Oramai siamo talmente abituati al fenomeno della violenza nel calcio che non è più nemmeno possibile parlare di rassegnazione, né di accettazione. È semplicemente così e basta, smettiamo persino di chiederci se potrebbe essere altrimenti. Questa visione fatalista dello stato delle cose è evidente nel linguaggio che usiamo e dallo scarso peso che diamo alle parole. Ne è una prova l’abuso di alcuni avverbi: naturalmente, ovviamente, chiaramente: «naturalmente i tifosi del Real Madrid sono stati fatti entrare molte ore prima nel settore ospiti»; «ovviamente la polizia ha formato un cordone per separare le due tifoserie», «chiaramente il capitano è andato sotto la curva per dialogare con i suoi tifosi e chiedere che venga fermato il lancio di oggetti verso il campo». Quando abbiamo iniziato a considerare tutto ciò inevitabile?
Siamo abituati a immaginare gli stadi come luoghi poco sicuri, spesso inadatti alle famiglie e ai bambini. Sebbene si tratti di un costrutto radicato in un contesto temporale superato e ben peggiore di quello attuale, il connubio fra calcio e violenza sembra indissolubile. Non è sufficiente relegare al concetto di stupidità tutto ciò che eccede dall’ordinario, ma è ben più interessante capire se la violenza sia un fenomeno endemico e strutturale di questo sport, o un fattore esogeno importato da frange già di per sé violente.
Violenza nel calcio: l’aspetto esogeno
La violenza può assumere varie forme, soprattutto in questo secolo. Quella più classica e tradizionale è lo scontro, che a sua volta può avere diverse connotazioni. Gli scontri possono derivare da motivi politici e ideologici, una sorta di eredità moderna della lotta di classe, dovuta alla presunta differente composizione sociale delle tifoserie rivali. È il caso ad esempio della contrapposizione fra Real Madrid, squadra del nord della capitale spagnola, di derivazione borghese, e il più proletario Atlético, ancorato addirittura all’immagine romantica dell’indiano d’America: eterna sfida fra oppressori e oppressi. Al movente politico a volte può mescolarsi quello confessionale, come avviene fra i tifosi cattolici del Celtic e quelli protestanti dei Rangers a Glasgow. Ancora più spesso gli scontri sono dovuti alle ingenti infiltrazioni criminali nelle curve di tutto il mondo.
È evidente come in tutti questi casi la fede calcistica non sia che un pretesto, sconfessando la teoria endogena. Molti gruppi e sottogruppi ultras sembrano scimmiottare le caratteristiche delle gang americane. Negli Stati Uniti, come altrove, nei contesti a società frammentata e multietnica, l’appartenenza a una determinata gang dipende quasi esclusivamente dal proprio gruppo etnico, il quartiere di residenza, il colore della propria pelle. Per i suprematisti neonazisti, l’iconografia nazionalsocialista non è che un “marchio”, a tutti gli effetti un brand, che non impedisce certo di commerciare con le gang afro e latinoamericane. La criminalità legata al mondo degli ultrà non agisce in modo diverso: a determinare il “tifo” e il gruppo di appartenenza è perlopiù il campanile, e così lo scontro di facciata serve solo a coprire i racket condivisi di bagarinaggio ed estorsione. Il calcio, in questo caso, non è che un aggregatore sociale: permette a individui affini di riconoscersi in uno stesso gruppo e sotto uno stesso stemma, ma nulla più.
Dunque, ha poco senso definire i tifosi di calcio pericolosi prendendo a esempio gente che probabilmente fatica a seguire con attenzione una partita intera e si sente molto più a suo agio con un passamontagna che con i colori sociali della sua presunta squadra del cuore addosso, semplicemente perché soggetti del genere tifosi non sono, ma tuttalpiù frequentatori delle curve.
Inoltre, soprattutto all’estero, accade che sugli spalti o nei cortei che precedono l’inizio della partita, si infiltrino soggetti violenti e facinorosi, addirittura a volte provenienti da altre città, se non nazioni, per il semplice gusto di accendere e poi partecipare ad una rissa. Si tratta di un fenomeno molto comune, che non ha sporcato l’immagine solo del calcio, ma anche di movimenti no-global, anarchici e pacifisti, spesso soggetti a questo genere di problemi, come avvenne con i famosi Black Bloc, o per restare al calcio, con la bravata di Ivan Bogdanov – detto Ivan il Terribile – il giorno di Italia-Serbia del 2010 a Genova.
Se i fenomeni di violenza e aggressività si circoscrivessero alle categorie appena elencate, il ragionamento, e forse anche la ricerca di una soluzione al problema, sarebbe molto più semplice e meno controverso. Il calcio sarebbe solo l’ennesimo fenomeno di massa che come il miele non attrae solo orsi, ma anche le mosche. Purtroppo non è così, ed anzi, le categorie di tifoso e violento sono molto più sfumate di quanto si possa credere ad uno sguardo superficiale.
Violenza nel calcio: l’aspetto endemico
Praticamente da sempre la violenza è stata considerata un bisogno dell’essere umano, un retaggio irrinunciabile del nostro passato ferale. Per i teorici assolutisti c’è stato addirittura un momento in cui l’intera umanità si è seduta a tavolino e ha deciso di stipulare un contratto sociale che ponesse definitivamente fine allo stato di natura: in parole poverissime, per reprime la violenza, legge, coercizione e punizione sono necessarie. È probabile che né io né te che stai leggendo questo articolo compieremmo mai un omicidio se la legge ci permettesse di farlo, ma non è possibile sostenere ciò per la società nel suo complesso. La storia ha ampiamente dimostrato che, se socialmente accettate, l’uomo è in grado di compiere su scala globale ogni raccapricciante empietà e crudeltà immaginabile. In fondo il calcio, se non lo sport in generale, non è poi così dissimile dagli spettacoli gladiatorii: qualcuno vince, qualcuno perde, ma per fortuna oggi nessuno ci lascia più le penne. In un modo o nell’altro panem et circenses non significa solo distrarre le masse, ma anche farle sfogare.
Il confronto è un bisogno atavico, non solo per chi si batte, ma anche per chi osserva lo scontro. C’è qualcosa di profondamente affascinante nell’attendere il risultato di una sfida. Ma non per tutti questo è sufficiente.
Lo scontro tra tifoserie è segno che il risultato del campo, laddove sia rilevante, non è a sé bastante a definire chi abbia vinto. I tifosi sentono l’irrefrenabile bisogno di intervenire, e questo perché nell’immaginario calcistico gli elementi mutuati dalla cultura bellica sono numerosissimi. Le curve si esprimono in cori, non certo per manifestare le loro doti canore o per esprimere se stesse con il canto, ma per motivare i propri e – forse, soprattutto – incutere nell’avversario quello stesso timore suscitato dall’approssimarsi di una marcia militare. Il coro è un canto di guerra, precede e accompagna la battaglia. I gruppi organizzati rispettano una rigida struttura gerarchica e procedono come un unico corpo, esattamente come un battaglione. Tuttavia, c’è un paradosso. I tifosi, che si ergono con orgoglio «a difesa della città, della maglia ecc.» non possono che restare appollaiati sugli spalti, mentre in campo scendono altre persone, estranee alla curva, assimilabili ai campioni scelti dagli eserciti per ridurre gli spargimenti di sangue in battaglia. Una Army, come un gruppo di Fedayyin, non può però restare per sempre in disparte, specie se ferita nell’orgoglio o se si sente provocata.
Il calcio quindi ha un triplice effetto su questo genere di tifosi, che percepiscono la propria squadra come qualcosa da difendere e per cui combattere: può essere un pretesto per esercitare la violenza, poiché in questa concezione del mondo del calcio, esso crea un contesto in cui la stessa è permessa e legittimata, proprio come accade in guerra, radicando l’errata concezione di agire nel giusto; può addirittura spingere individui che altrimenti non avrebbero mai agito in modo violento a farlo, come un coscritto che combatte per il proprio paese; o generare atteggiamenti imitativi egualmente legati al giustificazionismo dato dal contesto di riferimento, persone normalissime ed estranee persino alle curve che finiscono per pensare che la violenza sia parte della vita di tifoso. Si genera una distinzione fra violenza e violenza, dovuta naturalmente anche alla forza del gruppo. Del resto non è raro il connubio con il mondo neofascista e squadrista in genere.
Oggi, inoltre, la violenza si è adeguata ai progressi tecnologici, alla transizione digitale. È molto più semplice, per chiunque, a causa dei social, scavalcare l’ostacolo e arrivare direttamente ai calciatori della squadra rivale, e perché no anche della propria, per riempirli di insulti e minacce di morte, garantendo un certo riguardo anche per le loro famiglie.
Di recente, molti video mostrano calciatori e società a colloquio con burberi tifosi che minacciano neanche troppo velatamente conseguenze in caso di andamento negativo. Ricordiamo i tifosi dell’Inter che “accettano” l’arrivo di Juan Cuadrado in nerazzurro dopo avergli spiegato i “valori” dell’interismo e quelli del Milan che spiegano, come se da soli non ci arrivassero, ai propri giocatori perché perdere il derby, che avrebbe consegnato il ventesimo scudetto all’Inter, non fosse, per usare un eufemismo, auspicabile.
A voler ben pensare, i capi ultrà hanno guadagnato simili diritti e rilevanza per il loro impegno e la loro costanza, ma mi sbilancio nel dire che è la paura a permettere che questo avvenga. Bussare a Marsiglia per credere, dove accettare la panchina dell’OM è un po’ come assumere la guida di un governo tecnico in uno Stato preda di tensioni sociali e recessione economica.
In fondo, però, e qui mi ripeterò, è divenuto quasi scontato che nel calcio funzioni così, ben più che fra i fan della Marvel o di Taylor Swift. Altrimenti non si spiegherebbero le centinaia di “ahah reactions” che accompagnano gli articoli dedicati all’allenatore del Partizan di Belgrado, costretto a presentarsi davanti alle telecamere tumefatto in volto, dopo il confronto con i “tifosi” negli spogliatoi a causa della sconfitta nel derby. Il perché di queste risate passivo-aggressive è ovvio: la violenza richiama un’immagine romantica di un calcio che ormai esiste solo nei ricordi – se mai è esistito in concreto – di nostalgici, con tutte le accezioni nostrane che questo termine comporta, ancorati a un’idea goliardica e intrinseca al calcio della violenza. Per costoro vedere un allenatore malmenato non è che un granello di un più vasto immaginario fossilizzato sulla mascolinità tossica e sull’aggressività come indicatore del vero uomo. Può sembrare paradossale, ma oggi tutto ciò si esprime così, con una faccina che ride.
D’altra parte, il calcio è prima di tutto estetica, e il tifo organizzato è custode e primo elemento della sua bellezza. Senza i cori, le coreografie e il rombo di uno stadio pieno, le belle giocate in campo sarebbero una danza nel deserto, e le annate segnate dalla pandemia ce lo hanno testimoniato. Diavolo e acqua santa, i tifosi sono il motore e il veleno di questo meraviglioso sport.
La realtà è che forse abbiamo sottovalutato la portata di questo fenomeno sociale e di massa chiamato calcio. Nel film di Lexi Alexander ‘Hooligans‘, Pete risponde così a Matt, quando quest’ultimo gli chiede se le rivalità fra West Ham e Millwall sia come quella fra Yankees e Red Sox: «Più come gli israeliani e palestinesi». Una battuta, tragicamente quanto mai attuale, che ben spiega perché il problema della violenza nel calcio è così intricato. La fede calcistica, per quanto possa essere incomprensibile, per qualcuno è una delle componenti della sua coscienza individuale, tanto quanto appartenenza confessionale e concezione etica. Nessuno potrebbe mai pretendere che la libertà di tifo sia considerata una delle libertà fondamentali dell’uomo soggetta a tutela. Siamo così presi dal sacro, da sottovalutare il profano, nascondere le sue problematicità sotto il tappeto, e finire per spiegare tutto con la stupidità umana. La domanda non dovrebbe essere come si fa a picchiarsi per un pallone, ma cosa rappresenta quel pallone per milioni di persone, come renderlo il simbolo di fratellanza che in concreto è, e non di odio che altrettanto in concreto diventa.
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