Quando il 12 giugno del 2024 la Juventus aveva ufficializzato l’ingaggio di Thiago Motta come nuovo allenatore, in molti pensavano fosse la scelta ideale per ridare lustro ad un club ormai da anni in un limbo di mediocrità d’alta classifica. Il tecnico italo-brasiliano era reduce da un’impresa a dir poco leggendaria come la qualificazione in Champions League con il Bologna, e il suo stile di gioco, unito all’ottima esperienza da calciatore in diverse grandi squadre, sembravano rappresentare il mix perfetto per inaugurare un lungo e glorioso progetto sportivo in una squadra che non era riuscita a creare presupposti di continuità con le gestioni precedenti. La storia, però, è andata diversamente, e dopo appena 9 mesi le strade di Motta e della Juve si sono divise con un esonero in corsa tipicamente lontano dalle modalità della Vecchia Signora. Ma perché? Cos’ha causato la rottura insanabile tra le parti? Chi ha le colpe maggiori? Per capirlo, è necessario fare un passo indietro.
L’andamento stagionale della Juve di Thiago Motta
Al 23 marzo 2025, giorno dell’esonero, la Juve è quinta in classifica ad una lunghezza di distanza – ironia della sorte – dal Bologna, fuori agli ottavi di Coppa Italia per mano dell’Empoli ed eliminata ai play-off di Champions League dal PSV Eindhoven. Un quadro a dir poco desolante per una squadra ambiziosa e che ha investito tanto sul mercato, cercando di assecondare il tecnico in ogni sua richiesta, anche con decisioni forti, sia in entrata che in uscita.
Decisioni forti che sembravano aver pagato, quando a inizio stagione i bianconeri erano in corsa per lo Scudetto e per la qualificazione diretta agli ottavi della fu Coppa dei Campioni. La Juve di inizio anno era una squadra che aveva introiettato fin da subito le idee del nuovo tecnico: difesa alta in fase di recupero e controllo del gioco fin dalle retrovie in quella di possesso, con i difensori centrali a fare i primi registi di una squadra che cercava di far male agli avversari tramite un passing game ben strutturato. E per un po’ Motta ci è riuscito. I due 3-0 delle prime due uscite stagionali contro Como e Verona, il 3-1 all’esordio in coppa proprio contro il PSV, le prestazioni importanti contro Lazio, Udinese e Torino fino a quelli che probabilmente sono i due picchi massimi della sua esperienza juventina, la vittoria di Lipsia per 2-3 e il pareggio per 4-4 contro l’Inter, entrambi in rimonta, che hanno mostrato un gruppo compatto e in fiducia dei propri mezzi, capace di mettere sotto l’avversario o di saper ribaltare l’inerzia della gara con una forza mentale che sembrava smarrita negli ultimi anni.
Il punto più alto della breve esperienza di Thiago Motta alla Juve
Poi il vuoto. Non che prima non ci fossero stati dei passi falsi, però l’impressione era sempre più positiva che negativa, fino a quando la squadra non è entrata in un vortice di pareggi difficilmente spiegabile e di prestazioni alquanto rivedibili. In poco tempo quella nuova Juve bella e arrembante si è piegata su sé stessa, mostrando tutte le sue fragilità e i dubbi di un allenatore sempre più in confusione e con meno alibi con il passare del tempo. Sicuramente i tanti infortuni, in primis quello di Bremer – con lui in campo la Juventus aveva subito solo un gol nelle prime 7 uscite stagionali –, hanno influito, ma non bastano a spiegare un impoverimento così grande sul piano del gioco e dei risultati, che salvo qualche colpo di coda, come le vittorie contro Milan, Inter e Manchester City, sono stati molto al di sotto delle aspettative. Nel 2025, con Thiago Motta in panchina, la Juve ha collezionato 7 vittorie, 3 pareggi e 7 sconfitte, le ultime due contro Atalanta e Fiorentina con un umiliante e ingiustificabile passivo totale di 7-0.
Integralismo tattico
L’aspetto che più di tutti ha condizionato in negativo l’esperienza di Thiago Motta alla Juve è stato il suo integralismo tattico, particolare che potrebbe influire sul prosieguo della sua carriera se non dovesse limitarlo. L’ex Bologna si è sempre schierato con il 4-2-3-1, sistema che nelle precedenti esperienze gli ha dato delle grandi soddisfazioni, non riuscendo però a far esprimere al meglio i tanti giocatori di livello a disposizione, forzandoli a dei compiti che non si addicono alle loro qualità e, di conseguenza, dilapidando un patrimonio tecnico ed economico molto importante. A inizio stagione i punti cardine del nuovo progetto sarebbero dovuti essere Teun Koopmeiners, Kenan Yildiz e Dušan Vlahović, giocatori che, chi più chi meno, hanno deluso le aspettative anche perché non aiutati a sufficienza.
Koopmeiners è stato il grande colpo dell’estate, corteggiato come una diva hollywoodiana e pagato fior di milioni, ma il rendimento in campo è stato a dir poco insufficiente. A Bergamo aveva dato il meglio di sé giocando da mezzala con tanto campo davanti, per inserirsi e scaricare in porta il suo mancino potente e preciso, ma del giocatore ammirato alla corte di Gasperini si è vista, forse, la controfigura. Koopmeiners ci ha sicuramente messo del suo, ma Motta si è incaponito volendolo far giocare sulla trequarti e chiedendogli di fare il rifinitore, di giocare spalle alla porta, cosa che non è mai stata nelle sue corde: non è un giocatore che ha il ritmo e la velocità giusta per girare su sé stesso e dialogare con i compagni, le palle perse e i contropiedi sprecati per questo motivo si contano a fatica. E non vale nemmeno la pena citare le ultimissime partite giocate addirittura come esterno destro, un vero e proprio accanimento terapeutico.
Chi avrebbe dovuto giocare sulla trequarti è sicuramente Yildiz, che a inizio anno in una posizione ibrida tra il centro e la fascia sinistra aveva offerto prestazioni importanti e lampi di un talento fuori dal comune che progressivamente si è perso anche per una collocazione in campo di difficile comprensione: il turco è un giocatore rapido di pensiero ma non di gamba e farlo giocare sul piede forte lo ha reso un mero dispensatore di cross e non quella variabile impazzita che tanto serve anche ai sistemi più rigidi e organizzati. Inoltre, mettere Yildiz a destra ha comportato anche lo spostamento a sinistra, anche questo abbastanza incomprensibile, di Nico González, altro acquisto fin qui fallimentare. Due esterni che tendono a rientrare sul piede forte costretti a giocare come dei quinti di centrocampo, con Samuel Mbangula – che Motta aveva avuto il merito e il coraggio di far esordire – scomparso dai radar.
L’elefante nella stanza è sicuramente Vlahović, che pur con tutti i suoi limiti ed errori è stato mal impiegato prima e relegato a comparsa poi. Chiedere al serbo di fare quello che faceva Zirkzee è un controsenso e non per una questione di livello, semplicemente per caratteristiche: l’ex Fiorentina non è un pivot ma un attaccante da servire in profondità e far calciare in porta il più possibile, cosa che non è mai successa. Molti hanno additato al serbo le responsabilità maggiori ed è indubbio che ne abbia, ma anche Kolo Muani, arrivato in pompa magna, si è spento subito, mostrando che il problema non sono tanto gli attaccanti in sé quanto quello che gli è stato chiesto. Se Motta vuole avere una carriera di alto livello non può pensare di poter allenare solo Zirkzee o di rendere come lui tutti gli attaccanti che incontrerà.
Queste sono tutte scelte che hanno condizionato in negativo l’annata della Juventus, ma se alcune si possono spiegare con la volontà di inculcare – evidentemente male – il proprio pensiero ai calciatori, altre sono semplicemente controintuitive, vedasi la gestione di Khéphren Thuram. Il francese è probabilmente il miglior giocatore della stagione, eppure spesso e volentieri ha dovuto accontentarsi della panchina anche in partite di cartello, suscitando il malumore dell’ambiente. Questa rigidità ha innescato un circolo vizioso di effetti negativi non solo in campo, ma ovviamente anche negli spogliatoi. Quel che è certo è che il livello dei giocatori della Juventus è sicuramente superiore a quello che il campo ha fatto vedere nella breve parentesi mottiana.
Gestione delle risorse umane
L’allenatore non è solo chi si occupa di mettere undici pedine su un tabellone, è anche una persona che ha la responsabilità di averne altre a proprio carico, dovendosi necessariamente curare anche dell’aspetto mentale. La Juve di Thiago Motta era ormai diventata una squadra depressa, composta da un insieme di uomini non più in linea con il loro punto di riferimento.
Punto di riferimento, però, non vuol dire sole, mentre l’impressione che si ha da fuori è quella di un Motta che fin da subito ha voluto ergersi a leader maximo del gruppo, cercando di estromettere quelle figure che potevano diventare troppo ingombranti e distogliere l’attenzione dalla sua figura. Il continuo cambio della fascia da capitano è un segnale evidente. Gatti, Bremer, Danilo, Cambiaso, Locatelli, McKennie e addirittura Koopmeiners hanno indossato i massimi gradi, rendendo l’idea di una squadra che non solo non ha leader, ma che non permette nemmeno che si vengano a creare. L’estromissione dalla rosa e la successiva cessione di Danilo sono state uno spartiacque della storia juventina di Motta: per quanto il brasiliano fosse effettivamente alla fine del suo ciclo sportivo, rappresentava comunque un punto di riferimento per i tanti giovani dello spogliatoio. Le sue parole d’addio, coronate da quel passaggio sul “progetto fantasioso”, fanno pensare ad una brutta rottura tra le parti e ad un qualcosa che avrebbe avuto vita breve, i saluti pubblici di tutti i compagni di squadra, invece, testimoniano quanto fosse importante la sua figura all’interno dello spogliatoio. È giusto che l’allenatore non sia sullo stesso piano dei giocatori, ma le grandi squadre spesso e volentieri sono quelle che vengono prese per mano dai propri leader nei momenti di difficoltà, e in tutti quelli dei piemontesi non c’è stato nessuno a farlo.
Quella di Danilo non è l’unica gestione sbagliata da parte di Motta, che ha assecondato le cessioni di giovani interessanti come Matías Soulé e Dean Huijsen, la mancata conferma di Federico Chiesa e, a gennaio, l’addio di Nicolò Fagioli, desaparecido dopo la prestazione più importante della carriera a Lipsia. Lo stesso Fagioli che ha sentenziato la fine dell’esperienza mottiana alla Juventus con due assist nella sconfitta senza appello per 3-0 a Firenze, nuova casa del centrocampista di Cremona.
L’ultima partita della breve esperienza di Thiago Motta alla Juve
Una pessima comunicazione
L’aspetto comunicativo, nel calcio, viene sempre fatto passare sottotraccia, come se fosse un qualcosa di irrilevante. Va detto che questa concezione nasce e si sviluppa anche per colpa degli stessi tesserati delle società, che ogni volta si presentano davanti ai microfoni a dire le solite banalità trite e ritrite. Thiago Motta non è mai stato banale, ma fin troppo arrogante nel raccontare certe dinamiche di campo e non.
Il tecnico oriundo non è mai stato il prototipo dell’umiltà, e anche a Bologna aveva un modo di porsi tendenzialmente altezzoso, ma “poteva permetterselo” perché a parlare per lui erano i risultati. A Torino Motta ha dato delle vere e proprie lezioni su come non si dovrebbero tenere le conferenze stampa, cercando di mettere più volte la polvere sotto al tappeto e provocando ancor di più l’ira dei tifosi e lo sgomento degli addetti ai lavori. L’esempio più lampante è dato dalle dichiarazioni post eliminazione in Champions League: la Juve gioca una pessima partita e viene eliminata ai tempi supplementari, ma per Motta non si può parlare di partita buttata – quello che, invece, aveva dichiarato capitan Locatelli – ma solo di episodi che hanno favorito i padroni di casa. Alla domanda di Alessia Tarquinio che chiede se avrebbe cambiato qualcosa col senno di poi, lui risponde con un secco «no»: se questo sia stato un modo per difendere il proprio lavoro o frutto di una lettura totalmente sbagliata dei 120 minuti giocati dai suoi ad Eindhoven è difficile dirlo, entrambe le supposizione potrebbero essere corrette.
Stanco, poco esaustivo, quasi scocciato dal dover rispondere alle domande di chi fa il proprio lavoro come se non potessero capire quello di cui si sta parlando. Con l’educazione non si vincono i trofei, ma per chi spesso ha fatto paragoni tra il calcio e la vita quotidiana non dovrebbe essere un concetto sconosciuto o da ignorare.
Ma quindi è stata solo colpa di Thiago Motta?
No. L’ex BFC è sicuramente il principale responsabile di una stagione che rimarrà deludente anche con una qualificazione in Champions League sotto la guida di Igor Tudor, ma pensare che sia l’unico motivo del fallimento Juventus significa guardare il dito e non la luna. Motta è stato lasciato solo con Giuntoli: anche il responsabile dell’area sportiva è additato a ragione come uno dei principali artefici della debacle bianconera, ma gli errori di due persone non possono spiegare tutto quello che di sbagliato è stato fatto negli ultimi mesi e non solo. Le responsabilità sono ben più diffuse.
Dalla società, totalmente inesistente e incapace di farsi sentire ai microfoni e negli spogliatoi – vi invito a chiedere ad un tot di tifosi, juventini e non, se conoscano le facce dei vari Ferrero, Scanavino & Co. –, ai giocatori, incapaci di rispettare il loro status di professionisti profumatamente pagati per dare valore all’azienda e non per mugugnare, fino anche ai tifosi, da sempre troppo ostili verso “l’interista Motta”: giocare in una squadra rivale per poco più di due anni ti rende simbolo di quella squadra da essere così inviso ai nuovi tifosi? Il palmarès della Juventus deve ringraziare che non esistessero i social quando, nel 1976, la panchina del club venne affidata alla leggenda del Milan Giovanni Trapattoni, che poi avrebbe vinto tutto in bianconero.
Quello tra Motta e la Juve è stato un matrimonio infelice come quello di due persone che decidono di fare il passo più lungo della gamba dopo una forte infatuazione iniziale, non conoscendosi ancora abbastanza, e come in una relazione quando le cose finiscono c’è sempre un concorso di colpe che va oltre il mero gioco delle percentuali. Adesso entrambe le parti dovranno essere brave a ripartire e a fare i conti con i propri caratteri, le proprie ambizioni e la propria storia.
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