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Árpád Weisz e l’Ambrosiana, ci tolsero il nome ma non l’identità

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Prima di Helenio Herrera e di José Mourinho, prima che la stessa Coppa dei Campioni vedesse la luce, la figura più influente e decisiva della, seppure all’epoca breve, storia dell’Inter, fu quella di Árpád Weisz, che come spesso accade, ottenne questo onore grazie a pregresse circostanze negative, e quasi per caso.



Era il 1923, quando l’Inter riuscì a restare in massima divisione solo grazie allo spareggio contro la Libertas di Firenze, che sebbene il giornalista Ghirelli definì «patetico», accese le paure della dirigenza di quella che, un secolo dopo, resta l’unica squadra italiana a non essere mai retrocessa in Serie B. L’Inter decide pertanto di ingaggiare il primo allenatore professionista della storia del club, l’inglese Bob Spottishwood. Volge inoltre il suo sguardo sul mercato estero, portando in nerazzurro negli anni successivi l’austriaco Heinrich Schönfeld e l’ungherese Árpád Weisz.

Weisz nel 1925 diviene dunque un giocatore dell’Inter, dopo un’esperienza in patria al Törekvés, una in Repubblica Ceca, nella società ebraica del Maccabi Brno ed una all’Alessandria, che sarà tra l’altro la prima squadra che Weisz allenerà, come vice, prima di tornare in nerazzurro nel 1926, stavolta dalla panchina.

L’ex impiegato di banca di Budapest e ala sinistra della nazionale ungherese, binomio che oggi ci farebbe quantomeno sorridere, si ritrovò subito a dover amministrare una situazione difficile: la squalifica a vita del terzino Luigi Allemandi, dopo essere stato al centro di uno scandalo per corruzione.

Anche se sarà poi amnistiato nel 1928, forse per il terzo posto alle Olimpiadi, forse per il matrimonio di Umberto Savoia, come scrisse Brera, lo scandalo che avrebbe dovuto colpire solo Juventus e Torino, società coinvolte, si abbatté su Milano, a causa del passaggio di Allemandi dalla Juventus all’Inter, pochi mesi prima che scoppiasse.

Per descrivere in che modo la squalifica di Allemandi condizionò l’operato di Weisz, bisogna partire da una recente invenzione: il fuorigioco. Innovazione del 1925 che ebbe l’immediato effetto di convincere Herbert Chapman, allenatore dell’Arsenal, ritenuta la squadra più forte dell’epoca, ad ascoltare i suggerimenti di Charlie Buchan, suo calciatore, creando una nuova disposizione tattica, denominata ‘Sistema‘. Il Sistema era caratterizzato da uno schieramento che riproduceva sul campo una W e una M, e si faceva indirettamente promotore di un principio, che nel calcio italiano, e in particolare per le sorti della Grande Inter e per i successi della Nazionale, fu decisivo: «safety first», «la sicurezza prima di tutto».

Weisz, su queste basi, privo di Allemandi, ritenne di dover rinforzare la difesa, e così nacque la linea dei cinque terzini. Invenzione, che il giocatore dell’Inter Bernardini definì un «esperimento deliberatamente attuato». L’idea consisteva nell’arretrare le mezz’ali in una zona di campo più difensiva, dove fosse più semplice arginare la manovra avversaria e lanciare, in base all’occasione, i tre uomini rimasti in attacco. Di conseguenza il centromediano rimaneva costantemente arretrato, e sugli esterni i laterali attuavano sulle ali avversarie un’estenuante marcatura a uomo.

La fase offensiva era volta al passaggio in profondità, all’occupazione degli spazi vuoti, e ad essere fondamentale diveniva la velocità, sia per i movimenti del giocatore, che per il ritmo palla: innovazione inevitabile, data appunto, la variazione della regola del fuorigioco. Progresso tattico di cui qualche anno dopo si servirà anche il commissario tecnico della Nazionale Vittorio Pozzo, a testimonianza del “debito calcistico” che l’Italia ha nei confronti del rivoluzionario tecnico ungherese.

Per sopperire all’assenza di Allemandi, Weisz ricorse all’acquisto di Fulvio Bernardini e puntò su un giovane diciassettenne di nome Giuseppe Meazza; che poi passeranno alla storia per essere i primi due fuoriclasse della storia nerazzurra. Weisz riuscì una volta di più a tirare fuori il meglio da una situazione che si preannunciava disastrosa.

Nell’agosto del 1928, l’Internazionale diventa Ambrosiana, essendo il nome originale, considerato sovversivo dal gerarca provinciale milanese Rino Parenti. Weisz resta sulla panchina dell’Ambrosiana e vince a trentaquattro anni, ancora oggi record, il primo “scudetto” in senso formale della storia dell’Inter – oltre che il primo a girone unico –, quello del 1929/1930. Nel 1924 venne infatti introdotto per la prima volta uno scudo sulle maglie dei vincitori, sufficiente a scalzare la precedente definizione di ‘Coppa’. L’Inter però non si laureava campione dai due precedenti successi del 1910 e del 1920, e la curiosa coincidenza portò il Guerin Sportivo del 2 luglio 1930 a disegnare una vignetta in cui giocatori di altre squadre consegnano lo scudetto all’Inter con la seguente didascalia: «Per un anno tienilo tu, te lo riporteremo nuovamente… nel 1940».

Il segreto di quel successo si ritrova senz’altro nel fenomeno Meazza, capocannoniere a soli diciannove anni con trenta goal, ma anche e soprattutto nel tecnico ungherese e nei suoi metodi di allenamento: primo al mondo a seguire i giocatori durante le sedute, a curarne le diete e a visionare i canterani in prima persona. Fu proprio grazie a quest’ultima abitudine, che riuscì a scoprire le doti di colui a cui oggi Milano ha intitolato il suo stadio, e pertanto il suo exploit, decisivo per riportare a Milano il tricolore, è anche merito di Weisz.

La sua avventura all’Inter si concluse temporaneamente l’anno successivo, con un quinto posto. Dopo una complessa salvezza raggiunta con il Bari, Weisz torna in nerazzurro, non riuscendo però a ripetersi, nemmeno nella finale di Coppa dell’Europa Centrale, persa nel 1933 contro l’FK Austria.

Dopo un anno in B, a Novara, dove in soli sei mesi gettò le basi per la prima storica promozione dei piemontesi nella massima serie, Weisz accetta l’offerta del Bologna, dove prima trascina al sesto posto una squadra in piena crisi, per poi l’anno dopo riportare lo scudetto in Emilia, con soli quattordici giocatori in rosa, altro record che resterà presumibilmente imbattuto in eterno. Primo allenatore a vincere il campionato italiano con due squadre diverse, concluderà la sua esperienza bolognese con due scudetti e un Trofeo dell’Expo di Parigi.



Quello dell’Inter non fu l’unico nome a dover cambiare a causa dell’avvento del fascismo nel nostro Paese. Árpád fu costretto ad italianizzare il suo cognome in Veisz, e persino sua moglie Ilona, dovette cambiare il suo nome di battesimo in Elena. Ma questi, purtroppo, non furono i soli problemi che il regime causò alla famiglia Weisz. Con la promulga delle leggi razziali nel 1938, tutti gli ebrei giunti in Italia dopo il 1919, furono costretti a lasciare il paese. E Árpád ebreo lo era.

Rifugiatosi in Olanda, riuscì a divenire un eroe locale anche a Dordrecht, dapprima salvando la squadra neerlandese nello spareggio contro l’Utrecht, e poi attraverso due storici quinti posti.

Ma l’incedere del secondo conflitto mondiale e la conquista nazista dei Paesi Bassi significarono per Árpád Weisz e la sua famiglia l’arresto della Gestapo e la deportazione nel campo di transito di Westerbork. Sua moglie trovò la morte nelle camere a gas di Auschwitz il 7 ottobre, assieme ai figli Roberto e Carla. Árpád fu invece inviato per un periodo nei campi di lavoro dell’Alta Slesia, per poi venire ricondotto ad Auschwitz, dove il 31 gennaio 1944, all’età di quarantasette anni, sperimentò la stessa, tragica, infame fine che trucidò i suoi famigliari.

La voce di Árpád, come quella di milioni di ebrei, rimase silente per decine di anni, sepolta dal fragore e dal cumulo di indicibili orrori che l’esperienza del nazionalsocialismo ha condotto nel mondo.

Fortunatamente, l’eccellente lavoro di storici, giornalisti e divulgatori ha riportato alla luce la storia di un uomo dimenticato, eppure tanto fondamentale nell’evoluzione di questo sport, bello, magnifico, anche e soprattutto perché privo di confini e fisiologicamente devoto al rispetto per il diverso. A volte ci scordiamo di come il calcio sia un fenomeno sociale, e come tale non immune alle pieghe orrifiche che la società a volta prende. Questa storia, nella sua brutalità, ce lo ricorda, ed è per questo che, quando possibile, deve essere ricordata.

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