Quattro giocatori di cui innamorarsi dopo l’addio di Zirkzee

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La partenza di Joshua Zirkzee da Bologna ha fatto nascere una voragine a forma di cuore nel cuore stesso della Serie A. Eravamo convinti che ci saremmo goduti il talento olandese per altri due o tre anni nel nostro campionato, o forse oltre. I più ottimisti tra di noi lo hanno immaginato invecchiare, la stempiatura più alta stagione dopo stagione a un certo punto coperta da una fascia alla Gervinho; i riccioli che nel frattempo diventavano più radi e ingrigiti, alla maniera di quelle rockstar che non capiscono quando è ora di crescere e dare un taglio al passato, come fa Sean Penn alla fine di This Must Be Place.

Lo avremmo visto affinare la sua tecnica rendendola pura, mentre il suo corpo si trasformava in un semplice attrezzo messo al suo servizio, utilizzato come un arnese per fare leva sugli avversari o ingannarli con falsi movimenti, veli e sterzate improvvise. Quel corpo che un giorno avrebbe smesso di funzionare a dovere, piegandosi al passare tempo: un infortunio di troppo, qualche scatto in meno all’indietro, una giocata meno lucida del solito. Ci sarebbe voluto un po’ di tempo per adattarsi, avrebbe avuto una o due stagioni di flessione, in cui ci saremmo chiesti se Joshua Zirkzee non fosse finito. Poi avrebbe imparato ad appoggiarsi al tempo e all’esperienza, a prevedere i movimenti delle difese e a sfruttare meglio il suo corpo decadente, perché in fondo per lui era sempre stato solo un mezzo al servizio di altro.

Avremmo assistito al suo canto del cigno, a un’ultima stagione vissuta come un tour d’addio negli stadi che aveva calcato negli ultimi quindici anni, prima della decisione di una nuova avventura nella MLS: un altro anno o due al Miami FC, la squadra che Leo Messi ha ereditato da David Beckham, e infine il ritiro. Ci saremmo goduti appieno il talento di Joshua Zirkzee senza rimpianti, lo avremmo ammirato senza stancarci mai, con la maglia del Milan e la fascia da capitano al braccio indossata fino al termine della sua esperienza in Serie A. O magari lo avremmo visto passare di squadra in squadra: Milan, Juventus e Inter in sequenza, senza mai essere fischiato o insultato, perché c’è qualcosa nella natura di questi giocatori che gli impedisce di attirarsi addosso le antipatie degli altri.

Invece, abbiamo salutato Joshua Zirkzee al termine di questa stagione, con l’offerta del Milan incapace di incontrare le richieste dell’agente del giocatore, finito poi in quel tritacarne umano che è il Manchester United. La sensazione è di aver perso qualcosa di più di un giocatore forte che contribuisca semplicemente ad alzare il livello della Serie A. Con la sua partenza sbiadisce la cifra identitaria e stilistica di cui era caricato, l’essere diventato il simbolo di una certa coolness, di un’eleganza che si traduceva nel suo modo di stare in campo e di stare al mondo. Zirkzee sembra uno di quei giocatori fuori dal tempo, apparentemente troppo lento o vezzoso per riuscire a stare nel posto in cui sta, salvo dimostrare di essere a suo agio in qualsiasi contesto e di dominarlo, perfino. Sono doti naturali e intangibili che creano un seguito anche maggiore di una stagione da venti gol. E poi sono doti rare, difficilmente rimpiazzabili andando a rovistare sul mercato. Soprattutto se il mercato in questione è quello condotto da dirigenze sempre più povere di idee, abituate a rifugiarsi nell’eterno ritorno di nomi che hanno perso l’hype come quei panni che hanno sbiadito il colore stando troppo tempo al sole. 

Così noi, orfani di un giocatore come Zirkzee, ci troviamo costretti a rovistare tra le pieghe delle rose della Serie A in cerca della next big thing che ci smuova dall’apatia in cui siamo scivolati all’ennesimo ritorno italiano di Romelu Lukaku, richiesto per l’ennesima volta da Antonio Conte. Perché cerchiamo qualcuno di nuovo in cui credere, che possa sorprenderci per la prima volta e poi continui a farlo, ancora e ancora. Qualcuno che cercheremo di comprare al fantacalcio e con cui non ci arrabbieremmo se non dovesse segnare, perché vederlo giocare è stata un’esperienza estetica che non dimenticheremo.

Per questo motivo ho selezionato quattro attaccanti che potrebbero riaccendere la scintilla tra noi e la Serie A. Non ci restituiranno Zirkzee, ma ci aiuteranno a ricordarlo. E magari non subito, ma torneremo a innamorarci di nuovo, forse per altri motivi.


Santiago Castro

Come, non Thijs Dallinga? Il centravanti acquistato dal Bologna per circa 15 milioni di euro un attimo dopo la cessione di Zirkzee, di cui dovrebbe essere il successore naturale nell’ideale staffetta tutta olandese imbastita nella sessione estiva di mercato? Il problema di Dallinga è quello di essere un giocatore sobrio, elegante a suo modo, ma che non lascia spazio all’immaginazione. È un’eleganza fredda, basata sul calcolo e sulla precisione del gesto tecnico. Dallinga protegge il pallone finché non è sicuro di poterlo scaricare in sicurezza, non ama il dribbling ed è a suo agio nel giocare sul filo del fuorigioco, con movimenti a elastico che ricordano quelli di Inzaghi. È un giocatore che fa dell’efficienza il suo marchio stilistico, quasi l’opposto rispetto a Zirkzee, il cui talento proliferava nell’improvvisazione, nelle variazioni estemporanee del suo gioco.

L’altro centravanti acquistato dal Bologna prima ancora che Zirkzee partisse è Santiago Castro. A essere sinceri, l’attaccante argentino somiglia a Zirkzee ancora meno di quanto lo faccia Dallinga. Dice di ispirarsi a Carlos Tévez e di essere amico di Lautaro Martínez, che da quando è arrivato in Italia pare averlo accolto sotto la sua ala protettiva. Di Lautaro ha copiato il look, un doppio taglio estremo con una cresta impregnata di gel per capelli che la aiuta a stare su. Trasuda argentinità da tutti i pori, e non fatichiamo a immaginarlo mentre si riempie il piatto di asado insieme a un altro Lautaro – Giannetti stavolta – in una delle domeniche di pausa per le nazionali. Vederlo giocare è un’esperienza diametralmente opposta a quella che si prova osservando Zirkzee: corre a testa bassa, si sbatte, fa a sportellate con i difensori. Il corpo lo usa non come una leva, ma come un grimaldello, e quando è in campo ricorda il movimento continuo dei pistoni di un motore, un incessante su e giù che dopo un po’ rischia di far venire la nausea a chi lo guarda. Restituisce un’idea di potenza primitiva o rudimentale, testimoniata dai soprannomi guadagnati negli anni – King Kong, Locomotora; tutto il contrario dell’olandese, che faceva sembrare leggero e naïve ogni suo movimento.

Perché affidarsi a Santiago Castro per il dopo-Zirkzee allora? Perché ci fidiamo di Sartori, innanzitutto, che di giocatori cult ne ha scovati in quantità industriale nel corso degli anni. Ma questo non ci basta. Ci affidiamo a Castro perché è riconoscibile, quasi iconico. Uno di quei personaggi da videogioco che potremmo riconoscere a priori anche fosse un locked character, con un profilo del genere. Perché anche lui, come l’olandese, ci fa sentire vivi quando lo guardiamo; forse non lo fa nel modo più piacevole possibile – trasmette una certa ansia vederlo ovunque, sempre – ma ci esalta quando lo vediamo recuperare un pallone a ridosso del centrocampo o vincere un duello con la pura volontà, caricando o arpionandosi al terreno. Perché lo stesso Zirkzee lo ha investito dell’eredità che lasciata in dote al Bologna: «Santi, tu sei pronto», pare abbia detto, ed è come quando Voldemort designa Harry Potter come suo eguale, inconsciamente riconoscendo in lui qualità non visibili agli altri. Perché non dovremmo credere a Joshua Zirkzee?


Sebastiano Esposito

Se c’è qualcuno che in questa lista può candidarsi come l’erede calcistico di Joshua Zirkzee, quello è Sebastiano Esposito. L’attaccante ventiduenne porta con sé un bagaglio tecnico che gli permette di non sfigurare in confronto all’olandese, con cui condivide la sensibilità nell’addomesticare palloni complicati e la delicatezza e precisione con cui serve i compagni. Esposito ha sostenuto una seconda parte di stagione alla Sampdoria di alto livello, ricordando come Zirkzee giocava al Bologna sotto diversi aspetti: ha mostrato la stessa leggerezza di passo, la stessa capacità di fare da raccordo tra centrocampo e attacco, e ha fatto vedere di saper leggere egregiamente lo sviluppo del gioco dopo aver controllato il pallone. In fondo, da un giocatore cresciuto nel mito di Francesco Totti non ci saremmo potuti aspettare diversamente.

Il problema di Esposito, fino al suo ritorno in Serie A con l’Empoli, è stata la poca continuità, dovuta anche agli equivoci tattici sul suo posizionamento in campo. Andrea Pirlo, alla Sampdoria, lo ha fatto arretrare nella posizione di trequartista perché fino ad allora aveva dimostrato di essere troppo poco prolifico come centravanti. Esposito converte troppo poco per essere una punta pura, ma crea troppo poco per essere considerato un trequartista a tutti gli effetti. Si trova in quella zona grigia in cui tanti calciatori della sua età sono passati, spesso perdendosi, e questa potrebbe essere la stagione in cui si definisce il suo livello e il suo futuro.

È un altro elemento che lo accomuna a Zirkzee, quello di essere un giocatore difficile da collocare, che forse per liberare il suo potenziale ha bisogno di un allenatore che gli dia fiducia e di una squadra costruita attorno ai suoi movimenti. Due anni fa, attorno a Joshua Zirkzee c’era tanto scetticismo per via dello scarso apporto in fase realizzativa; per questo, si credeva non avrebbe reso da prima punta, e che avrebbe dovuto reinventarsi in un ruolo da comprimario, così come ha dovuto fare Esposito alla Sampdoria. Thiago Motta lo ha messo al centro del suo progetto, privandosi volontariamente di tutte le alternative credibili nel ruolo di centravanti per non mettergli pressioni. Quest’anno ad allenare Esposito ci sarà Roberto D’Aversa, che predilige i centravanti classici e un sistema più ordinato e molto meno fluido rispetto a quanto richiedeva Motta, e che per questo ha scelto al centro del suo attacco Lorenzo Colombo, mentre Esposito ancora una volta è stato dirottato sull’esterno. La consacrazione dell’ex interista probabilmente passerà dalla capacità che avrà di imporsi come perno della squadra, mostrando a D’Aversa che è lui il centravanti di cui l’Empoli ha bisogno, cosa che proprio Zirkzee non riuscì a fare quando lo stesso tecnico di Stoccarda lo allenò ai tempi di Parma.


Iker Bravo

Di Iker Bravo sappiamo veramente molto poco. Ha diciannove anni e ha esordito in Bundesliga con il Bayer Leverkusen quando ne aveva sedici. Quella è stata l’unica partita dei cinque campionati nazionali che ha disputato. Poi qualche anno passato a fare la spola tra il Real Madrid Castilla e il Leverkusen Under-19, fino all’approdo di questa estate all’Udinese, dopo un Europeo Under-19 vinto con la Spagna in cui è stato premiato come miglior giocatore della competizione.

Nelle prime tre gare ufficiali con i bianconeri ha giocato solo uno spezzone contro il Como. Sembra difficile dire quanto potrà giocare da qui alla fine del campionato, anche considerato il numero sproposito di attaccanti che l’Udinese ha acquistato quest’anno: non è semplice pensare di uscire vivi da una Royal Rumble che vede partecipare Alexis Sánchez, Florian Thauvin, Lorenzo Lucca, Brenner, Keinan Davis e Damián Pizarro; soprattutto, difficile pensare che a farcela sia un ragazzo con la faccia da bambino, alto e dinoccolato e con l’aria del ragazzo di campagna che all’improvviso si trova a fare i conti con la spietatezza e la crudeltà di un mondo in cui vige la legge del più forte. Un diciannovenne che dalla sua non ha né la malizia e l’esperienza di Sánchez – trentasei primavere a dicembre – né la potenza di Lorenzo Lucca – 2,01 metri e due spalle che fanno provincia. Tutto questo in una squadra come l’Udinese, dove fino a qualche mese fa per far parte della rosa si doveva mostrare di avere qualche legame di parentela con Ivan Drago, o per lo meno di essere sopravvissuto ai suoi stessi allenamenti – guardate che fine ha fatto Simone Pafundi.

Perché credere che Iker Bravo possa farcela ad affermarsi come nuovo Zirkzee? In parte perché l’aria a Udine sembra leggermente cambiata con l’arrivo di Kosta Runjaić, allenatore austriaco-tedesco che si sente jugoslavo. E chi meglio di lui potrebbe riuscire nel tentativo di inserire un giocatore tanto diverso in un contesto che fino ad ora ha rigettato qualsiasi giocatore che non sacrificasse anche le briciole del proprio talento sull’altare dell’intensità? Bravo ha l’aria di essere uno di quegli attaccanti iper-tecnici e eccellenti nell’associarsi con i compagni. Gli piace venire incontro al pallone e girarsi di colpo, tentare di superare i marcatori con un tunnel o un tocco di esterno. È abituato a spostare il pallone all’ultimo momento disponibile, infondendo negli avversari un senso di falsa sicurezza prima di lasciarli lì. È una caratteristica che condivide con Zirkzee, che ama domare la confusione che si genera intorno a lui assecondandola, trovando il momento giusto per mettere ordine con una giocata.

L’altro motivo per crederci è che ne abbiamo bisogno. Abbiamo bisogno che un ragazzo spagnolo di diciannove anni al suo primo anno in Serie A sovverta tutte le sue regole, o almeno le metta in discussione per qualche mese. Abbiamo bisogno che arrivi dal nulla, senza aspettative; uno sconosciuto che non aveva hype attorno, un acquisto passato in sordina di cui stupirci tra qualche mese. Uno che sia ancora all’inizio della sua carriera e che al suo talento non siano stati ancora posti limiti, perché nessuno sa ancora quali possano essere quei limiti. Ci serve credere che Joshua Zirkzee sia una creatura rara ma non unica e ogni tanto, se cerchiamo bene tra le pieghe di un mercato povero e decadente, qualcosa di interessante si possa ancora scovare.


Joel Pohjanpalo

Di Joel Pohjanpalo, invece, sappiamo praticamente tutto. Quasi trent’anni e una carriera che si avvia verso il tramonto, la maggior parte della quale trascorsa in Bundesliga, prima di un anno di purgatorio in Turchia e del passaggio definitivo al Venezia, di cui è il centravanti titolare da due stagioni. In 70 partite di Serie B ha segnato 41 gol e servito 10 assist; un contributo che ha permesso ai veneti di tornare nella massima serie dopo tre anni di lontananza. Un Venezia che nel frattempo è passato attraverso un possibile fallimento, scongiurato solo dall’intervento del rapper Drake, che ha portato nelle casse del club circa 40 milioni di euro con il suo contributo e quello di altri investitori nordamericani.

Pohjanpalo, intanto, si candida come titolare anche per questa stagione, provando a confrontarsi con un livello sensibilmente più alto di quello a cui si era abituato. Non sappiamo se riuscirà a reggere l’impatto con la Serie A, avvicinatosi anagraficamente alla soglia del declino fisico per un calciatore professionista. Da qui in poi, per il finlandese ogni stagione sarà una scommessa su quanto riuscirà ancora a spremere il suo fisico, fino al momento in cui si renderà conto che i giorni migliori sono ormai alle spalle. Fare questa scommessa in Serie A sarà ancora più difficile, soprattutto senza una guida esperta come quella di Vanoli in panchina.

Pohjanpalo è grosso e pesante, a volte macchinoso; un giocatore che sa perfettamente come difendere il pallone e come rubare il tempo d’inserimento agli avversari, che quando ingaggiano un duello contro di lui solitamente ne escono sconfitti sbattendogli addosso; segna gol sporchi, di rapina. Così diverso da Zirkzee, e alla sua età i margini per diventare quel tipo di giocatore sono minimi. Eppure, tra i giocatori in questo elenco è quello che più lo ricorda. Non per quello che ha mostrato in campo, ma per tutto quello che gira attorno: il giocatore che è diventato il simbolo del Venezia Calcio, l’uomo copertina di un progetto che stava pericolosamente crollando su sé stesso prima del suo arrivo. Quando pensiamo a Zirkzee lo associamo alla cavalcata che ha portato il Bologna a giocare la Champions, ci viene in mente il percorso fatto dalla squadra per arrivare a quel punto; quando pensiamo a Pohjanpalo rivediamo le difficoltà del Venezia, la strada fatta per arrivare a rigiocare nella massima serie.

Il finlandese, come Zirkzee, definisce un particolare modo di stare al mondo, un’identità così forte che si riflette nel suo modo di giocare e nel suo modo di viversi la città. Per l’olandese si parlava di coolness, e anche in Pohjanpalo la ritroviamo, declinata in modo un po’ diverso, leggermente decadente, come il fisico che mette in mostra quando esulta senza maglia; come quando i veneziani lo incontrano al bar la sera, passato lì per prendere al volo una birra e fare quattro chiacchiere con le persone del posto. Il baffo folto, a volte accompagnato da una barbetta ispida che spunta qui e lì sul volto, i capelli biondi tirati all’indietro che lasciano intravedere la stempiatura che anno dopo anno diventa più alta. Pohjanpalo è uno di quei personaggi tardo-settecenteschi che vengono in Italia perché glielo ha consigliato il medico, per prendere aria pulita e ripulire i polmoni, guarire dalle ferite dell’anima. Uno di quelli che poi dell’Italia si innamora, resta a viverci e ci scrive un libro su. Anche se non si muove come Zirkzee, non lo vorreste uno così in squadra?

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