addio Inzaghi

Simone Inzaghi ha lasciato un ciclo incompiuto

Analisi AR Slider

Il 31 maggio 2025, ancor prima che le parti formalizzassero la volontà di separarsi, il rapporto tra l’Inter e Simone Inzaghi giunge di fatto a una prematura conclusione. Prematura perché le quattro stagioni che il tecnico piacentino ha trascorso sulla panchina dei nerazzurri non sono sufficienti a definire un ciclo, tantomeno la stagione appena passata, per giunta monca dell’imminente Mondiale per Club, può rappresentarne la naturale conclusione.

Eppure, nella vita, certe scelte, giuste o sbagliate che siano, appaiono quasi obbligate. Il mancato raggiungimento di qualsivoglia obiettivo stagionale, considerando le responsabilità della dirigenza e della direzione sportiva nel fornire il materiale umano necessario a concorrere su tre fronti fino alla fine, non rende inevitabile l’esonero dell’allenatore. Ma perdere una finale di Champions League con un passivo di 5-0 assume un valore simbolico talmente forte da rendere necessario che qualche testa salti.

Del resto, paradossalmente, è più semplice individuare cause, colpe e colpevoli per una squadra che arriva nona in campionato. In casi del genere, è naturale riporre le proprie speranze nel cambiamento e nella possibilità di ripartire da zero. Diverso è il discorso quando si parla di una squadra che ha dominato il gioco per larghi tratti della stagione e ha raggiunto risultati impensabili e vittorie storiche – come è stata l’Inter di quest’anno. In questo scenario, motivarne il fallimento è un’impresa più ardua, così come costruire le basi da cui ripartire.


Il finale amaro

La stagione 2024/2025 dell’Inter non è stata né la migliore né la peggiore vissuta da Simone Inzaghi in nerazzurro. Il paradosso è che le alte aspettative, poi sfociate nella percezione del fallimento, derivano proprio dalla capacità di Inzaghi di alzare costantemente l’asticella.

Inzaghi avrebbe probabilmente meritato di chiudere il suo percorso in nerazzurro raggiungendo l’obiettivo che si era posto: il successo europeo. Un traguardo che, nei fatti, era diventato quasi realtà grazie al suo lavoro e al suo talento. Perché nessuno gli ha mai chiesto davvero di vincere la massima competizione europea – eventualità pressoché utopica per tutto il calcio italiano –, ma quella che sembrava solo un’idea è diventata una possibilità concreta grazie alla trasposizione nel reale di qualcosa che esisteva solo nella sua testa.

Se Inzaghi ha perso qualcosa, si può dire che ha perso la scommessa con se stesso. Negli ultimi quattro anni ha basato ogni scelta su questa sfida, e il destino, beffardo, lo ha condotto per due volte a un passo dall’avere ragione. Lui e i suoi hanno stretto i denti, sacrificando qualcosa in campionato per imporsi sui campi più prestigiosi d’Europa, ma alla fine tutto il mondo nerazzurro è rimasto con in mano un pugno di mosche, tanta delusione e, forse, anche qualche rimpianto.


Il grande lavoro del quadriennio

Nel primo anno, a Inzaghi è probabilmente stato chiesto di traghettare l’Inter in una fase di transizione dalle prospettive del tutto incerte. Il profilo dell’ex allenatore della Lazio, almeno nella percezione mediatica, era in quel momento uno dei più adeguati a tenere le redini di una situazione controversa e tesa come quella dell’Inter del dopo-Conte, orfana di due dei protagonisti più iconici e decisivi dello scudetto del 2021: Achraf Hakimi e, soprattutto, Romelu Lukaku.

Inzaghi aveva già dimostrato in passato grande spirito di adattamento e capacità di gestione delle difficoltà, spremendo dagli uomini a sua disposizione quanto necessario per ottenere il massimo risultato possibile. Da quel momento in poi ha sfruttato le basi tattiche preparate da Antonio Conte, grazie anche alla comune scelta del 3-5-2, riadattandolo secondo le proprie idee ed esigenze. Anno dopo anno, il sistema tattico è divenuto sempre più sofisticato e distante dall’impronta originale.

Inzaghi ha trasformato un buon trequartista come Hakan Çalhanoğlu prima in una discreta mezzala, poi in un fenomenale regista. Ha adattato Henrikh Mkhitaryan in modo speculare a Nicolò Barella, all’interno di una disposizione tattica che non prevedeva né un’ala offensiva né una seconda punta.

La massima che più si addice a Simone Inzaghi è «fare di necessità virtù». Dalla porta, dove alla perdita di André Onana è seguito un introito di 50 milioni di euro e l’acquisto di Yann Sommer, fino all’attacco, dove ha reso Marcus Thuram una punta dalla prolificità insperata e dalla collocazione tattica imprevedibile, mentre l’ambiente sperava e immaginava l’arrivo di tutt’altri profili, storicamente e strutturalmente più attaccanti in senso stretto del francese. Infine, ha dovuto rinunciare al giocatore chiave della sua prima esperienza in nerazzurro, l’esterno croato Ivan Perišić, per scoprire l’apporto decisivo di Federico Dimarco.

Mi rendo conto che la descrizione di così tante cose belle sembri collidere con i presupposti di questo articolo, il cui processo decisionale discende da un esonero. Tuttavia, per raggiungere una finale di Champions, un secondo posto in campionato e una semifinale di Coppa Italia, qualcosa di bello lo devi mettere in mostra, seppure accanto a tante cose brutte. Purtroppo, non è necessario che gli aspetti positivi e quelli negativi si equivalgano, perché in una stagione basta steccare anche solo tre partite per veder sfumare ogni obiettivo.



Le cause degli insuccessi

Il problema di tutta l’esperienza di Inzaghi all’Inter è che, nonostante i suoi meriti, i successi e le gioie regalate ai tifosi, di partite steccate ce ne sono ben più di tre all’anno. Ma a far ancor più male è che, in più di un’occasione, nonostante un rendimento negativo, sarebbe bastato davvero poco per godere di esiti differenti. L’avventura di Inzaghi all’Inter è stata, infatti, segnata da tanti episodi.

Sebbene abbia raccolto uno scudetto, due coppe nazionali e tre Supercoppe italiane in quattro anni, per quanto sia riuscito a rendere questa Inter forte e impareggiabile in patria – e per quanto la concorrenza sia stata benevola – Inzaghi avrebbe potuto, se non dovuto, raccogliere qualcosa in più.

Nella sua prima annata in nerazzurro, un’Inter apparentemente più bella e più forte di chiunque è capitolata di fronte a un Milan che non sembrava esserne all’altezza, al termine di un testa a testa che, più che esaltare le qualità, sembrava una gara a chi fosse in grado di servire all’altro il piatto d’argento più succulento. Gara vinta a mani basse dall’Inter, che vide sfumare nel recupero di Bologna, sotto lo scarpino di Ionuț Radu, le proprie velleità di vittoria finale. Un andamento estremamente simile a quello di quest’anno, culminato nel quarto scudetto del Napoli per un solo punto di vantaggio sui nerazzurri. I campani hanno condotto un campionato sufficiente per un grandioso secondo posto, ma non hanno mai incontrato quell’Inter cannibale e irraggiungibile che sarebbe potuta essere. E questo, per tornare agli episodi, è successo anche a causa di un tocco di mano ingenuo di Yann Bisseck che ha concesso alla Lazio, nella gara decisiva, il rigore del 2-2 trasformato da Pedro, in modo tragicamente simile a quanto avvenuto al Dall’Ara.

E poi ci sono le campagne europee, e si torna a quell’idea folle balenata nella testa di Inzaghi che per poco non è diventata realtà: vincere la Champions League. Nonostante uno scudetto perso in modo incredibile, Inzaghi, dopo il suo primo anno all’Inter, non ebbe dubbi su quale partita avrebbe voluto rigiocare: l’andata contro il Liverpool, che estromise i nerazzurri dalla Champions League 2021/2022.

In qualche modo, nonostante l’Inter fosse uscita agli ottavi in quell’occasione, Inzaghi capì che il gap tra la sua squadra e le grandi d’Europa non era poi così profondo come si poteva pensare. E nel giro di tre anni ha dimostrato di avere ragione, portando l’Inter per ben due volte in finale.

E così si chiude il cerchio. Si torna a quel 31 maggio 2025, al rischio che si corre quando, invece di fare una cosa perfetta, si cerca di fare tutto discretamente; o quando si perde di vista l’obiettivo più prossimo per rincorrere l’impensabile. Inzaghi ha trasformato quest’impensabile in qualcosa che, al 30 maggio di quest’anno, sembrava addirittura doveroso. Ed è per questo che, nonostante le finali le abbia poi perse – e una delle due nel modo più umiliante possibile –, Inzaghi resterà un monumento nella storia nerazzurra.

Forse quel pallone lanciato alle stelle da Lautaro contro l’Atletico Madrid è il motivo per cui non è stato così dispendioso cucirsi la seconda stella sul petto. Forse, se Acerbi non avesse lisciato il pallone messo in mezzo da Dumfries nel ritorno contro il Barcellona, oggi l’Inter avrebbe uno scudetto in più. Ma cadremmo nell’imponderabile, aprendo una simile indagine.

Ciò che possiamo dare quasi per certo, invece, è che se la società avesse voluto – o potuto – condividere e assecondare le ambizioni del suo condottiero, se davvero la vittoria del campionato era un obiettivo così irrinunciabile nonostante la conquista della finale europea, Inzaghi non sarebbe stato costretto a giocare partite decisive in campionato con ricambi inadeguati e, spesso, decisivi in negativo.

Forse è stata proprio questa la condanna di Inzaghi: aver costruito un gruppo solido e costante, ma senza aver mai trovato un modo efficace per gestirne i rimpiazzi. Nonostante una propensione accentuata, rispetto alla media, per cambi anticipati e turnover. Da Roberto Gagliardini a Mehdi Taremi, passando per Marko Arnautović e Ionuț Radu, l’Inter ha tentato di combattere su più fronti con eserciti tra loro incomparabili, pagandone le conseguenze.

In conclusione, dopo aver provato a delineare alcune delle possibili cause di questo bottino forse troppo magro – senza tralasciare il valore delle rivali, sia in campionato che in Europa, a cui va dato il merito di essere state, a volte, più forti, altre volte più furbe e più salde nei nervi –, che in quattro anni l’Inter abbia vinto un solo scudetto è quantomeno peculiare? Sì. Ma Inzaghi ha comunque regalato ai suoi tifosi una nuova prospettiva sulle speranze e sulle ambizioni del club, una dimensione internazionale di prima fascia da cui ripartire per non ricadere nuovamente nel complesso di inferiorità italiano.

Inzaghi non lascia all’ambiente solo un grande ricordo e un affetto reciproco, ma anche il dubbio che, sebbene questo cambiamento nell’esperienza umana appaia inevitabile, non implichi necessariamente qualcosa di positivo.

Leggi anche: La generazione Icardi, tra dispiacere e nostalgia