Cosa può raccontare un numero? La risposta è tutto o niente, dipende dal contesto in cui lo si inserisce.
Nel calcio, c’è un ambito in cui i numeri diventano veri protagonisti: le divise da gioco. E questo per due motivi. Il primo è legato al ruolo che, storicamente, corrisponde a una determinata numerazione. Basti pensare al più classico dei numeri, l’1, che identifica il portiere, o al 9, da sempre simbolo del centravanti. Il secondo riguarda invece i calciatori stessi: che si tratti di scelte non convenzionali o di numeri diventati iconici grazie a figure leggendarie, ci sono maglie che restano scolpite nella memoria degli appassionati.
È questo il caso dell’iconica maglia numero 10 del Napoli, resa celebre da Diego Armando Maradona, che tra il 1984 e il 1991 rese grande la squadra partenopea. Simbolo indiscusso del club all’ombra del Vesuvio, la maglia fu ritirata nel 2000 dalla società in omaggio alle gesta del Diez argentino, con cui il Napoli conquistò due scudetti, una Coppa Italia, una Coppa UEFA e una Supercoppa Italiana.
Tuttavia, sia prima che dopo il ritiro dello storico numero, altri calciatori hanno indossato la maglia numero 10, entrando – a modo loro – nella storia del Napoli.
I tristi anni Novanta
Se in Italia gli anni Novanta vengono solitamente ricordati con occhi lucidi e un senso di nostalgia, grazie alla straordinaria quantità di campioni che hanno calcato i campi del nostro campionato, lo stesso non si può dire per i tifosi del Napoli. O quantomeno, non a partire dalla stagione 1990/1991.
Nonostante la vittoria della Supercoppa Italiana al San Paolo contro la Juventus – uno storico 5-1, risultato replicato in modo simile solo il 13 gennaio 2023 –, i partenopei chiudono un’annata amara da campioni in carica: ottavo posto in campionato, eliminazione agli ottavi di Coppa dei Campioni ai rigori contro lo Spartak Mosca, e soprattutto l’addio di due uomini simbolo dell’era Ferlaino.
Il primo è Luciano Moggi, direttore sportivo dal 1987 e alleato del presidente per quattro stagioni. L’altro, ovviamente, è Diego Armando Maradona. Il fuoriclasse argentino risulta positivo a un controllo antidoping effettuato dopo la vittoria contro il Bari del 17 marzo 1991. Sette giorni dopo, al Marassi di Genova, nella trasferta contro la Sampdoria – che a fine stagione si laureerà campione d’Italia – disputa la sua ultima partita con la maglia azzurra, segnando anche il suo ultimo gol: un rigore che vale il momentaneo 3-1. È l’epilogo del ciclo più vincente della storia del Napoli.
La compagine partenopea si trova così davanti a una scelta cruciale: a chi affidare un’eredità tanto pesante? Chi può rendere omaggio alla 10 di Maradona?
Nonostante, in alcune occasioni, la maglia sia finita sulle spalle di Massimo Mauro – che chiude la carriera a Napoli nella stagione 1992/1993 indossandola solo in un paio di frangenti – la vera risposta risiede nel nome di Gianfranco Zola. Il trequartista sardo, acquistato dal Napoli nella stagione precedente dalla Torres, incarna l’erede ideale: per caratteristiche fisiche, per stile di gioco e, soprattutto, per l’ammirazione profonda nei confronti di Diego, suo idolo dichiarato e punto di riferimento da emulare in campo. Tutto sembra pronto per il passaggio di testimone.
Se nelle prime annate all’ombra del Vesuvio Zola fatica a trovare continuità in campionato – venendo impiegato soprattutto in Coppa Italia –, la situazione cambia radicalmente da gennaio 1991 in poi. In quella seconda metà di stagione, i suoi 6 gol in 18 presenze da titolare sono sufficienti a convincere la società del Napoli ad affidargli, nella stagione 1991/1992, l’iconica maglia numero 10.
È una stagione in cui gli azzurri provano a risollevarsi dopo la rovinosa caduta dell’anno precedente. Con l’arrivo di Laurent Blanc in difesa e un Careca in grande spolvero, è proprio Zola a salire in cattedra: realizza 12 gol in 34 presenze e trascina il Napoli al quarto posto finale. Quella sarà però l’ultima vera grande stagione per il club, prima di un lento e inesorabile declino segnato da una profonda crisi economica, che costringe la società a cedere ogni anno i propri pezzi pregiati.
L’annata 1992/1993 sarà numericamente la migliore per Zola, con 14 gol e 8 assist, ma sarà anche l’ultima con la maglia del Napoli. L’ultimo ricordo che i tifosi azzurri conservano è la doppietta nella rocambolesca sconfitta per 4-3 contro la Lazio, il 30 maggio 1993. Poco dopo arriva la cessione al Parma, che fa infuriare la piazza partenopea.
Nel 1993/1994 si torna a vedere un buon Napoli, che grazie alla guida di Marcello Lippi chiude al sesto posto. Molto meno fortunata, invece, è la sorte della maglia numero 10: in quella stagione la indossano ben tre calciatori. Lo svedese Jonas Thern, il centrocampista ex Juve e Samp Renato Buso, e un giovane Eugenio Corini.
Nell’ultimo campionato prima dell’introduzione della numerazione libera (1994/1995), la numero 10 finisce sulle spalle di due giocatori: Carmelo Imbriani, giovane promessa del vivaio del Napoli lanciata tra i professionisti da Lippi a soli 18 anni, e Benny Carbone, talentuosa seconda punta dal rendimento altalenante, che riesce comunque a mettere a segno 10 gol in 40 presenze tra campionato e coppe.
È un Napoli che punta fortemente sui propri giovani e che cerca di restare a galla in Serie A nonostante le numerose cessioni illustri. La squadra manca per un solo punto la qualificazione alla Coppa UEFA, chiudendo il campionato al settimo posto. Proprio in quella competizione, però, raggiunge gli ottavi di finale, dove viene eliminata dall’Eintracht Francoforte. La sfida del 7 dicembre 1994 segna l’ultima apparizione europea del Napoli prima dell’era De Laurentiis.
Una maglia poco rispettata
Nelle tre stagioni successive, l’iconica maglia numero 10 del Napoli cambia proprietario altre tre volte. Nel 1995/1996 la indossa Fausto Pizzi. Dopo il ritorno di Ferlaino, Pizzi si unisce alla squadra di Boskov, reduce da una grande stagione in Serie B con l’Udinese, dove i suoi 11 gol hanno contribuito alla promozione. Quel Napoli chiude al dodicesimo posto con il peggior attacco del campionato – solo 28 reti in 34 partite –, mentre Pizzi realizza 3 gol prima di passare al Perugia.
L’anno seguente la 10 passa a Joubert Araújo Martins, detto Beto. Presentato con grandi aspettative da Ferlaino come giovane promessa proveniente dal campionato brasiliano, il Napoli sceglie di puntare sul ventenne, perdendo così l’occasione di assicurarsi Roberto Baggio e rendere ancora più leggendaria la storia della maglia numero 10.
Beto, che avrebbe dovuto completare un centrocampo ricco di qualità insieme a Fabio Pecchia, Alain Boghossian e André Cruz, resta però solo un anno e va via da vero flop. Il suo carattere irascibile e la scarsa voglia di allenarsi lo rendono una delle più cocenti delusioni nella storia azzurra. La stagione inizia bene, con il Napoli addirittura secondo alla pausa natalizia, ma si conclude con una clamorosa caduta al tredicesimo posto, frutto di sole 2 vittorie nelle ultime 20 partite. Beto mette a segno appena 4 gol.
I problemi economici costringono il Napoli a un’altra rivoluzione per la stagione 1997/1998. La 10 passa a Igor Protti, arrivato dalla Lazio per sostituire il deludente Beto. Un Napoli in crisi nera, che cambia allenatore quattro volte – Mutti, Mazzone, Galeone e Montefusco –, non riesce a superare quota 14 punti in 34 partite e dopo 33 anni consecutivi nel massimo campionato italiano retrocede in Serie B. Protti contribuisce con 6 gol tra campionato e coppa, segnando anche l’ultimo gol in Serie A di un giocatore del Napoli con la numero 10 sulle spalle, nella sconfitta 4-2 contro il Lecce del 22 marzo 1998.
Dopo l’addio di Protti, la numero 10 va sulle spalle del miglior marcatore azzurro della precedente Serie A, Claudio Bellucci, che dopo una buona prima metà di stagione è costretto a un lungo stop per un grave infortunio. Conclude l’annata con 7 gol in 28 presenze tra Serie B e coppe. Nel 1999/2000 Bellucci recupera e torna a segnare a dicembre, nella larga vittoria contro l’Alzano Virescit. Insieme ai 26 gol del leggendario Stefan Schwoch e agli 11 di Stellone, il 10 contribuisce al ritorno del Napoli in Serie A con 6 gol in campionato.
La vittoria del 28 maggio 2000, alla 36ª giornata, resta un momento storico: al minuto 84 Bellucci parte dalla trequarti, si allarga sulla destra e scarica un gran tiro sul secondo palo, firmando il 3-0 contro il Brescia. Con quella rete diventa l’ultimo giocatore del Napoli a segnare con la numero 10 sulle spalle in Serie B, dato che il 24 agosto 2000 il club decide di ritirare la maglia. Per l’annata 2000/2001 a Bellucci viene assegnata la 11, ma in un’annata difficile, segnata da gravi problemi economici e dalla retrocessione, sia Zeman che Mondonico concedono poco spazio all’attaccante romano, che segna solo 2 gol in 18 partite prima di trasferirsi al Bologna.
Il ritorno della 10 in Serie C
Nell’agosto del 2004 il neonato Napoli Soccer di Aurelio De Laurentiis riparte dalla Serie C1, ma le condizioni in cui versa la società sono tutt’altro che semplici. Complici i problemi burocratici legati all’iscrizione al campionato, il club è costretto ad attendere il mercato di gennaio per rinforzare in modo concreto l’organico. Nella prima metà della stagione 2004/2005 si fa affidamento quasi esclusivamente sul mercato degli svincolati, e i risultati ne risentono: con Giampiero Ventura in panchina e un giovane Ignazio Abate a spingere sulla fascia, il Napoli fatica ad ambientarsi, soprattutto in trasferta, dove ottiene una sola vittoria.
Il pareggio interno contro la Fermana costa la panchina a Ventura. Al suo posto arriva Edy Reja, abile nel rimettere ordine in uno spogliatoio appesantito da un gioco poco brillante e da aspettative altissime da parte di una tifoseria che sogna subito il ritorno nel calcio che conta.
Una particolarità di quegli anni in Serie C1 è il ritorno alla numerazione fissa dall’1 all’11 per regolamento. Il Napoli si trova così costretto a rimettere in circolo la numero 10, che torna sulle spalle dei titolari. Nonostante il contesto e il peso simbolico ridotto, per alcuni calciatori indossare quella maglia rappresenta comunque una responsabilità.
È il caso di Emanuele Berrettoni, che nella stagione 2004/2005 colleziona appena 13 presenze senza riuscire a lasciare il segno. Arrivato con discrete aspettative dopo le esperienze con Perugia e Verona, non riesce ad ambientarsi e a incidere.
Nel mercato di riparazione di gennaio arriva dall’Ascoli Marco Capparella, che in più occasioni indossa la 10, tra cui nella finale play-off di ritorno persa 2-1 contro l’Avellino. L’ala romana disputa comunque buone stagioni all’ombra del Vesuvio, mettendo a referto 6 gol e 6 assist in 63 presenze, prima di lasciare il club a fine contratto. Il suo momento più iconico resta la doppia semifinale play-off contro la Sambenedettese: all’andata, in trasferta e con il 17 sulle spalle, subentrato dalla panchina, sigla l’1-1 al 92’. Al ritorno, stavolta con la 10 addosso e davanti a un San Paolo gremito, porta in vantaggio gli azzurri al 10’ e si procura il rigore trasformato dal Pampa Sosa al 42’.
Dopo l’ottima annata alla Samb, è il turno di Mariano Bogliacino, uruguaiano di Colonia del Sacramento, scelto da Reja come nuovo diez per la stagione successiva. In maglia azzurra gioca il miglior calcio della carriera: 156 presenze, risultando determinante nelle due promozioni e nei primi anni del ritorno in Serie A. Bogliacino è anche l’ultimo calciatore ad aver indossato la 10 del Napoli e l’ultimo ad aver segnato con questo numero in gare ufficiali: il primo riconoscimento lo ottiene nell’ultima giornata di Serie C1 contro il Lanciano (0-0, 7 maggio 2006), il secondo il 18 maggio dello stesso anno nella finale di ritorno della Supercoppa di C1 contro lo Spezia, dove segna il gol dell’1-1 su rigore, proprio come Maradona 15 anni prima.
Ma Bogliacino non è stato l’unico. C’è infatti un altro nome che ha portato sulle spalle la leggendaria maglia numero 10 nel biennio partenopeo in Serie C1: Roberto Sosa, el Pampa.
«Chi ama non dimentica»
Nonostante abbia spesso indossato la 9 e la 18, nel momento più emotivamente intenso della sua carriera napoletana, il Pampa Sosa veste proprio la numero 10.
Dopo gli inizi al Gimnasia La Plata e le tre stagioni prolifiche all’Udinese – dove segna 42 reti e conquista una Coppa Intertoto –,gli infortuni della stagione 2001/2002 ne minano la continuità. Da quel momento, l’attaccante argentino inizia a girovagare tra Italia e Argentina, fino alla parentesi al Messina, dove nella seconda metà della stagione 2003/2004 contribuisce con 5 gol in 21 presenze alla storica promozione in Serie A dei siciliani. È lì che accende la lampadina nella testa di Aurelio De Laurentiis.
Il produttore cinematografico fa del Pampa il primo tesserato del nuovo corso partenopeo, dando il via a un legame fortissimo che proseguirà anche dopo il ritiro dal calcio giocato. Alla sua prima stagione in maglia azzurra, Sosa chiude da capocannoniere con 10 gol in 25 partite. Nonostante i numeri, il Napoli fallisce l’obiettivo promozione: decisiva la già citata sconfitta nella finale play-off contro l’Avellino.
Storia diversa quella del campionato 2005/2006. Il Napoli è una macchina da guerra, capace di reagire nei momenti difficili – come la striscia di tre sconfitte esterne tra gennaio e febbraio – e di dominare grazie ai gol di Emanuele Calaiò, Piá, Bogliacino e dello stesso Sosa.
È proprio il ragazzo di Santa Rosa a vivere il suo momento più iconico il 30 aprile 2006, nella penultima gara interna contro il Frosinone. Quel giorno, su gentile concessione di Bogliacino, Sosa scende in campo con la maglia numero 10, indossandola per l’ultima volta nella storia del San Paolo.
Lo stadio è in festa – fatta eccezione per la Curva B, vuota per protesta – e l’emozione è palpabile. Dopo appena tre giri d’orologio, però, Mastronunzio gela il pubblico segnando il vantaggio ciociaro. Servono solo dieci minuti affinché il 10 argentino si accenda: Chiodini esce male dall’area, alza un pallone vagante che ricade tra i piedi del Pampa. Dopo qualche rimbalzo, Sosa si coordina al limite e lascia partire un pallonetto perfetto che si insacca dolcemente sotto la traversa. Il San Paolo esplode. Sosa corre sotto la curva, si toglie la maglia e abbraccia virtualmente un popolo che lo ha accolto, amato e sostenuto.
Durante l’esultanza, mostra un’altra maglia diventata iconica: c’è un 10, con la faccia di Maradona stilizzata, e recita «Chi ama non dimentica. Onore a chi ha scritto la nostra storia». L’arbitro lo ammonisce, ma l’argentino non trattiene le lacrime. Le telecamere lo riprendono mentre rientra in campo con gli occhi lucidi.
Quelle lacrime appartengono a un professionista esemplare, che scelse di scendere all’inferno della Serie C1 per guidare una squadra che, solo due anni prima, non aveva nemmeno palloni per allenarsi. Un calciatore che soffrì un anno in più del previsto in terza serie, ma che in due stagioni riportò il Napoli in Serie A, nel nome di Diego Maradona.
E se è vero che «chi ama non dimentica», è altrettanto vero che se il Napoli è tornato ad essere una grande del nostro calcio, ci è riuscito anche grazie a chi – come il Pampa Sosa – ha onorato la storia e spalancato le porte al futuro.
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