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La scaramanzia nel mondo del calcio

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«Dio è morto! Dio resta morto! E noi lo abbiamo ucciso! Come ci consoleremo noi, gli assassini di tutti gli assassini? Quanto di più sacro e di più possente il mondo possedeva fino ad oggi, si è dissanguato sotto i nostri coltelli». Quasi un secolo e mezzo fa Friedrich Nietzsche aveva cercato di avvisarci, che presto o tardi Atlante, la fede, avrebbe smesso di sorreggere quel meraviglioso globo di certezze e speranze in cui piacevolmente avevamo trovato alloggio. Dio oggi è ancora vivo, ma agonizza in un letto di ospedale, mentre la sua infermiera più cara, l’umanità, gli fa sempre meno visita. Il mondo del XXI secolo – perlomeno quello occidentale – corre verso l’ateismo e l’agnosticismo, ma per quanto ci piaccia o spaventi pensare che la profezia di Nietzsche si stia per compiere, per quanto ci sentiamo sempre più distanti dalle credenze passate, il nostro tribalismo si manifesta ancora in noi sotto varie forme, e ne è un esempio la scaramanzia. Non importa quanto assurdo un gesto scaramantico possa sembrare, il sentimento di conforto che lascia e la sicurezza che infonde sono prevalenti. Per questo, se ci viene insegnato che masticare chewing-gum dopo la mezzanotte equivale a mangiare la carne dei cadaveri – sì, questa credenza esiste davvero in parti della Turchia – noi obbediamo. Lo sport è una delle sfere che più presenta componenti arcaiche della natura umana, come la ricerca del mistico, del propiziatorio, del protettivo, e il discorso resta intatto per la sotto-sfera del calcio, fortemente attratta dalla scaramanzia.



I Mondiali e gli Europei di calcio sono grandi vetrine per la scaramanzia, sul doppio piano dei tifosi e dei protagonisti veri e propri. Il 99,9999% di noi è o conosce un religioso esecutore di gesti, abitudini, riti ritenuti imprescindibili per un buon andamento della Nazionale, della serie «dobbiamo vederla sempre allo stesso posto» o «tu siediti alla mia destra, che l’altra volta così abbiamo vinto» o ancora «noooo, dovevi rimetterti quella maglietta!». La scaramanzia nel mondo del calcio però si esprime anche nel dire-non dire – il classico “non succede ma se succede”, che spesso si tramuta nell’auto-annunciarsi come sconfitti. Un esempio impeccabile è la recente finale di Euro 2020, caratterizzata dallo scontro polare tra le congratulazioni dei tifosi italiani agli avversari, eletti già futuri vincitori, e la confidenza britannica, espressa da uno slogan che non ammette il condizionale. Scontro che allargato a un contesto più grande evidenzia il tema dell’eredità culturale, essendo la superstizione parte integrante del mondo latino molto più di quello anglosassone.

Poi si passa ai calciatori, agli allenatori e a tutti gli altri collaboratori. Prendendo ancora ad esempio Euro 2020, difficile pensare che l’Italia avrebbe avuto qualche chance di successo senza lasciare ad ogni partenza col bus Gianluca Vialli a piedi per qualche metro, avendolo quasi dimenticato prima del match inaugurale contro la Turchia. Il nostro popolo è tipicamente superstizioso, infatti di strani gesti compiuti da giocatori/allenatori italiani se ne trovano a bizzeffe, da Rino Gattuso, che prima delle partite del Mondiale tedesco passava minuti seduto sul gabinetto leggendo i libri di Dostoevskij – cos’è, non vi aspettavate che Gattuso leggesse Dostoevskij? Neanch’io –, a Giovanni Trapattoni, solito versare acqua santa sul terreno di gioco prima delle partite del Mondiale del 2002. Per contrastare Moreno, però, forse non sarebbe bastata neanche la benedizione di un prete.

L’aura speciale che avvolge le grandi manifestazioni non vede confini: tutto il mondo è paese, un paese che non ha paura di rivolgersi al sovrannaturale per portare a termine una missione. Nasce così il famoso caso del difensore francese Laurent Blanc, solito baciare la testa diversamente-capelluta del portiere Fabian Barthez, “ottenendo” in cambio un titolo mondiale ed uno europeo. Se la testa di Barthez avesse ospitato una chioma alla Fellaini la Francia avrebbe raggiunto tali successi? Forse sì, forse no, forse Blanc avrebbe trovato un altro capo lucido a cui dare un bacio.

Restando in Francia, indimenticabili sono le stravaganze compiute da Raymond Domenech, CT de Les Coqs dal 2004 al 2010 ed estremo seguace dell’oroscopo, tanto da non convocare giocatori nati sotto il segno dello scorpione – ecco spiegata l’assurda esclusione di Robert Pirès da Germania 2006 – e da non far giocare quasi mai i nati sotto il leone, soprattutto se difensori: «quando ho un leone in difesa ho sempre il mio fucile pronto, come se sapessi che da un momento all’altro potrebbe esserci un pericolo». Una visione del calcio davvero angosciosa.

A concludere la rubrica “Le nazionali ci rendono dei folli” ci sono i metodi opposti di Tomáš Rosický e Mario Gómez: se da una parte il Piccolo Mozart scelse di non cantare più l’inno nazionale, accortosi che cantarlo comportava una sconfitta certa, il Super Mario tedesco constatò che non urlarlo a squarciagola gli avrebbe reso impossibile segnare.

Le regole comunque hanno spesso la loro eccezione: il belga Michel Preud’homme non era un uomo disposto a tutto, e in occasione del caldissimo Mondiale di USA 1994 scelse di accantonare la pratica di vestire la maglia dello Standard Liegi – suo primo club – sotto la regolare divisa da gioco. Ironia della sorte, fu eletto miglior portiere del torneo.



Il calcio più ordinario, quello di club, non è ovviamente esente da rituali di scaramanzia, grazie a degni profeti della fortuna, testimoni di epoche diverse. Kolo Touré voleva essere sempre l’ultimo ad entrare in campo, e nel 2009, in Champions contro la Roma, l’Arsenal iniziò la seconda frazione in nove perché Gallas stava venendo medicato e lui non intendeva infrangere il suo ordine. L’ivoriano era forse un discepolo del leggendario Bobby Moore, che pretendeva di essere l’ultimo in squadra a mettersi i pantaloncini.

Interessanti anche i casi di quelli che potremmo definire come i “bagnisti”, calciatori che facevano del bagno il santuario e del gabinetto l’altare dei loro riti. Già menzionato Gattuso, importante ricordare John Terry, che rendeva l’uso della stessa solita toilette il culmine di un processo pre-partita che iniziava dall’ascolto dell’album ‘Confessions‘ del cantante R&B Usher. Un altro inglese, David Calamity Jamesportiere che giocò anche in attacco per il Manchester City –, attendeva nel bagno degli spogliatoi che tutti uscissero, per poi sputare sul muro. Poi ancora un italiano, Filippo Inzaghi, che faceva visita al WC dalle tre alle quattro volte prima dei match, probabilmente perché costretto a smaltire le innumerevoli confezioni di Plasmon che spazzolava, lasciando rigorosamente due biscotti sul fondo. Una dieta che spero profondamente non abbia continuato a seguire da allenatore, e che dovrebbe rendere i tifosi milanisti più sollevati riguardo il suo ritiro.

Anche due icone come Eusébio e Johann Cruijff possedevano abitudini porta-fortuna. La Pantera Nera usava caricarsi giocando con una monetina all’interno della scarpa destra. Principiante. Il fuoriclasse olandese costruì parte della sua legacy sulla scaramanzia: la sua maglia numero 14, una delle più iconiche della storia del calcio, fu adottata dopo che egli prestò la 9 al compagno di squadra Gerrie Mühren prima di una partita poi dominata contro il PSV Eindhoven. Oltre a questo, Cruijff colpiva con un pugno lo stomaco del proprio portiere Gerrit Bals – encomiabile il suo sacrificio – e sputava la gomma da masticare nella metà campo avversaria, smorzando così l’ansia per le partite.

In tempi più recenti due casi di studio interessanti sono Roman Bürki e Jamie Vardy. Il portiere svizzero è ormai celeberrimo per il vizio di prendere in mano il pallone di gioco, per tastarne la pressione, nel bel mezzo del consueto scambio dei gagliardetti, non facendosi scrupoli eventualmente a rubarlo a bambini o a recuperarlo passando tra le gambe dell’arbitro. Il bomber di Sheffield invece scolava mezza bottiglia di Porto la sera prima della partita e tre lattine di Red Bull il giorno della gara, questo, ovviamente, nell’anno del trionfo in Premier League del Leicester. Aggiungiamo che ad ogni clean sheet mister Ranieri premiava la squadra con una pizza, ed otteniamo un giocatore forte dall’alimentazione molto forte.

Nella parte iniziale di questo articolo scrivevo di come la superstizione fosse una componente molto meno presente nella società anglosassone di quanto non lo fosse in quella neolatina-mediterranea. Oggi dopo la lunga scrittura di questo pezzo posso dirmi una persona diversa, e le gesta di Terry, James e Vardy mi hanno aperto gli occhi, mostrando una mia sottovalutazione del fenomeno scaramantico nel Regno Unito. Del resto, solo un luogo che respira scaramanzia da tutti i pori è capace di dare i natali ad Alan Rough, figura rilevante del calcio scozzese e assoluto mostro di ritualità.

Tenetevi forte: «Avevo preso l’abitudine di non radermi prima delle partite, e dovevo sempre appendere i miei vestiti al gancio numero 13. Facevo rimbalzare un pallone contro il muro dello spogliatoio per un certo numero di volte, stando attento a non finire nella parte sfortunata del pavimento. Indossavo una vecchia maglia sotto la divisa e portavo sempre le mie calze bianche personali, che ho continuato a portare con me anche quando la Federcalcio scozzese ha iniziato a esigere il rosso per tutta la squadra. Prima di una partita in Israele avevo dimenticato di lavarle, per cui le ho lavate all’ultimo istante e indossate: dagli scarpini mi uscivano bolle di sapone, ma ho giocato una delle mie migliori partite in nazionale. Avrei dovuto farlo d’abitudine». Attenzione, non finisce qui: «Avevo un cappello pieno di portafortuna da mettere dietro la rete. C’erano dentro una vecchia pallina da tennis, un portachiavi, un paio di biglie, e molta piccola bigiotteria. Mi piaceva soffiarmi il naso e chiedere l’ora, e avevo sempre sette chewing-gum con me: tre per ogni tempo e una per il recupero. Sì, ero piuttosto superstizioso». Spero di non essere il primo a dirtelo, ma purtroppo, Alan, quello che hai appena descritto sembra essere a tutti gli effetti disturbo ossessivo-compulsivo.

A conclusione di questa rassegna porrei un ultimo esempio, che testimonia la forza incontrastabile della superstizione sulle nostre menti. Valerij Lobanovs’kyj, il freddo, razionale, scientifico Valerij Lobanovs’kyj, era anch’egli succube di questa forza. L’allenatore ucraino impediva ai suoi giocatori di utilizzare la maglia numero 13, doveva sempre scendere dal pullman per ultimo e, soprattutto, le sue squadre dovevano avere almeno un giocatore dai capelli rossi, pena in caso contrario il fallimento della stagione.

Quando anche la fredda concretezza del Colonnello crolla, è lecito farsi quella domanda: perché? Perché la parte più cieca e istintiva del nostro cervello riesce a convincerci dei suoi piani? Perché abbocchiamo all’idea che qualcuno o qualcosa lassù ci richieda di compiere azioni spesso ridicole?

Le risposte sono molteplici, ma la più importante è probabilmente quella espressa dallo psicologo statunitense Stuart Vyse: «Viviamo in un mondo in cui non è possibile riuscire sempre a controllare tutto e, di conseguenza, le superstizioni diventano una sorta di rassicurante meccanismo di controllo per ridurre l’ansia e fare in modo che tutto funzioni nel modo giusto». In fondo, nel calcio e non, la scaramanzia altro non è che un peluche che stringiamo forte al petto per farci coraggio e dormire sereni, mentre il letto è circondato dal buio del caos di un’esistenza che forse non capiremo mai. Ma adesso silenzio, la partita sta cominciando, tutti seduti ai soliti posti.


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