Almeno una volta nella vita, a tutti noi è capitato di sentire, e perché no, di pronunciare, la frase «Metti la Primavera!» quando per la nostra squadra del cuore le cose non stanno andando proprio alla grande. Questa frase, divenuta rituale, è ormai parte della liturgia calcistica, iperbole volta a sottolineare come un manipolo di ragazzini sbarbatelli garantirebbe prestazioni più dignitose degli strapagati protagonisti dello scempio a cui stiamo assistendo in quel momento: a volte realtà, a volte speranza, altre semplice denigrazione destituita di fondamenta.
«È meglio la Primavera» è dunque nulla più che un modo di dire, alla meglio un cliché, come dimostra la faccia preoccupata, stranita e spesso delusa di chi legge nomi sconosciuti fra l’undici titolare della propria squadra quando, effettivamente, membri della tanto agognata Primavera vengono aggregati ai grandi: «E mo’ questo chi è?»; «Ma dove pensiamo di andare con questi qua?».
L’italiano medio agogna intimamente il grande nome forestiero ben attempato tanto quanto cerca di rimarcare il suo fine intelletto calcistico lamentando la scarsezza di giovani compatrioti talentuosi nel nostro calcio. L’ansia del risultato a tutti i costi, la derisione e la sfiducia verso chiunque provi a proporre un modello differente da quello usuale, sono fra le ataviche cause del ritardo del calcio italiano nella costituzione sia di un settore giovanile adeguato, che di un riciclo immediato e low-cost che garantisca completezza alla rosa. Ed è proprio questa seconda esigenza che ha segnato la nascita e lo sviluppo delle seconde squadre.
La Masia, eccellenza ed eccezione
La Spagna ha avuto un ruolo pioneristico in questo senso, proponendosi come modello di riferimento per tutta Europa, soprattutto grazie al Barcellona. Al netto dei milioni spesi, spesso anche male, dei problemi finanziari, e di tutte le polemiche che hanno investito il club catalano negli ultimi anni, la capacità dei blaugrana di scovare, modellare e rifinire giovani talenti è impareggiabile. Sebbene la Masia possa produrre quattro o cinque grandi calciatori, il club può comunque decidere di spendere 100 milioni su un profilo già formato. Giusto o sbagliato che sia, l’efficienza del settore giovanile è una variabile totalmente indipendente da tale scelta.
Tuttavia, usare l’esperienza del Barcellona come riferimento presenta delle insidie: la Masia non è media né mediana di questo fenomeno, ma irraggiungibile eccellenza, almeno allo stato attuale delle cose. Il Barcellona, sin da Rijkaard, ed ovviamente, in seguito all’impronta indelebile lasciata da Pep Guardiola, ha tentato negli ultimi vent’anni di mantenere un’identità tattica chiara, e per quanto possibile, unica. Se tutte le altre squadre al mondo, prendono forma e carattere dalla tipologia di allenatore su cui la società punta, il Barcellona ha l’unico obiettivo di garantire che il suo sistema di gioco venga reiterato. Plasticamente, grandi allenatori come Antonio Conte o Carlo Ancelotti probabilmente non verrebbero mai presi in considerazione, mentre figure come Ernesto Valverde o Gerardo Martino ottennero, nel dopo Guardiola, un contratto da allenatore, nonostante una carriera lontana dai grandi palcoscenici. In altre parole, ottenere la panchina del Barcellona non dipende dai propri trofei e dal proprio glorioso passato, ma dalla propria filosofia, dal mutuo riconoscimento di una visione condivisa di fare calcio.
Ai fini del nostro ragionamento, ciò significa che questa filosofia impregna tutti i tecnici che operano nel mondo Barcellona, da chi allena i bimbi fino alla prima squadra, garantendo materiale umano modellato ad hoc per le esigenze della prima squadra e disponibile in qualsiasi momento. Dopo una decina d’anni, è ancora possibile rinvenire nei vari Gavi, Lamine Yamal e Pau Cubarsí non solo giocatori già pronti per giocare ai massimi livelli al loro debutto, ma caratteristiche che ricordano in modo impressionante i loro leggendari predecessori. Comparando Barcellona e Inter, ad esempio, è facile vedere come questo sia impossibile per una squadra che in pochi anni è passata da Luciano Spalletti ad Antonio Conte a Simone Inzaghi, e che non presenta un’identità storica immediatamente riconoscibile, come vero per qualsiasi altra squadra italiana, dove i settori giovanili puntano più a formare giovani talenti in modo asettico, che ad abituarli ad uno stile di gioco che morirà con la fine del contratto dell’allenatore di turno: la Juventus vista con Massimiliano Allegri è antitetica a quella immaginata da Thiago Motta, ed entrambe le filosofie sono imposte ai bianconeri dalla concezione calcistica del proprio allenatore, non essendo affatto endemiche e incontrovertibili.
Le seconde squadre sono la nuova Primavera?
La Juventus è stata la prima società a muovere un passo decisivo per avvicinare timidamente i propri obiettivi rispetto al settore giovanile a quelli imposti dal calcio spagnolo. Qualcuno potrebbe ribattere che la scelta di costituire una seconda squadra, la Juventus Next Gen, non sia un cambiamento epocale, data la preesistenza e coesistenza della squadra Primavera; tuttavia, la Next Gen, come tutte le altre seconde squadre nate o che nasceranno in futuro, sono l’inevitabile frutto e adeguamento di un processo trasformativo di questo sport a livello globale.
Come in ogni altro campo esistenziale, l’irrefrenabile progresso di scienza, medicina e tecnologia rende sempre più semplice avere atleti pronti e strutturati per competere a qualsiasi livello e a qualsiasi età. Il fatto che sempre più squadre al mondo diano spazio a giocatori molto giovani non dipende da un improvviso atto di amore paterno da parte di allenatori e dirigenze, ma da una competitività attuale impensabile un decennio fa per un ragazzo di 17 o 18 anni, a meno che non abbiate voglia di perdere tempo citando i nomi dei mostri sacri di questo sport, ingiocabili già dal ventre materno, esercizio retorico meramente fine a se stesso.
Sostanzialmente, se il Campionato Primavera, un torneo dilettantistico, costituisce il livello più alto che un calciatore possa raggiungere prima di entrare in prima squadra, nel calcio moderno incontrerà sempre delle barriere che ne ostacoleranno l’affermazione: innanzitutto c’è un problema percettivo in quello che noi consideriamo “giovane”. Quando Toni Kroos si è ritirato, ci siamo tutti resi conto che quell’uomo all’apparenza eterno e di esperienza decennale, nel mondo reale non è che un ragazzo di 33 anni: giovane è un concetto molto relativo per lo sport. Dunque, nel calcio attuale, dove Yamal vince un Europeo da protagonista a 16 anni, ha davvero senso tenere giocatori di 19 e 20 anni in un campionato dilettantistico?
E, venendo al secondo punto, la differenza fra le Primavere e le seconde squadre sta tutta in questa semplice comparazione. Grazie all’iscrizione alla Serie B o Serie C, quegli stessi ragazzi hanno la possibilità di giocare in un campionato professionistico e, inevitabilmente, essere molto più adeguati a esordire in prima squadra.
La possibilità di mantenere nelle seconde squadre giocatori anche fino a 23 o 24 anni, permette di riscoprire il più puro significato di “riserva”, non necessariamente declinato come “giovane”. Ad esempio, l’Inter, ad oggi, se vuole permettere che un suo giocatore maturi e lasci il Campionato Primavera, si trova costretta o a garantirgli la titolarità, scelta ardua da prendere, o mandarlo in prestito, con il rischio che si adatti a filosofie calcistiche differenti, che si perda nei meandri oscuri delle serie inferiori o della panchina, se non addirittura di essere costretta a cederlo, e senza la possibilità di poterlo richiamare in prima squadra all’occorrenza. Oggi Filip Stanković, dopo un anno di prestito alla Sampdoria, gioca nel Venezia, ma è facile immaginare come sarebbe stato gestito diversamente se fosse stato aggregato alla seconda squadra dell’Inter in Serie C e a che opportunità sarebbe potuto andare incontro, ad esempio, nel catastrofico scenario di un coevo infortunio di Yann Sommer e Josep Martínez.
Mi riferisco, chiaramente, a quanto oggi fa il Milan con Francesco Camarda, per il quale essere aggregato alla prima squadra non significa scaldare la panchina, dato che nello stesso anno riesce a sfiorare il goal in Champions League e a collezionare una dozzina di presenze in Serie C. Avere un giocatore sempre a disposizione, nonostante giochi comunque in un campionato professionistico, segna una svolta decisiva per permettere ai giovani una graduale integrazione nella prima squadra.
La Primavera, con un limite d’età dei tesserati fra i 19 e i 20 anni, implica un continuo riciclo che, anche volendo, rende quasi impossibile produrre giocatori pronti a prendere il posto da titolare in prima squadra, senza che invece il club decida di ricorrere al mercato, a meno che ciò non dipenda dalle qualità fuori dal comune del calciatore, come avvenne per Gigio Donnarumma.
Godere del tesseramento di un calciatore fino ai 23-24 anni, invece, senza l’ansia di dovergli necessariamente garantire un posto in prima squadra, ma potendolo sfruttare all’occorrenza, mentre comunque sviluppa esperienza come calciatore professionista settimana dopo settimana, permette un ricambio ciclico che potrà rappresentare il punto di partenza su cui ricostruire la competitività del calcio italiano.
Il modello Juventus funziona?
Come anticipato nel paragrafo introduttivo, l’italiano mai contento ha già calato la sua scure su questo progetto. La Juventus dei vari Mbangula, Savona e Yildiz non sta rispecchiando le aspettative, e dunque, per deduzione, la Next Gen è stata un fallimento. Tuttavia, ironia a parte, è vero che c’è ancora molto lavoro da fare. Ad esempio, come detto, siamo ben lontani dal modello spagnolo dove il giovane viene individuato per reparto. Il momento negativo di Dušan Vlahović non è stato supplito grazie alla Next Gen, ma grazie a Kolo Muani, in effetti. Tuttavia, ancora una volta è necessario marcare come lo scarso rendimento dei nuovi acquisti, pagati profumatamente, come Koopmeiners e Douglas Luiz, o le difficoltà di attecchimento delle idee di Thiago Motta, siano eventi del tutto indipendenti dal successo o meno del progetto Next Gen. Più che ritenere che la Juventus stia soffrendo perché scende in campo con ragazzini di 20 anni, è forse più corretto dire che se ancora alzando la testa pesca ossigeno, è proprio grazie alla forza trainante dei suoi giovani.
Tutto sommato, il progetto sta producendo i suoi frutti, non solo dal punto di vista del progetto tecnico, ma anche del valore di mercato dei profili prodotti, su tutti Huijsen, Soulé, Iling Jr. e Barrenechea che, per quanto oggi sia difficile considerare ciò una fortuna, hanno permesso investimenti importanti sul mercato. In altre parole, la Juventus ha per le mani una bomba che avrebbe potuto garantirgli un vantaggio competitivo enorme, se non avesse peccato nella gestione più tradizionale della direzione sportiva, cioè le scelte sul mercato. Vantaggio competitivo che mano a mano andrà scomparendo, mentre la presenza della seconda squadra in Italia, da eccezione, va affermandosi come norma. L’impressione è che chi riuscirà a gestire meglio questa opportunità avrà molte più chance di emergere di chi tenterà timidamente di risicare ciò che il mercato mastica e sputa nella lotta impari con inglesi e spagnole.
I gol della Juventus Next Gen 2023/2024, tra gli altri: Yildiz, Savona, Mbangula, Rouhi, Hasa
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