel suo complesso ha una rilevanza maggiore che non i singoli che lo compongono. Tornando a Lobanowskiy, un insieme il cui rendimento è superiore a quello della somma dei singoli che lo formano.
Il compito di Ancelotti doveva essere quindi quello di guidare il Napoli nella transizione dal Sarri al dopo Sarri. Con una metafora un po’ ardita, potremmo dire che Ancelotti doveva fare con il Napoli quello che è stato tentato di fare con le economie collettiviste una volta caduto il Muro di Berlino: una transizione dolce da un sistema fondato sulla centralità dell’organico nel suo complesso, a un sistema in cui dovrebbe emergere l’individualità singolo.
La sfida principale che Ancelotti ha voluto quindi intraprendere è stata quella di allentare le maglie dell’organico per valorizzare le doti tecniche dei singoli.
A questo punto è interessante capire come Ancelotti abbia affrontato questa sfida: abbiamo analizzato l’apporto dell’allenatore al Napoli sia da un punto di vista macroscopico attraverso la comparazione di alcuni dati statistici forniti dalla piattaforma Invictus che da un punto di vista prettamente tattico tramite lo studio di alcuni schemi che Ancelotti ha provato ad applicare con una certa continuità nel corso della sua parentesi napoletana.
Le differenze di possesso e aggressività
Il primo dato che salta all’occhio comparando le statistiche dell’ultimo Napoli di Sarri con quelle del primo di Ancelotti è il numero medio di passaggi per partita sceso da 725,9 a 605,8.
Tale cambiamento riflette le diverse filosofie dei due allenatori coinvolti: per Sarri il dominio del possesso palla attraverso lunghe trame di passaggi non è semplicemente un mezzo per arrivare al gol ma anche una strategia difensiva a tutti gli effetti. Il ragionamento che impalca tale approccio è piuttosto semplice e – come ogni ragionamento semplice – molto funzionale: se l’avversario mantiene il possesso per un tempo ridotto si riducono anche le probabilità che segni.
Ancelotti invece si è rivelato piuttosto duttile da questo punto di vista, alternando sistemi di gioco che prevedevano un’aggressione e un pressing alto al fine di dominare il possesso con sistemi caratterizzati anche da lunghe fasi di difesa posizionale.
Il diverso approccio si sostanzia anche nell’indice PPDA – un indicatore della frequenza con cui una squadra intraprende un tentativo di riconquista del pallone nelle prime fasi della costruzione della manovra avversaria, permettendo quindi di misurarne attitudine difensiva ed aggressività in maniera oggettiva e comparabile – salito da 9,5 nella fase sarriana a 11 nell’esperienza di Ancelotti. Tenendo presente che minore è il valore dell’indice e maggiore è l’aggressività della squadra, è evidente la diversa strategia.
Bloccare un terzino per costruire dal basso
Ancelotti ha dimostrato di prediligere una costruzione dalla difesa che si sviluppasse con la palla a terra. In questo modo, muovendo il pallone da una parte all’altra, si cercava di aprire un varco tra linee avversarie. Una scelta tattica resa possibile dalle evidenti qualità tecniche della maggior parte dei difensori (Albiol, Koulibaly, Mario Rui, Ghoulam, Di Lorenzo, Maksimovic…) e dalla totalità dei centrocampisti. Si tratta, peraltro, di un principio di gioco che condivide con Sarri, ma che ha sviluppato in maniera diversa.
Come già messo in pratica in diverse fasi della sua carriera – si pensi all’albero di Natale che si trasformava in un 4-4-2 in fase di non possesso al Milan –, Ancelotti al Napoli ha deciso di utilizzare due diversi moduli a seconda di chi si trovava in controllo della sfera: l’allenatore emiliano disponeva i propri uomini in due file da quattro e una da due, nelle fasi di non possesso; ma l’assetto mutava nelle fasi di gestione del possesso; l’uscita dalla difesa prevedeva il terzino destro bloccato sulla linea dei centrali difensivi, il terzino sinistro che si alzava sulla linea dei centrocampisti, i due interni di centrocampo a fornire un’opzione di passaggio centrale – formando in questo modo un pentagono col trio difensivo – e uno dei due attaccanti che rimaneva in posizione più avanzata rispetto ai compagni, mentre l’altro occupava il mezzo spazio.
Lo stratagemma di bloccare il terzino destro per costruire con una difesa a 3 è stato adottato a intermittenza durante il primo anno della gestione ancelottiana; mentre, nella stagione 19/20 è divenuto la regola e la modalità principale per impostare dal basso. Da questa prospettiva, l’acquisto di Di Lorenzo è stato decisivo, poiché si è rivelato un giocatore bravo a svolgere diverse funzioni e a occupare posizioni differenti nel corso della stessa partita, così da permettere ad Ancelotti di consolidare lo schema.
Nell’immagine possiamo scorgere la parità numerica del blocco napoletano che imposta rispetto al fronte offensivo che effettua il pressing, un equilibrio reso possibile dall’abbassamento di Di Lorenzo; inoltre, l’avanzata di Mario Rui sulla fascia permette l’occupazione dell’ampiezza a sinistra, così come Callejon la garantisce a destra, minacciando in questo modo lo schieramento avversario che per natura fatica a coprire i corridoi laterali – l’attacco e il centrocampo disposti su due file da tre impongono una scelta tra la copertura del centro o quella delle fasce; Allan e Fabian Ruiz occupano il mezzo spazio più prossimo ai difensori, mentre Mertens, Lozano e Insigne stiracchiano le distanze tra il centrocampo e la retroguardia del Liverpool.
Cambiare pelle
Ancelotti, come scrivevamo prima per confrontarlo con Sarri, ha confermato anche nel periodo napoletano di essere un allenatore versatile, ovvero una figura in grado di preparare i giocatori ad adottare approcci differenti sia nel corso della stagione che della singola partita, che tiene in considerazione le caratteristiche dell’avversario per individuare alcune contromisure piuttosto che applicare rigidamente dei concetti a prescindere dal contesto che si trova ad affrontare.
L’aggressività del pressing, per esempio, variava prima di tutto in base al punteggio, quindi alla necessità e all’impellenza di mettere pressione all’avversario per indurlo all’errore. Contro le squadre tecnicamente inferiori, che logoravano il Napoli di Ancelotti con delle lunghe fasi di difesa posizionale, è stata un’arma usata di frequente, che permetteva di consolidare il possesso e l’occupazione della metà campo avversaria. Ma le velleità di aggredire in alto potevano calare drasticamente se il contesto mutava. Il pareggio nella gara di ritorno contro il Liverpool, l’1-1 ottenuto due settimane prima dell’esonero di Ancelotti, è stato un esempio della flessibilità tattica, in particolare della mutevolezza dell’approccio propositivo.
Ancelotti ha affrontato la gara di Anfield ponendosi come obiettivo la compattezza delle linee, la precisione delle scalate e l’interdizione della creatività del trio offensivo inglese; il possesso è stato accantonato per lasciare spazio a rapide transizioni con cui risalire il campo, mentre il pressing alto è stato scartato a favore del restringimento degli spazi nella metà campo difensiva. Il piano tattico dell’allenatore si è rivelato vincente: il Napoli voleva portare a casa almeno un punto e così è stato. Non si può nemmeno rimproverare al tecnico di aver rinnegato la natura della propria squadra in quella circostanza, perché la volontà di adattarsi alle situazioni prevede la possibilità di cambiare pelle, di porsi delle priorità diverse.
A proposito del concetto di versatilità, si è espresso anche Davide Ancelotti, il vice del padre al Napoli, quando ha rivelato, a Il Napolista, alcune delle sue idee tattiche: «Per me il calcio consiste in una squadra che giochi da dietro, ma che sappia fare un po’ tutto, che tenga la palla ma sappia anche utilizzare tutte le soluzioni possibili, che difenda nella metà campo degli avversari così come nella propria, che sappia usare il contropiede e dominare il gioco. In una sola parola: una squadra completa».
I punti deboli del cambio di modulo
Uno dei primi segni evidenti di discontinuità tra i due allenatori è stato il cambio di modulo, avvenuto dopo quattro giornate di campionato: nelle prime tre Carlo aveva schierato i suoi uomini con il consolidato 4-3-3, ma nella gara contro la Fiorentina i partenopei si erano disposti per la prima volta con un 4-4-2. La scelta del modulo non è sempre significativa per comprendere lo stile di un allenatore e di una squadra, ma in questo caso possiamo spiegare il passaggio da una disposizione all’altra attraverso le idee del tecnico di Reggiolo. Col suo staff infatti si era posto l’obiettivo di occupare con più continuità l’ampiezza e di sfruttare l’arma del cambio di gioco: così rinunciare a due mezzali e schierare, invece, due esterni sulle fasce è stata la strategia scelta per mettere in pratica i loro propositi tattici.
Tuttavia, il passaggio da un centrocampo a 3 a uno composto da 4 giocatori, non è stato privo di lati negativi. La presenza di un mediano e di due mezzali permetteva al Napoli di fare densità centrale nelle fasi di difesa posizionale, mentre i due interni di Ancelotti si sono ritrovati di frequente a dover compiere una scelta tra l’aggredire in avanti gli avversari, creando uno spazio alle loro spalle, e lo schiacciarsi vicino alla linea difensiva, concedendo la possibilità di avanzare centralmente.
Nell’immagine possiamo vedere Mbappé e Neymar che manipolano lo schieramento difensivo del Napoli: Mbappé si abbassa per condurre il pallone, attirando così la pressione di Hamsik; alle spalle dello slovacco si propone Neymar, che con lui trascina la marcatura di Koulibaly e che rapidamente viene servito dal francese; Neymar chiude il triangolo con un passaggio di esterno, tagliando fuori in questo modo il centrocampo napoletano e Koulibaly, ormai troppo lontano dalla sua posizione per poter recuperare Mbappé, che intanto si lancia con la palla al piede verso l’area. Si tratta, dunque, di un’azione che rappresenta bene le difficoltà che il Napoli ha avuto nel difendere i mezzi spazi centrali, quando ha affrontato squadre tecnicamente creative e dinamiche, come quella del PSG.
Un altro esempio di tali difficoltà difensive è la difesa della propria area che vediamo effettuare al Napoli in questa circostanza contro l’Arsenal. La linea difensiva si schiaccia nella propria area piccola; Allan sceglie di seguire la condotta dei difensori, mentre Fabian Ruiz e Zielinski rimangono troppo alti, lasciando scoperto il centro dell’area, uno spazio sfruttato subito da Ramsey, che può concludere da una distanza molto ravvicinata senza ostruzione. Anche in questo caso, la difesa e il centrocampo si sono disuniti, aprendo il fianco agli avversari che hanno potuto incidere centralmente.
Attaccare con tanti giocatori e soffrire sulle transizioni
La fluidità tattica e il rifiuto dell’integralismo hanno permesso ad Ancelotti di disputare una piccola parte di incontri preoccupandosi di non lasciare libertà di manovra agli avversari e disinteressandosi di mantenere il possesso, come nel già citato 1-1 contro il Liverpool. Ma nella maggior parte delle altre partite, l’obiettivo di Ancelotti era di portare addirittura sette giocatori nella zona di rifinitura e di controllare la partita in questa zona attraverso un possesso prolungato alla ricerca di un varco.
Il terzino destro e i due centrali difensivi presidiavano le retrovie, ma il resto degli effettivi partecipava interamente alla costruzione media e poi alla fase di rifinitura. I due interni erano i riferimenti centrali per riciclare il possesso e per cambiare lato e avevano il compito di imprimere il ritmo alla manovra; i due esterni, di solito Mario Rui e Callejon, dovevano dare ampiezza; mentre i due attaccanti e il laterale sinistro di centrocampo – che aveva lasciato spazio a Mario Rui – erano liberi di svariare sul fronte offensivo, per dare sviluppo centrale alla manovra.
I vantaggi di una occupazione consistente e fluida durante la manovra offensiva erano l’imprevedibilità, l’opportunità di attaccare sia centralmente che sulle fasce e la possibilità di mantenere il possesso a lungo. Ma una partecipazione offensiva così folta, ha reso il Napoli di Ancelotti una squadra strutturalmente debole sulle transizioni negative. Se perdeva palla, solo i tre difensori erano già disposti per iniziare la fase difensiva mentre gli altri compagni dovevano invece rincorrere per guadagnare una posizione favorevole; il più delle volte, però, il solo centrocampista in grado di fronteggiare la transizione era Allan. Il Napoli dunque doveva speculare sul fatto che gli avversari fossero lenti nell’impostare la ripartenza, così da avere il tempo per rientrare nella propria metà campo e riacquisire superiorità numerica.
Vediamo da questo punto di vista tutte le difficoltà nelle transizioni del Napoli nella partita contro il Cagliari: la squadra sarda recupera il possesso al limite della propria area e punisce lo sbilanciamento del Napoli con una transizione offensiva veloce, culminata col gol vittoria di testa di Castro.
Le individualità esaltate da Ancelotti
Se il compito di Carlo era valorizzare le individualità, tracciando un bilancio del suo ciclo bisogna chiedersi quanto il tecnico sia riuscito a farlo. Il conseguimento dell’obiettivo, del resto, non può che essere parziale, consultando la precaria situazione di classifica, che testimonia un girone d’andata poco brillante per alcuni singoli. Tuttavia, certi calciatori sono maturati sotto la guida di Ancelotti, per esempio Zielinski, mentre alcuni si sono rivelati al grande pubblico europeo per la prima volta, Fabian Ruiz, altri hanno cambiato dei tratti del loro gioco, pensiamo a Callejon, e altri ancora hanno acquisito un ruolo più importante, Milik.
Fabian Ruiz si è dimostrato molto abile a occupare la posizione giusta per ricevere il passaggio, a conservare la palla in attesa del momento propizio per cederla e a servire i compagni come se avesse un mirino e potesse fermare l’azione per consultarlo. In effetti Fabian è stato l’uomo chiave per uscire dalle fasi di pressing alto degli avversari, anzi, per meglio dire, è stata la sua sensibilità di movimento senza palla a essere decisiva. Ma, partecipando alle fasi di possesso sulla trequarti avversaria, ha potuto decidere anche le sorti di alcuni incontri, regalando agli occhi e alla memoria degli appassionati delle perle di capacità tecnica, intelligenza tattica e visione sopraffina.
Qui possiamo osservare il passaggio chiave per Callejon, da cui è nato l’assist per Mertens, nella partita contro il Brescia. Con una finta dribbla Donnarumma, che aveva provato a contrastarlo; così, potendo avanzare, guadagna un istante prezioso che gli permette di alzare lo sguardo e accorgersi di Callejon – che intanto sta attaccando il lato debole – e pensare al lancio; un istante dopo serve il compagno dentro l’area di rigore con un lancio profondissimo; e l’istante dopo ancora, il Napoli trova la rete del vantaggio.
Mertens ha saputo esaltarsi in un contesto di libertà di movimento in fase di possesso. Dries poteva essere l’uomo con cui risalire il campo, quando gli avversari pressavano alto, sfruttando la sua capacità di abbassarsi, ricevere palla e farsi fare fallo; oppure, poteva essere il riferimento centrale per cambiare rapidamente lato, sfruttando l’abilità di dribblare nello stretto; ma poteva essere anche il giocatore da servire con un cross in area, nonostante la bassa statura, grazie alla sensibilità che possiede nel comprendere quando attaccare l’area e dove posizionarsi per eludere la marcatura avversaria. Il dialogo con Insigne, specialmente nei momenti di picco di entrambi, era poi uno stratagemma per avanzare rapidamente con creatività, per esempio scambiando al limite dell’area e chiudendo il triangolo con un inserimento.
Qui ad esempio la giocata di Mertens che lancia Insigne davanti al portiere nella gara contro di Champions contro il Paris Saint-Germain.
Callejon, invece, sotto la guida di Ancelotti, ha cambiato il modo di incidere sulla manovra offensiva, trasformandosi in un giocatore importante nella fase di rifinitura più che in quella di finalizzazione. Nel periodo sarriano, lo spagnolo era stato l’attaccante del lato debole, ovvero il riferimento dei cambi di lato, il calciatore da servire dopo aver affollato la fascia sinistra e aver portato, in questo modo, gli avversari a scoprirsi sull’altra catena. Durante la gestione di Ancelotti, invece, ha acquisito un ruolo decisivo nella fase di costruzione alta, ovvero nel momento in cui il Napoli faceva circolare il pallone galleggiando tra l’area e la trequarti. Così, i compagni hanno potuto usufruire dei lanci profondi con cui premiava i loro inserimenti, oppure dei cross che indirizzava in area. L’impiego differente richiesto da Ancelotti, tuttavia, ha avuto delle ripercussioni sull’apporto realizzativo che, infatti, nell’ultima stagione e mezza si è arrestato a cinque reti.
Ancelotti, infine, poteva scegliere di occupare il centro dell’attacco del Napoli con Arkadiusz Milik, facendo affidamento ad un calciatore più dominante fisicamente rispetto ai colleghi di reparto, un profilo di attaccante più classico, ma che allo stesso tempo garantiva anche una buona rapidità e capacità di dialogare tecnicamente con la palla a terra, tratti di gioco che gli hanno permesso di essere incisivo anche nei due anni trascorsi all’Ajax. Milik ha dimostrato di essere un’arma per attaccare lo spazio alle spalle della difesa avversaria, servendo le sue corse con dei passaggi in profondità; oppure, per disordinare le retroguardie con dei movimenti combinati tra lui e la seconda punta; o, soprattutto, per servire dei cross dentro l’area e sfruttare la sua abilità nel colpire di testa e nel raccogliere i passaggi rasoterra convertendoli in dei tiri.
Vediamo un esempio nella partita contro la Roma, quando Lozano si lancia sulla fascia destra riuscendo poi a realizzare un assist per il polacco, che con uno scatto ha intanto superato Çetin e realizzato il gol
Un nuovo inizio
Carlo Ancelotti è stato esonerato dopo aver ottenuto la qualificazione alla fase finale della Champions, un traguardo importante che, tuttavia, non è stato sufficiente per salvare la panchina. Al suo posto, il presidente De Laurentiis ha ingaggiato un allenatore giovane come Gennaro Gattuso, che dovrà cercare, prima di tutto, di risollevare le sorti della squadra in campionato. La scelta del presidente, infatti, è stata interpretata da diversi analisti – Gabriele Marcotti sulle pagine di ESPN, per esempio – come un tentativo per risalire la classifica e riuscire a ottenere una qualificazione europea per la prossima stagione, rinunciando tuttavia a una parte delle ambizioni per il proseguimento nella Champions di quest’anno. Ancelotti, invece, ha scelto di prendere le redini dell’Everton, una decisione affascinante, ma pericolosa, che potrebbe rivelarsi affrettata: si tratta, infatti, di un club che al momento sta lottando per tenere a distanza la zona retrocessione. L’allenatore sembra stia combattendo una battaglia personale per trovare la squadra giusta con cui ottenere dei riconoscimenti in una fase critica della sua carriera, un club con cui dimenticare i due esoneri consecutivi a stagione in corso. Il tempo ci darà alcune risposte: riguardo alla traiettoria della carriera di Ancelotti e di Gattuso e riguardo il futuro del Napoli, che a fine stagione dovrà compiere un importante processo di rinnovamento, rinunciando a diversi veterani di una fase ormai conclusa, e individuare un progetto e dei giocatori da cui ripartire.
- Cosa ci lascia il Napoli di Ancelotti: Werner100359, via Wikimedia Commons | CC BY-SA 4.0 International