C’è una data che ogni appassionato di calcio italiano conosce a memoria: 5 maggio 2002. È il giorno in cui l’Inter crolla clamorosamente e a sorpresa all’Olimpico, contro i gemellati della Lazio, con la Juventus che vince a Udine, la sorpassa e conquista lo scudetto: uno dei finali di campionato più incredibili di sempre, certamente il più emotivamente coinvolgente, a prescindere da quale sia il sentimento provocato e rievocato da quella giornata. Ma in quella domenica e in quel campionato passato alla storia, c’è una terza squadra che non viene quasi mai ricordata. Una squadra che in quel 5 maggio del 2002 vince, ci crede fino all’ultimo, ma esce di scena in silenzio: si tratta della Roma.
Un campionato senza re, ma con tanti fantasmi
La stagione 2001/2002 fu un viaggio senza un dominatore, un romanzo calcistico senza un vero protagonista. Un campionato in bilico, come una moneta che gira a lungo prima di cadere su una faccia.
L’Inter di Héctor Cúper sembrava destinata alla corona: prima in classifica per mesi, trascinata dal talento fragile e meraviglioso di Ronaldo e da un organico costruito per tornare a vincere lo scudetto dopo oltre un decennio d’attesa. Ma crollò sul più bello, con il più crudele dei destini.
La Juventus di Marcello Lippi, come spesso accade nella sua storia, non incantò ma non tremò. Fu costante, metodica, chirurgica. Raramente spettacolare, ma sempre lì. E quando tutti gli altri si persero, lei rimase in piedi. Bastò questo per vincere, con la Lazio che le restituì quello che le aveva tolto due anni prima.
E poi c’era la Roma. Una Roma mai realmente dominatrice, ma sempre presente. Come un leone che segue da lontano la sua preda in attesa di un passo falso, come un’ombra che segue da vicino i passi del destino, senza mai poterlo afferrare. Una Roma che alternava sprazzi di calcio sublime a blocchi improvvisi, momenti di dominio assoluto a serate di inspiegabile sterilità. Una squadra che aveva l’equilibrio del campione, ma anche le crepe sottili dell’uomo comune. Una Roma campione d’Italia, crepata però da diatribe interne e dalle solite chiacchiere esterne.
Ma la Roma, in quella stagione, non fu la squadra che perse il campionato. Fu la squadra che lo lasciò scivolare via, centimetro dopo centimetro. Un pareggio alla volta. Un’occasione sprecata dopo l’altra. Domenica dopo domenica.
Le ferite aperte
C’è un elenco di partite che ancora oggi fanno male ai tifosi giallorossi, gare che fanno capire quanto vicina la Roma sia stata dall’impresa di vincere due scudetti consecutivi, riuscita solo a Juventus, Inter e Milan dagli anni Cinquanta in poi.
La Roma campione d’Italia all’alba della stagione si presentava con un entusiasmo palpabile, la squadra sulla carta si era addirittura rinforzata e sembrava più completa, consapevole e affamata. Ma la carta, come sempre, conta pochissimo. L’inizio di quel campionato fu uno schiaffo inaspettato, una doccia gelata che tagliava in due l’euforia estiva.
Nelle prime due partite contro Hellas Verona e Udinese la Roma non va oltre l’1-1. In entrambe le gare la compagine capitolina passa in vantaggio, salvo poi essere raggiunta. Ma il secondo pareggio, in particolare, lascia un segno più profondo: gol al 91′, firmato dal grande ex Roberto Muzzi, uno di casa, che meglio di altri conosceva le fragilità del cuore giallorosso.
C’è un filo sottile, quasi mistico, che lega i giallorossi ai gol degli ex. È come una maledizione scritta tra le righe della storia, e non rappresenta un’eccezione nemmeno la partita successiva, la terza del campionato, in cui la Roma trova addirittura la prima sconfitta annuale. Finisce 2-0 contro il Piacenza di Eusebio Di Francesco, appena ceduto e autore della rete che chiude la gara.
Due punti conquistati nelle prime tre partite. E a conti fatti, basterebbe solo questo per spiegare l’intero campionato. Sarebbe bastato un avvio diverso, più attento, per raccontare di un’altra storia e non di rimpianti, ma i fantasmi non finiscono lì.
La Roma chiuderà il proprio campionato pareggiando tutte le partite in trasferta contro le squadre poi retrocesse, punti persi che peseranno come macigni sulla classifica finale. Dopo l’1-1 del Bentegodi, infatti, arriverà il medesimo risultato al Via del Mare contro il Lecce, e successivamente due 2-2 al Penzo di Venezia e al Franchi contro la Fiorentina. Tanti piccoli “se”, tanti piccoli “ma”. Troppi.
Eppure, non fu una Roma debole. Fu una Roma compatta, matura, tecnica. Una squadra da manuale e di carattere, ma che lo tirava fuori solo a comando. A volte troppo razionale, troppo lineare, troppo pensante. Come se avesse paura di farsi male. E nel calcio, spesso non vince chi è solo forte. Vince chi colpisce quando conta. Chi sa essere feroce, perfino spietato. La Roma, quella Roma, fu spesso solo elegante. Quasi cortese. Ma il campionato non fa sconti a chi si limita a essere giusto. Bisogna essere forti nel momento giusto.
Una squadra da non dimenticare
Mentre tutti parlano delle lacrime di Ronaldo, dell’invasione juventina a Udine e del “suicidio” interista all’Olimpico, in pochi ricordano quella Roma, arrivata seconda e a un solo punto dallo scudetto.
E quella dell’annata 2001/2002 non era una Roma qualunque. Era la Roma campione d’Italia in carica. La Roma di Fabio Capello, con giocatori del calibro di Francesco Totti, Gabriel Omar Batistuta, Vincenzo Montella, Antonio Cassano, Emerson, Walter Samuel, Cafu, Marco Delvecchio. Una delle squadre più forti, belle e complete mai viste in giallorosso, forse la più grande degli ultimi trent’anni.
Una delle gare più memorabili e spettacolari della Roma 2001/2002
Una squadra che chiuse la stagione con enormi rimpianti, ma senza perdere l’onore. Perché, in fondo, quella Roma era come un eroe tragico: forte, elegante, consapevole del proprio valore, ma anche terribilmente umano, capace di inciampare proprio quando sembrava destinato a volare. Una squadra fatta di carne, sudore, intuizione e cuore, di bellezza e di contraddizioni.
La Juventus vinse perché fu macchina, l’Inter perse perché fu caos. La Roma, invece, fu anima. E nel calcio, non sempre l’anima basta. Ma se è vero che il calcio è anche poesia, allora quella Roma è stata un verso bellissimo, rimasto sospeso. Mai letto fino in fondo, ma non per questo da dimenticare.
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