Il 31 maggio 2025 l’Inter viene sconfitta 5-0, in finale di Champions League, dal Paris Saint-Germain, disfatta da cui inevitabilmente scaturiranno complesse e sofferte decisioni. In primis, il concetto stesso di Inter subisce un processo di rivalutazione e ridimensionamento che archivia nel recente passato quella percezione di ineluttabilità del successo finale del percorso di Inzaghi, rappresentato, appunto, dal coronamento del cammino europeo. Per larghi tratti della stagione, in conseguenza del calcio espresso e delle vittorie ottenute negli ultimi anni, attorno all’Inter hanno proliferato aspettative disattese, cui la macroscopica sconfitta rimediata contro i colossi parigini rappresenta teatralmente la tragicomica disillusione.
Che esistesse davvero un accordo precedente la finale fra Simone Inzaghi e i sauditi dell’Al-Hilal, o che sia stata proprio quella partita a determinare il divorzio fra il club e il suo condottiero, è chiaro che, come avvenne per il generale Asdrubale dopo la sconfitta di Palermo, qualche testa di rilievo dovesse cadere. Inzaghi è volato in Arabia portando con sé il velo di certezze e la bambagia sulla quale l’ambiente nerazzurro, eccessivamente tronfio, riposava, riacutizzando il timore che l’attributo di grandezza sia effimero e sempre in discussione.
La scelta di Chivu e il Mondiale per Club
In questo clima di distacco emotivo misto a desiderio di riscatto che ha interessato il mondo nerazzurro, la società milanese ha risolto l’annosa, quanto atavica, disputa fra chi ritiene profittevole ingaggiare un tecnico più affermato e dalle capacità indubbie, e chi invece preferisce ragionare in prospettiva, puntando su Cristian Chivu, che da giocatore non necessita certo di presentazioni, ma che come allenatore ha maturato solo un’esperienza nel calcio professionistico, con appena, quanto evidentemente, intense 13 partite sulla panchina del Parma. Esperienza che succede a quelle vissute nelle giovanili proprio di quell’Inter che, convinta dalla salvezza raggiunta, lo ingaggerà l’estate successiva.
Il tecnico romeno ha da subito la possibilità di esprimersi in un torneo ufficiale: il Mondiale per Club, per l’occasione rimesso a nuovo dalla FIFA e tramutato in un torneo estivo a 32 squadre sul classico modello delle manifestazioni iridate per nazionali. Sarà necessario qualche decennio prima di cogliere l’effettivo valore conferito da club e tifoserie a questa competizione, la cui natura di torneo estivo per club ne condiziona la percezione e l’assimilazione a un torneo di amichevoli, specie per la prossimità temporale con i campionati appena conclusi. Pertanto, è complesso valutare le quattro partite disputate dall’Inter di Cristian Chivu negli Stati Uniti senza soluzione di continuità rispetto alle amichevoli del precampionato giocate contro l’Under-23, il Monaco, il Monza e l’Olympiakos, con risultati tutto sommato soddisfacenti ma poco indicativi.
Del resto, anche le partite contro i messicani del Monterrey, i giapponesi dell’Urawa Red Diamonds, gli argentini del River Plate e i brasiliani del Fluminense avevano mostrato un’Inter senza lode e senza infamia, impegnata in una vetrina scomoda quanto prematura, senza particolare ambizione.
Il mercato estivo
Nella sessione estiva di calciomercato l’Inter ha rinnovato il suo reparto arretrato, rinunciando all’apporto di Benjamin Pavard, forse a causa dell’incostanza e della propensione agli infortuni che ne hanno caratterizzato la parentesi nerazzurra della sua carriera, per ingaggiare lo svizzero Manuel Akanji, per lungo tempo centrale nelle idee di Pep Guardiola per il suo Manchester City, ora chiamato a garantire una presenza più stabile e affidabile in grado di colmare le ancora evidenti lacune di Yann Bisseck sul lato destro del trittico di centrali nerazzurro.
Sugli esterni, la partenza di Nicola Zalewski segue in modo speculare l’arrivo del brasiliano Luis Henrique sul versante opposto, sebbene il brasiliano sia un giocatore più offensivo, disabituato a giocare a tutta fascia, di fatto l’antipodo di Matteo Darmian da questo punto di vista, garantendo due soluzioni opposte e complementari in alternativa a Denzel Dumfries. Tuttavia, ciò significa anche che la collocazione dell’ex esterno del Marsiglia nel contesto nerazzurro è tuttora dubbia e in divenire, probabilmente legata alle capacità di adattamento del calciatore stesso al modo di giocare della sua nuova squadra, piuttosto che il contrario.
A centrocampo, la partenza di Kristjan Asllani non è indice solo del suo insoddisfacente rendimento, ma anche spia dei cambiamenti tattici apportati da Chivu, i quali non esigono la presenza in rosa di un regista basso con tali caratteristiche, specie data la sua già preesistente assenza di centralità nei piani di gioco. Gli arrivi di Petar Sučić e Andy Diouf al momento assumono un peso diverso: il croato sembra con ogni probabilità in grado di fornire fiato al sempre vigile Henrikh Mkhitaryan, garantendo la presenza di un’alternativa di valore con forti prospettive di futura titolarità, mentre il francese, dall’affidabilità ancora incerta, cerca di emergere in un centrocampo folto che vede la compresenza di individualità del calibro di Piotr Zieliński e Davide Frattesi, già a loro volta oscurate dalla titolarità indiscutibile di Hakan Çalhanoğlu e Nicolò Barella. Frattesi, quantomeno, può avvalersi delle sue caratteristiche uniche fra gli uomini a disposizione di Chivu, che se con Inzaghi costituivano il freno al suo pieno inserimento, oggi assumono un valore del tutto differente, data l’evidente volontà del tecnico romeno di servirsi di un incursore abile, oscuro e adatto ad allinearsi alle punte negli inserimenti, svuotato dei classici compiti della mezzala imprescindibili in passato.
Ma la vera rivoluzione riguarda l’attacco: una delle qualità dirigenziali che ha senza ombra di dubbio caratterizzato l’Inter negli ultimi anni è quella di lasciare inalterato il proprio parco titolari, garantendosi ogni anno una squadra affiatata e pressoché identica alle precedenti. A pesare sul rendimento nerazzurro dunque, soprattutto data la mole delle partite giocate, è stata la qualità espressa dai rincalzi, su cui spesso si è abbattuta la scure delle critiche e degli alibi. Come ogni anno, l’Inter ha dunque impressionato sul mercato, lasciando intravedere lo spiraglio per il salto di qualità. Tuttavia, il campo ha quasi sempre bocciato le scelte nerazzurre in questo senso. In questa stagione il peso dell’apertura della scatola di Schrödinger grava sulle giovani, quanto possenti, spalle di Ange-Yoan Bonny, arrivato dal Parma, e Francesco Pio Esposito, devastante in B con lo Spezia. Le partenze coeve di Joaquin Correa, Marko Arnautović e Mehdi Taremi, disperatamente impreparati a cogliere tutte le numerose opportunità che Lautaro e Thuram hanno loro concesso, fisiologicamente stremati dalla stagione scorsa, lasciano campo libero a due punte, che dai primi exit poll sembrano essere ampiamente oltre le aspettative più rosee, sfruttando le loro caratteristiche differenti per garantire alla ThuLa quel respiro indispensabile per arrivare a maggio ancora sul proprio livello di rendimento e complicità irraggiungibile in Serie A.
Bonny risulta essere un attaccante più mobile e meno “schiavo” dell’ossessione del gol, dando mostra di un modo di giocare umile e molto efficace. Contro la Cremonese il francese è apparso a tratti devastante e collocato nel nuovo contesto come se gli appartenesse da tempo. Esposito, dal canto suo, è un centravanti più muscolare e statico, e per questo dalla prestazione più dipendente dall’eventuale marcatura. Al momento, per l’Inter rappresenta un genere di giocatore importante per la sua capacità di difendere palla e guadagnare metri e falli, oltre che per il suo evidente fiuto per il gol. È inutile chiedersi chi fra i due sia il sostituto di Thuram e chi quello di Lautaro, perché, specie oggi con Chivu, è evidente che, a prescindere dalle loro caratteristiche fisiche, si tratti di due attaccanti abili nel fare praticamente tutto e nell’interscambiarsi i compiti, ed è importante che nei loro rincalzi ci siano un po’ di queste caratteristiche, sebbene divise fra l’uno e l’altro.
Identità tattica e prospettive
L’Inter ammirata nelle prime otto partite della stagione, sei partite di campionato e due di Champions League, ha mostrato i primi vagiti della sua possibile vera identità solo dopo la clamorosa sconfitta per 4-3 contro la Juventus. Prima d’allora, dopo aver surclassato sotto ogni punto di vista il Torino per 5-0, l’Inter che ha perso in casa 2-1 contro l’Udinese ha palesato tutti i limiti di questo sistema di gioco, che ha sofferto la fisicità fuori dal comune dei friulani e le trappole preparate da Runjaić. Ai bianconeri è bastato pazientare e colpire quando necessario, sfruttando le disattenzioni difensive e la distanza fra i reparti.
Nella sfida contro i bianconeri di Torino, sebbene l’Inter abbia espresso un calcio migliore di quello della giornata precedente, è stato possibile osservare grossomodo un andamento simile del match. La Juventus è parsa tanto cinica e tanto furba da rendere impossibile sostenere alla fine della partita che avesse vinto per caso o che l’Inter le avesse imposto il proprio gioco. I nerazzurri hanno infatti pagato quella che è sembrata essere un’ingenuità puerile nella gestione dei momenti e degli spazi, oltre che errori individuali ed episodici decisivi.
Da questo momento in poi, l’Inter, anche aiutata da un calendario favorevole, non ha più sbagliato un colpo. Oltre a vincere tutte e cinque le partite disputate, l’Inter è cresciuta sotto ogni punto di vista, progressivamente, ma mostrando un’impronta riconoscibile in ognuna delle stesse. Si inizia a intravedere una gestione tecnica volta a superare le tanto contestate lacune dell’Inter di Inzaghi, mantenendone però l’impalcatura essenziale, e dunque, con l’obiettivo di pervenire a una versione più evoluta e duttile della precedente: meno chiusa su se stessa, più dinamica e audace.
Chivu predilige un pressing asfissiante e un ritmo alto, che non prevede pause e limita le possibilità di ragionamento dell’avversario. Il giro palla e la ricerca della verticale e dello scambio nello stretto fra le due punte ricalca le matrici offensive ereditate dall’ultima Inter di Simone Inzaghi, ponendosi pertanto come una versione più frenetica e coinvolgente della stessa, simile a quella ammirata nella fase centrale della stagione della seconda stella.
Il 3-5-2 di Inzaghi assume la forma di un 3-4-1-2 nelle idee di Chivu. Quel “uno”, tuttavia, presente nel sistema di gioco nerazzurro non è un dato fisso e immutabile che calza perfettamente su un’individualità piuttosto che un’altra: è una posizione da assumere, interscambiabile, una porzione di campo da coprire, che sia dietro le punte o allineata alle stesse, passibile di essere coperta da uno qualsiasi dei tre centrocampisti a seconda delle esigenze.
Fondamentalmente, i cambiamenti più evidenti dal punto di vista tattico potrebbero essere due: la posizione speculare, sulle relative mezzali, di Barella e Çalhanoğlu, che interromperebbe la parentesi da regista puro del turco; e una maggiore propensione a sfruttare le doti tecniche e offensive di Bastoni, che sposterebbe verso sinistra la costruzione della manovra, lasciando alla destra il compito della finalizzazione. Tuttavia, a Chivu non sembra piacere l’asimmetria che questo comporterebbe. Nella seconda giornata di campionato contro l’Udinese è emersa, infatti, una prima incomprensione fra squadra e allenatore dovuta ad anni di abitudini difficili da eradicare. L’Inter è abituata a costruire da sinistra e a chiudere a destra, e mentre Chivu si sgolava chiedendo a Bisseck di avanzare la sua posizione e “imitare” l’atteggiamento del compagno a lui speculare, il tedesco è andato nel panico, impreparato a seguirne i movimenti, al punto da lasciare una voragine fra sé e gli incursori friulani.
Questo limite è riemerso, visibile a occhio nudo, contro la Cremonese. Nella testa di Chivu, Dumfries non è la terza punta plasmata da Simone Inzaghi, posizione che il tecnico romeno affibbia più volentieri a uno dei centrocampisti e a cui a fatica inizia ad abituarsi Barella, quando non impiegato da play. E, anche in questo caso, l’olandese, si è trovato nella scomoda posizione di doversi riabituare a giocare da esterno puro, in modo speculare a Federico Dimarco. Fra errori tecnici grossolani e scarso coraggio, è emersa la differenza enorme che esiste fra le due fasce se alle stesse viene chiesto di lavorare in sincrono e allo stesso modo.
Non è pertanto da escludere che la titolarità di Denzel Dumfries, non per niente sostituito contro la sua volontà in questa occasione, possa venire messa in discussione dalla presenza in rosa di Luis Enrique. Se Inzaghi ha basato la sua Inter su un calcio posizionale, matematico e metodico di stampo quasi ingegneristico, Chivu sembra più interessato ad arrivare in porta più velocemente e con meno fronzoli. La bravura di Inzaghi spesso era riuscire a ingabbiare l’avversario e colpirlo all’improvviso con trame impossibili da prevedere ed eseguite alla perfezione. Ciò che, invece, cerca l’Inter di Chivu è l’annientamento della manovra avversaria. A tal fine, uno degli aspetti che sembrano ad egli più invisi e, forse, uno di quelli più difficili da sradicare, dopo tutti questi anni sotto la guida di Simone Inzaghi, è la scarsa propensione al dribbling e l’eccessiva pazienza nel giro palla.
Le ultime gare hanno seguito tutte un andamento simile che permette di poter delineare un topic: l’Inter ha un atteggiamento quasi british in campo, con una partenza asfissiante, nel pressing e nella produzione offensiva, e una fase centrale molto più raccolta e compassata, volta principalmente ad evitare che l’avversario si renda pericoloso. Un atteggiamento che, se sfugge di mano, può portare a momenti come quello del palo di Folorunsho a Cagliari, che poteva costare molto più caro ai nerazzurri. Questa fase di contrazione è solitamente interrotta dai primi cambi, che danno all’Inter quel vigore per rimettere l’avversario nella sua metà campo e cercare insistentemente il gol che chiuda la partita, impedendo che si verifichi il classico pericoloso forssing finale.
Azzardare previsioni sull’andamento stagionale dell’Inter, specie in Europa, rischia di trascinare l’osservatore nel campo delle speculazioni. Certo è che nulla è certo: quella credibilità e serenità che Inzaghi aveva portato all’ambiente ha finito per rendere ancora più amaro e spaesante il fallimento, reso tale proprio dal carico di aspettative creatosi attorno alla squadra. Magari una guida più sicura avrebbe reso i pensieri dei tifosi nerazzurri meno tormentati, avrebbe ridato all’ambiente quella presunzione di superiorità e sicurezza. Ma è forse proprio questo che all’Inter non serve in questo momento. Il vero compito di Chivu sarà quello di riscoprire, da zero, come praticamente da zero inizia la sua carriera da allenatore, il valore reale della sua squadra, spiegarlo ai tifosi, e ricostruire la vacillante identità nerazzurra attorno al progetto che intende modellare.
Il motivo di questo dubbio imperante è presto detto: il calcio è uno sport sadico, a tratti schizofrenico. Non è sufficiente essere belli ed evoluti in Serie A. E in un campionato zeppo di coccodrilli navigati e pronti ad azzannarti al momento giusto come Massimiliano Allegri e Antonio Conte, il rischio è che l’Inter possa incantare in positivo quanto stupirci della sua ingenuità, per quanto la lezione impartita da Igor Tudor sembra aver avuto, almeno nell’immediato, l’effetto di aver risvegliato l’Inter dal suo torpore, apparentemente più aggressiva, solida e scaltra che nelle prime uscite.
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