Nel corso della nostra formazione, passiamo oltre un decennio tra le mura scolastiche, dove anche i più studiosi collezionano ore e ore di noia e momenti morti da riempire nei modi più disparati. Chi è appassionato di calcio lo fa spesso scarabocchiando fantasiose formazioni su libri, quaderni, diari o direttamente sul proprio banco. Un’attività che richiede grande sforzo intellettivo e continui colloqui con i propri compagni, a cui nei pomeriggi seguivano anche le partite a FIFA tra World e Classic XI, rivalità immaginaria che non era altro che la trasposizione videoludica di quello che si faceva poche ore prima al posto di ascoltare con attenzione le lezioni.
Chi pensa che queste idee possano essere partorite solo da ragazzi annoiati, però, si sbaglia di grosso, dato che la storia del calcio ha visto realmente esperimenti di questo genere: dal celebre “Resto del Mondo”, formazione composta dai migliori giocatori del pianeta che fino al 2002 ha sfidato diverse nazionali in incontri amichevoli, fino all’All-Star Game della MLS, evento annuale che ancora oggi vede i calciatori più forti del campionato a stelle e strisce unirsi in una singola squadra per sfidare altre compagini.
Molti non lo sanno, ma anche la Serie A ha avuto una sua selezione di rappresentanza, che in undici partite spalmate su oltre trent’anni di attività ha cercato di dare lustro al movimento calcistico tricolore: la Nazionale di Lega. Se vi siete mai chiesti come sarebbe stato vedere Careca, Matthäus e van Basten giocare nella stessa squadra, beh… sappiate che è successo!
L’invenzione delle Nazionale di Lega
La rappresentativa nacque nel 1960, grazie a un’idea dell’allora presidente della Lega Calcio Giuseppe Pasquale. Di carattere impetuoso e rivoluzionario, Pasquale decise che per mostrare al mondo intero quanto fosse alto il livello del nostro campionato c’era bisogno di una squadra composta da tutti i suoi migliori giocatori senza alcun vincolo di nazionalità. All’epoca il calcio era molto meno globalizzato di quanto non lo sia adesso e le poche manifestazioni continentali come la Coppa dei Campioni erano monopolizzate dal Grande Real di Alfredo Di Stéfano e Ferenc Puskás, mentre gli inglesi erano restii a confrontarsi con le squadre d’oltremanica poiché convinti della loro netta superiorità.
Il tutto si concretizzò in autunno, e il primo novembre del 1960 l’All-Star Team della Serie A fece il suo esordio contro i corrispettivi britannici. Di fronte a “sole” 40.000 persone sugli spalti di San Siro, il duo Giuseppe Viani-Alfredo Foni, nominati selezionatori per l’occasione, schiera in campo la seguente formazione: Lorenzo Buffon tra i pali a guidare Cesare Maldini e Sergio Castelletti in difesa; Giampiero Boniperti, Gaudenzio Bernasconi e Flavio Emoli a comporre la cerniera di centrocampo; mentre davanti spazio alle stelle Kurt Hamrin, Antonio Angelillo, John Charles, José Altafini e Juan Carlos Tacchi. I padroni di casa – con indosso un’insolita divisa rossa – hanno la meglio per 4-2 grazie alle reti realizzate da Tacchi, Hamrin e Altafini, autore di una doppietta.
Il quotidiano piemontese La Stampa si avvalse di un inviato speciale per raccontare il match, l’ex CT della Nazionale e due volte campione del mondo Vittorio Pozzo, del quale, però, fornisce un resoconto ben diverso da quello che ci si aspetterebbe: «Una partita che doveva dire molto e che nei confronti con le sue possibilità ha detto poco, molto poco. Una partita che doveva essere prevalentemente di carattere tecnico e che è stata invece parecchio polemica e magari anche astiosa… Il secondo tempo, ce lo si lasci dire, è stato schiettamente antipatico: si giocava per vincere ad ogni costo come se si fosse trattato della vita o della morte, non di una contestazione tecnica stilistica». Nonostante la vittoria, dunque, la prima uscita del progetto del Presidente Pasquale si è quasi rivelata un fiasco: uno stadio mezzo vuoto a fare da cornice a una partita fin troppo sentita e di carattere agonistico rispetto a quello che era l’obiettivo principale, dare spettacolo. Quella che doveva essere una gara per celebrare lo stile e la tecnica del calcio italiano – e inglese – è diventata una mera lotta di prevaricazione, una partita di campionato tra due squadre nuove, un qualcosa da cui ci si voleva allontanare almeno per novanta minuti.
Pasquale però non molla, e tra il 1961 e il 1964 organizza altre cinque amichevoli, tre contro la rappresentativa inglese e due contro quella scozzese, ottenendo due vittorie, un pareggio e una sconfitta. La partita più spettacolare del lotto è sicuramente il 4-3 del 14 novembre 1962, con cui la Nazionale di Lega, guidata da Luis del Sol e dal solito Hamrin, ha la meglio della controparte scozzese. Vittorio Pozzo, ancora corrispondente per La Stampa, racconta di un netto capovolgimento di fronte a cavallo delle due frazioni: all’intervallo la Serie A è già avanti 2-0 in quella che definisce una «gita di piacere», ma nella ripresa gli scozzesi si fanno sotto e riescono a portare il punteggio addirittura sul 3-3. È proprio la rete del fiorentino Kurt Hamrin nel finale a decidere la contesa. Quella che sembra essere una partita da annali del calcio finisce presto nel dimenticatoio anche per via di un pubblico sempre più disinteressato a questo esperimento, come testimoniano gli appena 15.000 spettatori dell’Olimpico, teatro della sfida. Ma perché questa squadra ha così poca presa?
Il tifoso italiano non vede nella Nazionale di Lega un qualcosa di rappresentativo o un motivo di vanto, quanto un disturbo al regolare svolgimento della stagione. Già all’epoca era diventato difficile collocare incontri amichevoli in un calendario sempre più fitto, e questo andava a penalizzare anche il lavoro dei selezionatori: le squadre impegnate nelle coppe europee impedivano la convocazione dei propri giocatori, e anche chi non vi partecipava era poco incline a farlo onde evitare di compromettere il proprio cammino stagionale per via di qualche infortunio di troppo. Dunque, quella che doveva essere la rappresentativa dei migliori talenti del nostro campionato divenne ben presto la squadra di coloro che erano disponibili a giocare un’amichevole infrasettimanale, concetto ben distante da quello di All-Star Team.
Anni Settanta, fase stagnante
Pasquale, che nel frattempo era diventato presidente della FIGC, abbandonò definitivamente il mondo del calcio nel 1966, poiché ritenuto uno dei principali artefici del disastroso Mondiale britannico che vide la nostra Nazionale eliminata dalla modesta Corea del Nord. La “sua” Nazionale, invece, continuò a giocare, ma sempre meno e con un pubblico ancor più sporadico.
Negli anni Settanta la rappresentativa della Serie A scese in campo in appena tre occasioni e tutte all’inizio del decennio. Nel febbraio del 1971 affronta e perde 1-0 contro l’Újpest al Comunale di Torino in una partita che, come racconta la cronaca dell’epoca, mette in scena errori su errori di una squadra raffazzonata – l’Italia avrebbe giocato il giorno dopo un’amichevole contro la Spagna – e tenuta a galla solo da un Mario Corso in stato di grazia. Seguono poi due partite dimenticabili e dimenticate contro la rappresentativa belga a cavallo tra il 1971 e il 1972, entrambe perse. Lo score negativo di queste amichevoli sembra mettere la parola fine ad un esperimento mai troppo apprezzato e sostenuto da tifosi e addetti ai lavori, sia da chi rinuncia a parteciparvi sia da chi partecipa ma lo fa ma in maniera del tutto svogliata. Una rappresentativa che, a partire dal colore della maglia, non rappresenta niente e nessuno.
Colpi di coda finali
Gli anni Ottanta e Novanta sono stati una primavera per il nostro campionato, pieno di grandi squadre e campioni fenomenali che hanno segnato generazioni di appassionati che guardavano alla Serie A come La Mecca del calcio mondiale. In un contesto sempre più mediatico e con le prime televisioni private a fare il loro ingresso in scena, si percepisce la necessità di puntare ancora più in alto, più in grande: il pubblico vuole spettacolo e bisogna darglielo, ad ogni costo. Questo approccio, però, finisce ben presto per diventare quasi bulimico e molte strategie adottate finiscono per produrre l’effetto contrario di quello sperato. Uno degli esempi principali è la riesumazione della Nazionale di Lega, che farà le sue ultime apparizioni nel 1988 e nel 1991 per volontà congiunta dei presidenti di Lega Calcio e FIGC Luciano Nizzola e Antonio Matarrese.
La penultima esibizione è datata 12 novembre 1988. Nel bel mezzo di una stagione ricca di impegni, i vertici del calcio nostrano hanno la brillante idea di organizzare un’amichevole tra la rediviva Nazionale e la Polonia, dando ad Arrigo Sacchi il compito di selezionare i giocatori migliori. Il tecnico del Milan è reduce dal vittorioso ottavo di finale di Coppa dei Campioni in casa della Stella Rossa di Belgrado, ma nonostante la stanchezza e il pensiero alla prossima partita di campionato riesce a comporre una rosa con grandi nomi, compreso qualche rossonero. L’undici che sfida i polacchi è il seguente: Filippo Galli; Alessandro Mannini, Giuseppe Volpecina, Lothar Matthäus, Mauro Tassotti; Lionello Manfredonia, Fausto Pari, Alberico Evani; Pietro Paolo Virdis, Antonio Careca, Diego Armando Maradona. Dalla panchina entreranno anche Marco Landucci, Juan Barbas, Angelo Gregucci, Giancarlo Marocchi, Renato Portaluppi e Claudio Caniggia. Per la prima volta dai suoi esordi, la Nazionale di Lega si presenta come un vera squadra di stelle, per l’occasione anche vestita d’azzurro, ma il contesto in cui gioca è a dir poco deprimente: quella di San Siro sembra un allenamento a porte aperte e non una partita di calcio.
Lo stadio è praticamente deserto, soli 5.464 spettatori paganti, interessati principalmente a dedicare cori di scherno nei confronti del Milan o dell’Inter a seconda della squadra di appartenenza, oltre che di Maradona, nemico pubblico numero uno per i suoi successi con la maglia del Napoli. Va detto che proprio Diego è – come al solito – l’unico a prendere sul serio la partita, deliziando i pochi presenti con giocate d’alta scuola e mettendo a referto un gol e un assist per la marcatura di Tassotti. Per il resto, i ritmi della gara sono blandissimi e azioni come quella del secondo gol polacco mostrano tutta la seccatura dei giocatori in campo, tanto che molti ipotizzano una presunta invidia di Matthäus nei confronti del compagno di squadra e nazionale Andreas Brehme, potuto rientrare a casa per godersi qualche giorno di vacanza.
I giornali sono molto critici sull’evento, non tanto per quello che si è visto in campo ma per l’ostinarsi a organizzare un qualcosa che non piace più a nessuno, per di più in un impianto gigantesco come San Siro. L’unica occasione per ridare lustro al tutto sarebbe quella di far giocare la squadra nei campi di provincia, dove è raro se non quasi impossibile vedere le gesta di grandi campioni.
Proprio per questo motivo i vertici del calcio italiano, impareggiabili nella loro lungimiranza, decidono di organizzare quella che poi sarà l’ultima uscita della Nazionale di Lega in una città piccola dallo stadio modesto e per niente abituato a vedere grandi giocatori: il San Paolo di Napoli. Il 16 gennaio del 1991 è proprio il tecnico dei partenopei Alberto Bigon – unico ad aver sia giocato che allenato la squadra – a mettere in campo i seguenti calciatori: Filippo Galli; Luigi Garzya, Aldair, Gabriele Pin; Silvano Benedetti, Davor Jozić, Alessandro Bianchi, Oleksiy Mykhaylychenko; Antonio Careca, Lothar Matthäus, Marco van Basten. Giocheranno poi anche Cláudio Taffarel, Branco, Lorenzo Minotti, Gianluigi Lentini, Paolo Di Canio e Diego Simeone, e sarà proprio l’argentino, all’epoca in forza al Pisa, a segnare il gol del 3-0 che stende definitivamente – e per l’ennesima volta – la rappresentanza inglese, suggellando le reti del primo tempo di van Basten e Careca.
Quello di Napoli è un canto del cigno freddo e triste per la Nazionale di Lega, a conclusione di un percorso iniziato con grandi aspettative ma mai realmente supportato, apprezzato e forse capito. Un’idea affascinante che, se organizzata in maniera meno italiana – termine purtroppo divenuto sinonimo di “inefficiente” –, avrebbe forse riscosso maggior successo tra il pubblico e sarebbe magari diventata tradizione, permettendoci oggi di assistere alle sfide tra i vari Haaland, Salah e Odegaard e i nostri Buongiorno, Bremer e Bastoni. Chissà.
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