Napoli Scudetto

È già lo scudetto dei ricordi

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Trentatré anni dopo l’ultima volta, il Napoli è tornato a vincere lo scudetto. Lo ha fatto in un anonimo giovedì sera di maggio, in trasferta a Udine, grazie a un pareggio stiracchiato. E mentre il prato della Dacia Arena veniva invaso dai tifosi del Napoli che erano riusciti a raggiungere la squadra, a 850 chilometri di distanza lo stadio Maradona esplodeva di gioia, riempito fino all’orlo da una città intera, trasformato in un enorme cinema a cielo aperto. Trentatré anni dopo Napoli ha fatto pace con il passato, con l’idea di non poter tornare a vincere uno scudetto senza Maradona; ha fatto pace con i ricordi, che rischiavano di diventare l’unico veicolo di tifo disponibile; ha fatto pace con il futuro, affezionandosi a figure nuove che hanno realizzato ciò che sembrava irripetibile: la squadra di Luciano Spalletti è già nella storia, ma è una storia tangibile, fatta di carne e ossa, non più di ricordi. Il vuoto tra presente e passato è stato colmato, e ha preso una forma diversa dalla nostalgia, una forma più sana. Napoli può finalmente andare avanti.


Oltre il velo

«Don’t believe in manifestation, your heart’ll break»

Quand’è che abbiamo smesso? Di raccontarci bugie, di nasconderci dietro un dito? Di raccontarci storie senza un lieto fine pensando che il lieto fine, quello vero, esistesse solo nelle favole?

Qualcuno di noi avrà iniziato già in quel lontano aprile del 2018: se non era bastata allora la scaramanzia, con quei giocatori, quell’allenatore e quella città, in un vortice unico e ripetibile quanto l’allineamento di tre o quattro pianeti, qual era il senso di continuare a ripetersi come un mantra il solito «non succede, ma se succede…”»?. Certo, molti l’hanno usata come scudo a posteriori, la scaramanzia trasformata in cinismo, schernendosi, raccontandosi che alla fine lo avevano sempre saputo che la squadra non era pronta, la città non era pronta. Che forse non saremmo stati pronti mai, perché è nel DNA di tutte le squadre che giocano bene a calcio – e quel Napoli giocava maledettamente bene a calcio – ma che non sono abituate a vincere restare con le mosche strette in un pugno e l’amaro nella bocca, alla fine di tutto. Eppure, il cinismo non è riuscito a lenire le ferite di uno scudetto mancato: l’unico risultato è stato non goderci la corsa fino in fondo, con il freno a mano tirato per la paura costante di schiantarci, e quando lo schianto è arrivato si è capito che il dolore non sarebbe stato meno intenso con delle inutili protezioni. La finzione come anestetico dei sentimenti non è mai una buona idea; la scaramanzia come placebo un esperimento fallimentare. Qualcuno deve averlo capito allora, abbandonandola per sempre come reazione (contro)intuitiva alla delusione.

Altri invece hanno lasciato che quella delusione prendesse il sopravvento, con lo scetticismo che pian piano si insinuava sottopelle come l’inchiostro dei tatuaggi. Ha continuato a propagarsi negli anni successivi, resistendo ai tentativi più o meno efficaci di rianimare una piazza e una squadra spompate dalla rincorsa del periodo sarrista: l’arrivo di Ancelotti, il mercato fatto di acquisti altisonanti come quelli di Manōlas e Lozano e di voci altrettanto altisonanti come quella di James Rodríguez si sono rivelati uno specchietto per le allodole, utili soltanto a mascherare il guscio vuoto lasciato dalla scaramanzia quando il sogno smette di sorreggerla: la disillusione.

È la disillusione ad aver guidato gli ultimi anni del Napoli, trascinatosi verso la fine di un ciclo sempre più stancamente, con i suoi uomini simbolo che arrancavano cercando di aggrapparsi al ricordo di un sogno che sbiadiva in dissolvenza sullo sfondo. Pian piano li abbiamo visti scomparire uno ad uno, come i personaggi di una foto che il tempo continua a cancellare: Jorginho, Hamšík e Albiol per primi, seguiti da Callejón, fino ad arrivare agli ultimi addii, quelli più dolorosi ma resi inevitabili dagli anni che passano. Insigne, Koulibaly e Mertens hanno salutato quando non avevano più nulla da dare al Napoli, prosciugati da un ultimo colpo di coda tentato per conquistare quello scudetto che pochi anni prima avevano soltanto sfiorato. Le gambe più pesanti, la testa meno leggera e una Napoli disillusa: il «non succede, ma se succede…» trasformato, senza che ce ne accorgessimo, in «non succede, non succede…». L’esito già scolpito, non all’interno di un presunto DNA perdente della squadra, ma nel sentimento comune che pervadeva la città ingrigita, privata anche solo della capacità di immaginare un finale diverso da quello di pochi anni prima.


Rinascita

«Try not to worry there’s a voiceover. Go on, go quiet for a change»

Ricominciare è la parte più difficile, alla fine di cicli così importanti: non si tratta di scegliere un nuovo tipo di carta da parati per delle pareti scrostate, ma di ristrutturare da cima a fondo una casa lentamente sprofondata nel terreno. È necessario scuoterne le fondamenta con scelte dolorose; cambiarne la conformazione tanto da renderla irriconoscibile a un occhio stanco, fermo sulla stessa immagine per un tempo inusuale nel mondo del calcio. Con i punti di riferimento persi, nello spaesamento generale, abbiamo faticato a ritrovare l’essenza della squadra: siamo stati diffidenti, disabituati come eravamo a respirare aria nuova, intenti a giudicare prima del tempo e fare paragoni con il passato. Tutto era diverso, ma noi restavamo gli stessi, convinti che quello fosse l’ennesimo modo di cambiare tutto senza che nulla cambiasse davvero.

Eppure, qualche tocco di colore ha iniziato a balenare in un paesaggio grigio. Prima qualche guizzo estemporaneo, episodi isolati che lasciavano intravedere qualcosa di diverso sotto una superficie grezza: stacchi di testa a due metri e venti dal terreno, tunnel e sterzate improvvise, corse all’indietro da centometristi per recuperare la posizione. Le nuove leve – Khvicha Kvaratskhelia, Kim Min-jae, un rinnovato Victor Osimhen – hanno portato linfa vitale ad una squadra che era diventata l’ombra di sé stessa. Poi, una serie di risultati sorprendenti: vittorie di larga scala contro avversari di livello, notti europee in cui il Napoli sembrava aver trovato in terra il centesimo per fare il dollaro. Qualche testa ha iniziato a rialzarsi, svegliata dal torpore di cui era rimasta vittima. La scaramanzia ha cominciato a riprendere il posto dell’indifferenza, il velo protettivo per evitare di scottarsi di nuovo.

Poi anche quella ha iniziato ad allentare la presa, ogni settimana più debole grazie al vantaggio accumulato dalla squadra sulle concorrenti; alle prestazioni che aumentavano di giri esponenzialmente; alle battute d’arresto seguite da reazioni convinte che ricoprivano le crepe ancora prima che si cominciasse a notarle.

Allora quand’è che abbiamo calato la maschera della scaramanzia per l’ultima volta, rivelando l’entusiasmo che ci eravamo riproposti di tenere nascosto per sempre, quasi fosse motivo di vergogna? È stato dopo il passaggio del turno in Champions da primi del girone? Dopo la partita dominata per 5-1 contro la Juventus? Dopo il 2-1 al fulmicotone con la Roma, dove il pareggio sembrava la naturale conclusione? Per alcuni, i più restii a fare pace con il passato, è servita la gara di ritorno con la Juventus del 23 aprile, decisa dal gol allo scadere di Jack Raspadori, quando il cerchio aperto cinque anni prima si è chiuso senza bisogno di forzature.

La verità è che per ognuno di noi c’è stato un momento diverso di catarsi, dove i sentimenti sono tornati a fluire senza inibizioni e siamo tornati a tifare, tifare davvero. I tocchi di colore hanno abbandonato la sfera metaforica per trasferirsi fisicamente negli angoli della città. Si sono diffusi dapprima nei luoghi turistici, sui Quartieri Spagnoli e a Spaccanapoli; quei piccoli focolai si sono sparsi a macchia d’olio in altre zone di Napoli toccando Scampia e la Sanità, le zone dove il sentimento popolare è forte e basta poco per cedere all’entusiasmo; e poi sono esplosi in tutta la città, nelle provincie, spingendosi ai confini del tifo napoletano in un raptus contagioso che non ha risparmiato auto e balconi. Il bianco e l’azzurro hanno ricoperto per intero il cemento onnipresente grazie a striscioni, pittura, cartapesta: le fontane sono diventate Vesuvi in miniatura, le facciate dei palazzi hanno preso la fisionomia degli attaccanti e sagome di cartone sono spuntate come figurine del Subbuteo, con i vicoli come campi da gioco. Senza bisogno di parole la città si è risvegliata, le coscienze finalmente unite in un sentimento collettivo e allineato; come quando in un giorno di fine inverno il tempo è particolarmente caldo, l’aria sembra diversa senza un particolare motivo e si dice a sé stessi «la primavera è arrivata!».


Foto Ricordo

«I keep what I can of you. Split-second glimpses and snapshots and sounds. […] I flicker through. I carry them with me like drugs in a pocket»

Ci sono stati, come in tutti i percorsi lunghi e tortuosi, momenti di dubbio. Attimi in cui la certezza di vincere ha vacillato, perché la paura di dilapidare il vantaggio acquisito è riaffiorata in maniera irrazionale, quasi fosse un riflesso pavloviano innescato dalle scottature del recente passato. Ci sono stati momenti di tensione tra tifosi e società, tra tifosi e altri tifosi. Piccoli strappi che minacciavano di oscurare i progressi fatti durante l’anno, pazientemente ricuciti in nome di quel sentimento collettivo che doveva continuare ad alimentarsi. E le delusioni in Champions League, arrivate in un momento di flessione fisica e mentale di una squadra che aveva alzato le proprie ambizioni esponenzialmente.

C’è stata, infine, la prova più grande da superare: la noia. Cosa si fa una volta che gli angoli da colorare sono terminati e le maglie Buitoni indossate da tutti? Truccati e ben pettinati siamo rimasti ad aspettare impazienti il momento in cui uscire a festeggiare, e l’attesa ha prodotto tanti piccoli tempi morti che rischiavano di rendere l’azzurro un po’ più grigio. Eppure, la bellezza ha trovato posto proprio in quei momenti, riempiti dalle nostre storie. Frammenti personali che ricorderemo più dei festeggiamenti, delle bandiere e degli striscioni. Che arrestano la noia, resistendo alle sconfitte e ai fallimenti. Frammenti che riempiono il cuore più di quanto l’attesa spasmodica per uno scudetto che mancava da tanto, troppo tempo possa mai fare.

Le partite guardate nelle verande degli amici, le sedie schierate in fila come nel circoletto tutto fumo e proiettore in cui fui iniziato al calcio vent’anni fa, vagamente consapevole di un Napoli relegato al Purgatorio della Serie C. La sciarpa regalatami per la mia prima partita al San Paolo, ritrovata nel ciarpame di una cantina polverosa. I cori che continuano a risuonare nello stadio dopo la sconfitta in casa con la Lazio alti, più alti che se avessimo vinto in maniera schiacciante. Il 4-0 in casa con il Monza quando il talento di Kvaratskhelia, barba lunga e calzerotti abbassati stile anni Settanta, è deflagrato per la prima volta in tutto il suo splendore. Il ritorno a Napoli degli amici di sempre sparsi per il mondo, tutti richiamati per la festa scudetto; pezzi di Bologna, Milano, Verona, Berna hanno arricchito le mie giornate napoletane di nuove sfumature, ridefinendo il concetto stesso di celebrazione sportiva: a chi importa più se la mancata vittoria con la Salernitana ha spostato il traguardo un po’ più in là, quando ci siamo riabbracciati e abbiamo potuto condividere di nuovo momenti insieme, sempre più rari da quando il peso delle scelte li ha prosciugati?

E poi le ore passate a guardare le partite in silenzio con mio padre, le parole come un orpello agli sguardi di complicità che ci scambiavamo di fronte allo spettacolo che ci stavamo godendo. I suoi occhi lucidi, la sua paura di non fare in tempo ad assistere al terzo scudetto in momenti delicati. Qualche lacrima che non è riuscito a nascondere, mentre dal televisore le immagini dello stadio in festa scorrevano e Paolo Sorrentino rievocava il gol di Baroni di trentatré anni prima: lui era lì, in quel San Paolo oggi Maradona, e da casa avrà rivissuto quei momenti, proprio come forse farò io fra trent’anni ricordando i giorni di oggi.

Ricorderò di oggi, giovedì 4 maggio 2023, il Napoli ufficialmente campione d’Italia per la terza volta, le strade allagate di gente in una perenne parata, pronta da mesi a questo momento meraviglioso. E oggi tutti sappiamo finalmente quanto vale essere vicini l’un l’altro, riuniti in un posto dove i telefoni non funzionano e Napoli è una cosa sola.

A questo, e solo a questo serve la conquista di uno scudetto: donare un sapore particolare ai nostri ricordi, rendendoli unici e indimenticabili. Tutti quei brandelli di «con chi eravamo», «dove eravamo» e «cosa facevamo» verranno gettati dentro una coppa per custodirli meglio: scorci, istantanee e suoni che non andranno persi nemmeno fra trent’anni, quando qualcun altro li scorgerà nei nostri occhi mentre noi, commossi, li ricorderemo.

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