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Venti frasi iconiche della telecronaca moderna

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La vita è, solitamente, molto meno entusiasmante di come ce la raccontiamo. La stessa cosa vale per il calcio, anche se è diffusa l’opinione che un pallone che rotola sia in grado di suscitare molte più emozioni della solita routine. D’accordo o no, la spettacolarizzazione che negli ultimi vent’anni ha investito come un’onda anomala il mondo del calcio, ha completamente cambiato il modo di raccontarlo. La cronaca, una volta così fondamentale, ha lasciato spazio alla considerazione personale, e le voci distaccate e modulate – ma pur sempre inconfondibili – che accompagnavano le grandi competizioni internazionali del secolo scorso hanno fatto posto, tra la fine degli anni Novanta e l’inizio dei Duemila, ad una variopinta lista di personaggi.

Questi nuovi menestrelli dello sport, durante la loro carriera, ci hanno regalato delle espressioni che sarebbe ingeneroso definire geniali, visto il loro vertiginoso oscillare tra la realtà dei fatti e la fantasia più distopica. I migliori tra loro sono addirittura riusciti a rendere proprie parole che esistevano già, arrogandosi una sorta di marchio registrato su alcuni modi di fare e di dire, che ormai rimandano il nostro cervello direttamente a loro. Abbiamo selezionato per voi alcune frasi della telecronaca moderna che ormai sono diventate un classico senza tempo, e abbiamo provato ad analizzarle con un pelo di buonsenso assieme allo stile narrativo dei loro autori.


«Eccezionale!», Sandro Piccinini

In principio c’era Sandro Piccinini, primo alfiere dei momenti sportivi di Mediaset e punta di diamante della scuderia di Premium. Il suo marchio di fabbrica è ormai inconfondibile: Sandro assiste, con il trasporto cui è solito, ad una splendida giocata. A fatti compiuti, come riflettendo su ciò che i suoi occhi hanno appena visto, sembra quasi parlare a sé stesso per rafforzare la sua incredulità di fronte al gesto tecnico. La parola che ne scaturisce possiede un’inflessione musicale che provoca un effetto quasi straniante. Il giocatore si è prodigato in qualcosa che non può rimanere nei confini spaziali di un lemma soltanto e, inevitabilmente, lo rompe, decurtandolo. È così che nasce lo «’ccezionale» con cui Sandro allieta, oggigiorno, chi si ritrova a guardare una delle due partite delle italiane nei mercoledì sera di Champions League.

«Immergiamoci!», Fabio Caressa

Durante un momento storico magro di soddisfazioni e di felicità, sia sportive che non, il campionato si giocava a porte rigorosamente chiuse. Questo ha dato alle televisioni la possibilità di carpire più informazioni possibili dalle voci dentro il campo. L’«immergiamoci» di Fabio Caressa, vate della cronaca sportiva, è diventato un meme così in fretta che forse non abbiamo nemmeno fatto in tempo ad accorgerci del suo valore rivoluzionario, della sua volontà di potenza, di un nuovo desiderio di lasciar parlare il campo nel modo più logicamente ineccepibile di sempre: stando muti e alzando il volume dei microfoni. E se oggi quell’innaturale silenzio rotto soltanto dalle voci dei giocatori è, fortunatamente, un ricordo lontano, a noi rimangono quelle perle nate e morte sul rettangolo verde e l’imbarazzante quiete che le precedeva.

«Pagina *inserire numero* del manuale del calcio», José Altafini

Chiunque abbia mai giocato a Pro Evolution Soccer non può non ricordarsi del commento tecnico di José Altafini, che esprimeva meraviglia costante all’inizio di ogni partita per il fatto di essere lassù nella cabinetta a godersi lo spettacolo. Altafini è stato un pasional, un pioniere dell’entrata in sintonia con gli spettatori – che chiamava nove volte su dieci «amisci» – e un comunicatore molto capace, forse anche grazie al suo inconfondibile accento brasiliano. L’azione da «pagina del manuale del calcio» è un classico senza tempo che si è perso quando José ha smesso, ma che tanti nostalgici ricorderanno volentieri. Diverse ipotesi sono state fatte sul metodo con cui il numero di pagina venisse scelto, ma nessuno ha mai saputo la verità al riguardo. A noi, del resto, non importa: ci basta immaginarcelo felice, nel suo ritiro, mentre al pranzo familiare, con un occhio al pasticcio di carne e uno ad Udinese-Genoa, definisce da manuale un gol a caso di Albert Gudmundsson. Guardare a pagina ventisei per credere.

«300 secondi alla fine», Pierluigi Pardo

La gente la matematica non la sa. In più, se sto guardando Frosinone-Empoli alle 22.30 di uno squallido lunedì sera passato con una cassa di Corona davanti al televisore, probabilmente non avrei voglia di fare i conti nemmeno se fossi davvero in grado di farli. Il riassunto è che sarebbe bellissimo se Pierluigi Pardo smettesse di fare questo giochino di contare i secondi e andasse avanti con la sua normale telecronaca, senza mettere il nemico – ovvero i numeri – dove non devono stare. Per quello c’è già Giuseppe Pastore.


«Il recupero è pleonastico», Maurizio Compagnoni

Come nel lessico del calcetto, spesso accade che anche in quello telecronistico la forma superi la materia. È il caso di questa più che ricorrente frase di Maurizio Compagnoni, che il nostro si trova a ripetere allo sfinimento quando non ritiene necessario aggiungere minuti di gioco a quelli regolamentari. Non disdegnamo l’innalzamento della narrazione, anzi: di solito il bisogno di ascoltare frasi epiche in telecronaca è da far risalire soprattutto a noi tifosi. Ciononostante, ecco una lista di sinonimi che Compagnoni avrebbe potuto utilizzare invece di ‘pleonastico‘: inutile, gratuito, superfluo, vano, inane, inconcludente, infruttuoso, disutile (lett.). Grazie all’enciclopedia Treccani per il suo contributo a questa parte di articolo.

«Hai ragione, Fabio», Beppe Bergomi

Qualcuno dice che se non ci fosse stato Beppe Bergomi, ne avrebbe irrimediabilmente perso anche Fabio Caressa, ed in effetti è stranamente interessante la frequenza con cui lo Zio, nel corso dei suoi commenti tecnici, interagisce con il suo collega al microfono. L’impressione che danno è quella di una coppia che si intende e si supporta, anche se ogni tanto la compassata e profonda voce nordica di Bergomi frena l’entusiasmo dilagante di Caressa con un «qui ti devo fermare, Fabio». Ma questi rimangono momenti isolati, perché per la maggior parte del tempo della diretta l’ex-capitano dell’Inter è complice del flow del Vate, che asseconda in quasi ogni sua analisi, senza mancare però di aggiungere qualche considerazione personale. L’impressione degli ultimi anni è che Bergomi si stia un po’ “caressizzando” sotto alcuni punti di vista – a proposito, Treccani, prendi nota –, come nel finale della sfida tra Porto e Inter negli ottavi di finale di ritorno, in cui ha ricordato a tutti, con un’inaspettata variazione di tono vocale, che «le punte devono difendere».

«Ectoplasmatico», Stefano Borghi

La ragione per cui Stefano Borghi viene universalmente riconosciuto come uno dei migliori telecronisti del panorama italiano è, oltre alla sua preparazione e alla sua inconfondibile voce, la sua spaventosa varietà lessicale. Leggenda narra che, da bambino, il nostro ottimo Stefano abbia ingurgitato per errore un enorme vocabolario spagnolo-italiano, entrando in una dimensione di linguaggio tutta sua che contribuisce alla già straordinaria conoscenza calcistica di cui è dotato. E, se lo spettatore medio magari troverà qualche difficoltà a ricollegare il termine chilena ad una rovesciata, sarà in ogni caso ricompensato nel trasporto emotivo eccezionale che quel timbro chiaro e graffiante riesce a regalare a chiunque lo ascolti nel nome del fútbol. Da non sottovalutare, tra parentesi, la sensazione di esoticità che offre quando commenta il campionato spagnolo. Con i suoi termini specifici e le sue profonde digressioni – nei momenti giusti – su luoghi e persone, Borghi riesce davvero a comunicarci qualcosa di altro rispetto al nostro solito, abitudinario confino calcistico.

«Madre mia, Lele Adani

Il personaggio Lele Adani – in realtà ormai fuso nel calciatore Lele Adani, a sua volta fuso nell’uomo Lele Adani, a sua volta fuso in uno strano melting pot di cucina emiliana ed asado – incarna un concetto di telecronaca assai strano. Assurto agli onori delle cronache per un clamoroso commento tecnico ad Inter-Tottenham nel settembre 2018, Lele sembra essersi preso un po’ troppo sul serio da quel momento in poi. Al di là delle sicuramente uniche caratteristiche delle sue narrazioni, che rendono al meglio con Trevisani al suo fianco, la prima reazione che si ha al mix di modenese e sudamericano della sua parlata è un senso di straniamento brechtiano. Di qui il bivio: l’apprezzamento incondizionato e la difesa strenua dell’adanismo, o la sua netta condanna. Non ci sono vie di mezzo.

La verità è che la telecronaca di Adani è passata dallo stupore crudo, non razionalizzato, e per questo in un certo qual modo molto gradito, al freddo calcolo dei momenti topici. L’espressione «madre mia!», per quanto all’apparenza risultato naturale e genuino di una giocata spettacolare, è ormai palesemente frutto di uno studiato sistema di potenziamento della dramatis persona, e viene utilizzata in passaggi chiave di una partita facendo leva non tanto sull’estemporanea impressione di onnipotenza che un giocatore può dare, ma su quello che il pubblico si aspetta che Adani dica. Insomma, per farla breve: il commento sovraeccitato e sorprendentemente vivace di Lele ha fatto il giro ed è diventato appassionatamente prevedibile. Le uniche volte in cui ormai Adani riesce a stupire, lo fa con espressioni talmente out of the blue che allo spettatore medio viene più da ridere che da gasarsi – vedi il qatariota «dribblare cammelli del deserto». Senza dimenticare, poi, che non a tutti piace l’accoppiata piadina-mate.


«Mette l’ombrellino nel long drink», Nicola Roggero

Se guardate la Premier League, il vostro pensiero in materia telecronistica non può non andare a Nicola Roggero. Il bardo del calcio nella perfida Albione ha un repertorio praticamente infinito di espressioni iconiche e, in generale, di momenti che più alti non si può. Roggero ha un’idea chiara di come il calcio, soprattutto quello inglese, andrebbe giocato, e non si fa problemi nel farlo notare quando la partita non rispecchia le sue aspettative. Frasi come «questa partita potrebbe essere stata sponsorizzata da una ditta di camomilla, per quanto abbiamo visto nei primi trenta minuti» rimangono legate al contesto della telecronaca e della partita, e quindi sono più difficili da esporre. Ma «mette l’ombrellino nel long drink» è ormai un classico, da riferire ad un giocatore che chiude in bellezza una buona prestazione oppure finalizza con semplicità un assist magnifico servito da un compagno. La bivalenza dell’espressione non è mai stata d’ostacolo a Roggero, che l’ha sempre usata nel suo tono baritonale e in uno stile narrativo assolutamente particolare. Se con Stefano Borghi e Sandro Piccinini potrebbe sembrare allo spettatore di stare assistendo ad uno scontro epocale tra due titani del calcio, Roggero ha la capacità di portarti amichevolmente in un pub e di discutere della partita con te, davanti ad una birra, senza risparmiarsi qualche commento salace. E a noi va benissimo così.

«Austria con Bachmann, Laina, Dragović, Hinteregga, Ulma, Schlaga, Laima, Baugmatna, Alaba, Zabiza, Gregorsch» (e molte altre corbellerie), Rai

Ma perché fare di tutta l’erba un fascio? Beh, perché in questo caso si fatica a trovare sostanziali differenze all’interno del nostro cast comico preferito. Il palinsesto Rai ci ha fatto sentire di tutto in questa lunga carriera di cronache sportive, e purtroppo – o per fortuna – non si è limitata solo al calcio. Da Paola Ferrari ad Alberto Rimedio, passando per Enrico Varriale, si potrebbe scrivere un libro sulle imprecisioni e le banalità che si sono avvicendate durante il commento calcistico nella televisione nazionale negli ultimi dieci anni. L’unico a cui sentiamo di poter fare un generoso sconto di pena è Stefano Bizzotto, un uomo che pur non avendo come interesse principale il calcio si presta anche alle sue telecronache – sopportando, con calma olimpica, anche la compagnia di un personaggio ingombrante dal punto di vista mediatico come Lele Adani – ma che dà il suo meglio quando si ritrova a far da voce ai vari mondiali di atletica e nuoto, o alle Olimpiadi. Competizioni, queste ultime, in cui ha sempre dimostrato di saperne, come si suol dire, a pacchi. Stefano, siamo con te, non mollare.

«Come si dice in gergo», Andrea Stramaccioni

Uno che ha beneficiato dell’ultimo Mondiale è sicuramente Andrea Stramaccioni. Che, per inciso, è uno dei veri eroi senza macchia e senza paura della lista, perché bersaglio di ogni genere di sfiga possibile – dal legamento crociato di Diego Alberto Milito al governo iraniano –, ma sempre incrollabilmente, capace di cadere in piedi. La sua frase chiave, se così possiamo definirla, è il famoso «come si dice in gergo». Stramaccioni, si sa, è un uomo di calcio. In quanto tale, il suo obiettivo è rendere il mondo sportivo più vicino a quello degli spettatori. La sua frase è una riflessione metaletteraria sul linguaggio che compete al suo ruolo: Stramaccioni usa espressioni che tutti i telecronisti usano, introducendole però con una nuova premessa. Il codice della cronaca è un gergo, un registro a parte che si utilizza per trasportare in campo il fruitore dell’opera. Stramaccioni lo riconosce e lo espone, rompendo la quarta parete come farebbe un attore di teatro elisabettiano.

«Rete» (ma detto piano), Antonio Nucera

Quando tutto sembra perduto in un vortice tumultuoso di eccessive e spettacolari profusioni, ecco stagliarsi al di sopra di tutti gli altri – ma senza esagerare, chiaramente – Antonio Nucera. Un narratore pacato, un eroe della flemma, un timido ma rassicurante connoisseur dello sport. Nucera è tutti noi perché nella sua ostentata serenità tutti ci possiamo rispecchiare senza fatica, soprattutto se stiamo guardando il tipo di partite che di solito commenta. Il suo rapporto con la telecronaca assomiglia a quello che intercorre tra Mulder e Scully nelle primissime stagioni di X-Files: puramente lavorativo, basato sulla densità dei discorsi e non sul loro volume, fondato sui non detti emozionali, sulla fiducia e sulla codipendenza. Perché se è vero che senza le partite delle 15:00 di domenica non ci sarebbe Nucera, è forse altrettanto vero che senza la sua voce confortevolmente piatta, non esisterebbero le partite delle 15:00. Perché, quando un Sassuolo-Torino chiama, deve esserci un eroe pronto a rispondere. Preferibilmente a bassa voce.


«Sciabolata», Sandro Piccinini

La «sciabolata» merita di essere menzionata come bonus all’interno del repertorio piccininiano. Può essere di vario tipo, dal «morbida», quando la palla viene affettata dolcemente da un piede educato – da qui il collegamento con la sciabola, arma da maneggiare con destrezza e curva, come dovrebbe essere la traiettoria della sfera –, all’ esistenzialmente «disperata» quando viene eseguita negli attimi finali di una partita, spesso da un portiere o un difensore che non ha un rapporto privilegiato con la tecnica. Da notare come la voce solitamente cullante di Piccinini rimanga nei suoi ranghi durante la prima, ma distrugga il muro del suono durante la seconda, specie nella parte finale. In effetti, è quasi più una «sciabolata disperATAH» in climax ascendente. Poco importa, perché in entrambi i casi l’esito è relativamente segnato: la caratteristica principale della «sciabolata» e che, proprio come nei combattimenti all’arma bianca, di rado è efficace quando colpisce dal lato interno della curvatura. Figurarsi poi se chi la tenta non la sa usare.

«Mucchio Selvaggio», Sandro Piccinini

Nel momento della «sciabolata», in area di rigore si sarà già formato il «mucchio selvaggio» di non trascurabile citazionismo cinematografico, e quindi un informe ammasso di corpi uniti, schiacciati, compenetrati l’uno nell’altro che, a vederlo così, parrebbe saltato fuori da qualche cosmico orrore lovecraftiano. Questo pasticcio di carne serve al buon Sandro a ravvivare gli animi di una partita  deludente sul piano dello spettacolo durante un calcio d’angolo o una punizione dal lato corto dell’area. Capita, però – ed è successo spesso ultimamente – che Piccinini utilizzi il termine a bassa voce, in una variante forse più efficiente, poiché in grado di creare attesa ed aspettativa, come se i calci da fermo fossero un oggetto misterioso e il «mucchio selvaggio» un team di scienziati che cercano di risolvere i suoi enigmi.

«Sotto la doccia!», Fabio Caressa

La domanda è una sola: perché, Fabio, per commentare una cosa talmente netta e definita come un’espulsione, devi creare nella mente dello spettatore l’immagine del giocatore espulso sotto la doccia? C’è del voyeurismo latente, dell’ossessione? O ti piace semplicemente scavare nelle profondità dell’umano inconscio, e tutto quello che fai in telecronaca è in realtà un’indagine ontologica sui più reconditi angoli oscuri del nostro deviato senno?

*Inserire citazione musicale, letteraria o cinematografica a caso*, Pierluigi Pardo

Pardo è un uomo di cultura, al di là di questa cosa dei trecento secondi citata precedentemente. In quanto vero uomo di cultura, ritiene indispensabile non fare mistero della sua preparazione con nessuno, soprattutto con i milioni di spettatori che seguono il big match di turno su DAZN. E allora eccolo, che si prodiga a citare i Beatles e i Rolling Stones, Venditti, Kerouac, De André, gli Eagles, Scorsese, i Dire Straits, Shakespeare, Al Pacino e via dicendo. Il tutto con uno stile ovviamente unico, che lo ha portato dove è adesso. Pardo è un buon narratore: sa quando distogliere l’attenzione con qualche chiacchiera, sa quando fare la battuta, sa quando alzare i toni. Sia chiaro però, Pier, non ci inganni: sappiamo benissimo che a casa hai il poster di Katy Perry, guardi i film della Marvel e ti sei letto tutto Twilight.


«Numero incredibile», Sandro Piccinini

Sarebbe stato oggettivamente troppo dividere «numero» da «incredibile» e farci due voci separate, anche perché la seconda avrebbe ricalcato con ogni probabilità quella di «eccezionale». Per parlare quindi di «numero incredibile» bisogna fare una premessa: è più del semplice «numero». Non è qualcosa che fai, bello, perfetto, bravissimo, tutti a casa. Trascende la semplice rouleta, il dribbling fantasioso, il colpo di tacco. È un livello superiore, qualcosa con un coefficiente di difficoltà talmente alto che il telecronista, per sua stessa ammissione, stenta a credere. Una cosa bella da far piangere, una skill inviata direttamente da Dio al calciatore, il non plus-ultra delle magie tecniche, una cosa che farebbe rimanere di stucco un ipotetico cyborg con il corpo di Cristiano Ronaldo, la fantasia di Messi e la potenza di tiro del Pernambucano. Una giocata talmente geniale da ascendere come Maria direttamente in cielo, saltando i passaggi riservati ai comuni mortali. Insomma, per gli standard emotivi di Piccinini, dal doppio passo in su.

«Ha segnato *inerire nome squadra*. Esattamente, al minuto numero…», Francesco Repice

Ma vogliamo darlo un po’ di spazio alla radio, oppure no? Famoso per le sue introduzioni lunghe e ragionate, Francesco Repice si è ritagliato uno spazio di primissimo ordine all’interno delle figure rilevanti della cronaca sportiva di questo secolo. Oltre all’impetuoso torrente di parole che si richiede a chiunque descriva qualcosa che altri non vedono, Repice sembra avere una particolare attrazione verso il minutaggio, che sottolinea costantemente con quella che è forse la sua frase preferita. Non c’è un gol che esuli da questo schema, nemmeno uno. Del resto ci sono anche esigenze dovute al mezzo di comunicazione, di fronte alle quali le mie considerazioni cadono nell’insignificanza. Ma il fatto che la prima immagine che mi viene in mente quando sento Repice parlare è il segnapunti della Serie A – o della Champions, se è mercoledì –, lo trovo molto divertente.

«L’arbitro manda i giocatori al riposo definitivo», Bruno Pizzul

Va bene, è successo una volta sola, ma è difficile trovare delle frasi dell’epoca ripetute in continuazione, e questa fa sorridere proprio perché la categoria dell’errore, pur essendo sempre presente, non è mai stata evidente e sottolineabile in una telecronaca di Bruno Pizzul. E, in fondo, anche come scusa per parlare di come tra commento tecnico e opinionisti il mestiere del cronista si sia evoluto nel tempo. Quando Pizzul era l’unica voce che gli italiani erano abituati a sentire con costanza, l’obiettivo era raccontare un evento sportivo, senza che quest’ultimo fosse sub iudice, e senza esporlo alle proprie opinioni. Un motivo un po’ freddo in una realtà come quella di oggi, in cui tutti si sentono invitati a dire la propria su ogni cosa e a spargerla in giro per il mondo. Quando vi sentite subissati da scemenze galattiche sui social, andate a risentirvi una di queste meravigliose partite con Pizzul in cabina di commento. Vi calmerà i nervi come una storia della buonanotte, e, se siete fortunati, potreste pure beccare uno svarione.

«Gran botta! Non va», Sandro Piccinini

Sì, siamo arrivati a cinque frasi estrapolate dalla telecronaca media di Piccinini, ma: a) se pensate ad un telecronista iconico per espressioni e ripetizioni è sicuramente lui; b) sono un fan della ringkomposition, quindi chiuderemo creando un cerchio perfetto che nasce e muore in Sandro Piccinini, il quale, come l’universo, alla fine divorerà sé stesso nel suo processo di ineluttabile entropia. La «gran botta» potrebbe essere, in questo senso, un riferimento al Big Bang primigenio, la demiurgica forza di creazione sprigionata dal destro «secco» o dal sinistro di qualche violento interprete del pallone. Se però la logica della creazione è la concretizzazione di un concetto, proprio come lo è il gol, essa talvolta sfuma dalla parte sbagliata del palo – o della traversa, o della bandierina del calcio d’angolo quando si è proprio sfortunati. Di qui il rilassamento vocale e la delusione mista a «brivido» dell’homo incredulus, che è consapevole di aver assistito ad una mancata storicità degli eventi. Il «non va», a metà tra il sollevato e il rammaricato, sigilla la chiusura di un processo di costruzione, lasciando adito ad altre possibili manifestazioni di pars construens successiva.

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