C’è un filo sottile che lega Italia e Inghilterra in questa prima parte di stagione, ormai giunta al giro di boa: la testa della classifica è usurpata da forze inaspettate e imprevedibili, legate da una storia recente costellata di delusioni e da una simile filosofia di gioco. L’Arsenal di Mikel Arteta e il Napoli di Luciano Spalletti stanno fino ad ora dominando i loro rispettivi campionati, trovandosi entrambe a 50 punti dopo le prime 19 partite.
L’Arsenal di Mikel Arteta
Il percorso dell’Arsenal è, se vogliamo, il più sorprendente d’Europa, considerando quanto sia affollata la vetta della Premier League ai nastri di partenza e quanto alte fossero le medie punti delle squadre in lotta per il titolo nelle edizioni precedenti.
Nel mercato estivo i Gunners si sono rinforzati con gli importanti acquisti di Oleksandr Zinchenko e Gabriel Jesus, ma questo ha gonfiato solo limitatamente le ambizioni dei tifosi londinesi. Entrambi erano infatti elementi considerati superflui dai campioni in carica del Manchester City, il cui organico necessitava di una sfoltita dopo gli arrivi di Sergio Gómez, Julián Álvarez e soprattutto Erling Haaland.
L’Arsenal viene da un’ennesima stagione amara, in cui ha mancato la qualificazione alla Champions League – alla quale non partecipa dal 2017 – nelle ultime gare del campionato e, anche in considerazione dell’alternanza di risultati sempre dimostrata nella gestione Arteta, era legittimo aspettarsi al massimo l’ennesima sudatissima rincorsa al quarto posto, magari con psicodramma finale. La squadra, però, sembra completamente trasformata.
Dalla porta difesa da Aaron Ramsdale all’attacco illuminato dalle giocate di capitan Martin Odegaard, Bukayo Saka e Gabriel Martinelli è davvero difficile trovare un difetto a questo undici, sia negli interpreti che nel gioco. La mano di Arteta e la sua istruzione guardiolana sono finalmente visibili a pieno. A tratti i Gunners sembrano davvero una versione 2.0 del City di Guardiola. E forse i motivi di questa impressione hanno poco a che fare con le qualità dei due allenatori.
Il tecnico catalano vive la costante pressione di non avere ancora portato la Champions a Manchester, oltre che le conseguenze negative del suo perfezionismo, arma a doppio taglio che non sembra, al momento, interessare Arteta, molto umile e consapevole che i frutti del suo lavoro vanno ben oltre le aspettative. Pep sembra tormentato da un grattacapo irrisolvibile: «Come rendo la mia difesa impenetrabile? Dov’è che sbaglio?». E più sperimenta, più cambia, più osa, più rischia.
Arteta ha invece trovato certezze e solidità nella coppia Saliba-Gabriel, i movimenti e l’attenzione difensiva di cui aveva bisogno in Ben White – definitivamente dirottato a destra dopo il ritorno di Saliba – e Zinchenko. L’Arsenal appare come una macchina perfetta, trovando la sua perfezione nel totale disinteresse verso potenziali difetti: la spregiudicatezza dell’underdog.
Il confronto fra Arteta e Guardiola non è casuale: il City è ovviamente sulla carta la favorita alla vittoria finale, e date le condizioni inspiegabili del Liverpool di Klopp, e il fatto che il Manchester United sia ancora in una fase di assimilazione dei nuovi principi portati da ten Hag, i Citizens appaiono come l’unico ostacolo fra l’Arsenal e la vittoria finale.
Il Napoli di Luciano Spalletti
La spregiudicatezza dello sfavorito è la benzina che ha spinto anche il Napoli a volare oltre ogni rosea previsione. La rivoluzione estiva, con le partenze dei tasselli più importanti della colonna vertebrale tecnica ed emotiva dei campani – Ospina, Koulibaly, Fabián Ruiz, Insigne e Mertens –, ha in qualche modo permesso al Napoli di fare quel salto di qualità che negli ultimi anni non è mai arrivato.
Come per i Gunners, ai nastri di partenza questa situazione era impensabile. I rimpiazzi scelti per sopperire a tutti questi addii non sono stati né capiti né apprezzati dalla maggior parte dei tifosi, molto semplicemente perché sconosciuti ai più. Evidentemente il lavoro degli osservatori e del direttore sportivo meriterebbe un premio alla lungimiranza.
La graniticità del coreano Kim Min-jae, ricambi del calibro di Jack Raspadori e il Cholito Simeone in attacco e ovviamente l’incommensurabile e inimmaginabile qualità di Khvicha Kvaratskhelia – oltre alle definitive esplosioni dei centrocampisti André Zambo Anguissa e Stanislav Lobotka, le rinascite a livelli mai visti prima di Alex Meret e Mário Rui e le conferme del resto dei componenti – hanno garantito a Spalletti una squadra non solo all’altezza di quella dell’anno scorso, ma anche più cattiva, più bisognosa e desiderosa di dimostrare, non ancora depressa da anni di delusioni e complessi, specie quelli causati dalle continue sconfitte contro la Juventus. È proprio il 5-1 inflitto ai bianconeri lo spartiacque fra passato e presente. Per citare Stephen King e il suo best seller IT, il Napoli ha sconfitto la Juventus quando i torinesi hanno capito che il Napoli non aveva più paura di loro.
Luciano Spalletti e la sua rivoluzione sono caduti come un fulmine a ciel sereno sulla Serie A, sorpresa e sorniona, disabituata a una tale forza distruttiva e incapace di contrastarla. Non è un caso il Napoli abbia meravigliato anche in Europa, cosa che ultimamente accade di rado per le squadre italiane.
L’anno del riscatto
Impossibile non trovare punti di convergenza in queste due storie, con le dovute differenze. L’Arsenal è storicamente una delle squadre più vincenti del calcio inglese, mentre non si può dire lo stesso del Napoli per il calcio italiano. È però ovvio che guardando solo ai tempi più recenti, quelli che di fatto contano di più sulla psiche dei giocatori e sulla percezione intorno alla squadra, le due realtà in causa hanno vissuto momenti molto simili: sempre inadeguati, sempre dietro qualcuno di più forte, mai abbastanza. Entrambe capaci solo di collezionare qualche coppa nazionale, perché appunto sempre in alto, sempre in grado di competere, ma mai abbastanza per le lunghe distanze, per le maratone.
L’Arsenal va pure compreso. La Premier League non è un campionato normale, dato che presenta tantissime squadre attrezzate per lottare per il titolo e almeno quattro rose superiori rispetto a quella dei Gunners ormai da un decennio. Dal canto suo il Napoli, tornata a certi livelli, ha sofferto lo strapotere bianconero, che ha permesso alla Juventus di sostenere un campionato a parte per una decade, – quasi – mai veramente in discussione.
È dunque questo, per entrambe, l’anno del riscatto? Un riscatto figlio solo di tanta pazienza, della credibilità di un progetto e di uno splendido calcio. Perché nei fatti né una, né l’altra ha fatto investimenti tali da invertire i dogmi che avevano reso loro impossibile ambire al successo nazionale, ma qualcosa è cambiato comunque.
C’è qualcosa di romantico in questo connubio, il fascino dei subalterni. Arsenal erede degli Invincibili di Wenger, da sempre precursore dell’estetica moderna di questo gioco, che finalmente sembra essere tornata a riscriverne i principi dopo anni di apatia e mediocrità. Napoli figlio dell’entusiasmo argentino, sulla scia di questo Mondiale vinto, di quel legame indissolubile con la terra di Diego Armando Maradona, che sembra davvero spingere da lassù verso la gioia e il successo ciò a cui tiene di più in questa terra. Ma questi sono forse soltanto scenari irrazionali ai quali tifosi e appassionati si stanno aggrappando nella speranza che, come nei film a lieto fine, queste imprese vengano portate a compimento.
Arsenal e Napoli, a prescindere da come finirà la stagione, stanno dimostrando di essere cresciute, di essere due squadre migliori e più mature rispetto alle precedenti annate. Se riusciranno a completare il lavoro che per il momento hanno portato a metà, esattamente come in un film, lo scopriremo soltanto aspettando il finale.
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