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Venti meravigliose frasi tipiche del calcetto

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Nella mia indegna ma prolifica carriera da attaccante di calcetto ho sicuramente avuto fortuna con le parole. Ho conosciuto ed imparato ad amare o detestare diverse figure chiave della mia esperienza amatoriale, ma soprattutto, da buon ascoltatore, ho ruminato pensieri su pensieri sulle frasi che dicevano. La mia conoscenza si è ampliata quando ho scoperchiato il vaso di Pandora del liceo, e dopo aver conosciuto persone che frequento ancora di tanto in tanto per mezzo di sporadiche e logoranti uscite sportive, spesso in periodi dell’anno francamente improponibili.

Una cosa in questi anni mi ha colpito particolarmente: il linguaggio calcistico spesso necessita di comprensione immediata, dal momento che le giocate si decidono in frazioni di secondo, ma si ostina a mantenere un registro che oscilla tra l’abisso lessicale e il fiorentino delle Tre Corone, rendendosi spesso ostico per i meno esperti.

Consapevole della tragica antitesi, ecco il proposito di compilare un piccolo frasario tascabile, nel caso vi capiti di essere invitati ad una partita di calcetto.


«Fraseggiamo!»

Tornato alle luci della ribalta di recente grazie ad un meme di Serie/A/Memes, «fraseggiamo» è una parola che capita di sentire spesso nei campetti di tutta Italia. È uno dei – rari – casi calcistici in cui il linguaggio supera la materia da descrivere. Se è infatti vero che la parola ‘fraseggio’ indica un palleggio sicuro e controllato, esercitato con precisione e anche con una certa grazia, evocata dalla pronuncia decisamente dolce del lemma, è altrettanto innegabile il fatto che di rado, fuori dal professionismo, un fraseggio si concluda senza l’inevitabile uccisione di uno sventurato piccione che passava per caso, o senza che la palla esca fuori dopo un numero di passaggi inferiore a quattro.

«Qua!»

Massimo esponente nominale del terzo gemello tra i nipoti di Paperino – se sia quello verde, rosso o blu dipende interamente dal disegnatore – il lemma «qua!» ben rappresenta l’imperativo categorico kantiano se la palla non è ancora fuori dal rettangolo di gioco, o la disperazione esistenziale kierkegaardiana dopo un’occasione sprecata in seguito alla scelta sbagliata di un compagno a cui, volentieri, ricordiamo che la cosa migliore sarebbe stata scegliere noi. Il tutto viene accompagnato dal sempreverde, ma singolare, gesto delle due mani aperte, rivolte verso il basso, quasi congiunte in una preghiera infernale perché ormai folle, vana.

«Solo!»

Nei momenti in cui, inebriati dalla gioia del pallone, pensiamo di essere circondati da persone che ci amano o comunque almeno ci sopportano in questa vita altrimenti dolorosa e deserta, ecco allora che tempestivo e prezioso interviene il saggio ammonimento: nonostante i nostri tentativi, siamo irrimediabilmente soli in questo universo. Qualche millesimo di secondo per ricevere il passaggio e fare nostra questa severa realtà, e poi possiamo scoprire palla e involarci verso la porta, depressi, ma privi di marcatura.

«Uomo!»

Nietzsche proclamava: «vi annuncio l’Oltreuomo!», ma la chiamata dell’uomo nel grande vocabolario del calcetto ha un significato ben più filosofico di così. Essa rappresenta la controparte del «solo!» precedentemente citato, e invita il giocatore a non osare, a non peccare di hybris. Non si sfidano gli dei e non si sfida la sorte: fai un pass(aggi)o indietro e, con umiltà, rinuncia alle tue vane aspirazioni di gloria mortale. Evita, insomma, di girarti, con il pallone, perché rischi di perderlo e poi è un casino.

«Mia!»

Questo è un lemma che i nostri illustri predecessori Romani definirebbero vox media. In latino, ad esempio, monstrum e fortuna erano parole che potevano avere significato positivo o negativo a seconda del contesto. Ecco, il «mia!» gridato dal portiere mentre la palla spiove in area di rigore è un suono che si presenta ad azione non ancora compiuta. Riuscirà il nostro eroe a fare suo l’oggetto della contesa? O finirà per combinare una frittata? Il difendente può solo fidarsi e sperare, lasciando scorrere la sfera.

«Tornare!»

Più che un’indicazione, un grido d’aiuto, un’invocazione di soccorso di qualcuno lasciato a sé stesso, su una spiaggia solitaria che sta per essere travolta da uno tsunami originato da un passaggio sbagliato – il «fraseggiamo!» e le sue conseguenze – o da un fortunoso rimpallo. Per fronteggiare la soverchiante ripartenza nemica servono rinforzi, ed ecco che tutta la squadra cerca di rendersi utile in fase difensiva nei modi più disparati – e disperati. Tranne per il classico compagno di calcetto che come al solito di tornare non ha né il fiato né l’intenzione.

«Stendilo!»

Il momento forse più drammatico del processo innescato dal «tornare!» vede l’individuo fare i conti con la sua stessa natura malvagia e corruttrice, e seguire la ferrea normativa hobbesiana dell’uomo lupo di altri uomini. Ormai impossibilitato a fermare l’avversario lanciato a rete con le buone, il difendente più vicino si vede incitato a commettere la più sacrilega delle nefandezze. Con le lacrime agli occhi e conscio delle implicazioni morali del suo gesto, si lancia a capofitto sul portatore di palla, che cade esanime, come colpito da un cecchino finlandese. Sapendo di aver commesso il più spregevole dei falli tattici, il difendente si allontana con la consapevolezza di aver vinto, ma a quale costo?

«Ciascuno il suo!»

In uno spazio delimitato da un rettangolo bianco, qualcuno ti ricorda che, almeno sulle palle inattive, è necessario passare la propria esistenza assieme a qualcuno, anche se in questo caso quel qualcuno non ci vuole. Monumento all’affetto senza ricompensa, l’appiccicosa marcatura a uomo scade irrimediabilmente nel freddo controllo territoriale quando la difesa è schierata a zona.

«Siamo molli!»

Nei secoli, la parola ‘mollezza’ ha cambiato più volte di significato. Dalla rathumìa di cui erano accusati i Greci d’Asia Minore dai loro vicini Dori, i quali condannavano un certo eccessivo amore per il lusso e per l’arte, all’utilizzo che si fa nel mondo odierno per definire un approccio sportivo non sufficientemente cattivo alla partita. Insomma, se non possiamo essere Roy Keane, cerchiamo almeno di essere Gary Medel.

«Mi hai visto!»

Ennesima dimostrazione di quanto il mondo sia soggettivo, questo segmento avanza la pretesa di decidere cosa qualcuno ha o non ha fatto, deciso, visto. È un parente alla lontana del «qua!», ma implica quella nota di ovvietà nel tono che punta esclusivamente a creare senso di colpa nello sventurato a cui è rivolta. Il quale, ovviamente, non ti ha visto manco per scherzo.


«Bello!»

Estetica e pallone, una coppia che ha ragione d’essere in ogni terreno di gioco. Ma quando si scende nei templi calcistici di periferia, il «bello!» diventa non soltanto un riconoscimento puramente decorativo, ma anche un’espressione di meraviglia un poco sgradita, che l’autore del gesto tecnico troverà immotivata, ma che in fondo sappiamo necessaria. Del resto, di fronte all’inaspettato l’uomo non può che stupirsi.

«Lo mangi!»

Un incoraggiamento è forse diverso da un’istigazione? Sì, ma solo nell’obiettivo: chi ti incoraggia ti spinge verso qualcosa, chi ti istiga ti spinge contro qualcuno. Ad esempio, contro quel ragazzo mancino che è arrivato per fare il decimo e sta facendo il fenomeno.

«Guarda che è iniziata da un pezzo!»

Capita, ogni tanto, di scendere in campo senza la giornaliera dose di caffeina – o dopo aver mangiato diversi chili di salame, come accadde ad uno sbracciante centrocampista croato prima di una certa finale del Mondiale – e di ciondolare un po’ di qua e di là, più che correre. Ma non ci si deve preoccupare. Ecco arrivare il campione delle considerazioni non richieste, l’idolo dei grintosi, l’arcinemico della svogliatezza, l’Antonio Conte del calcetto, a confermare che la partita è iniziata a chi spera che finisca il prima possibile per potersi mettere a letto.

«Ragiona!»

L’utilizzo di questo vocabolo in particolare mi ha sempre fatto molto ridere. La gente fatica a ragionare prima di parlare, figurati se qualcuno che gestisce un pallone in mezzo ad altre nove persone, cinque delle quali vogliono rubarglielo, ha il tempo di pensare a quello che c’è da fare. Magari per arrivare, totalmente infastidito, ad un’improvvisata intervista post-partita degli amici per dire le uniche quattro parole di circostanza che vivono rent-free nel suo cervello. E che, guarda caso, di solito vengono introdotte da «penso che..».

«Palla!»

Parola che si pronuncia dopo l’avvento del disastro. La palla sta al calcetto come l’ossigeno sta alla respirazione, come l’acqua sta alla vita, come le esplosioni ai film di Michael Bay. Insomma, è essenziale avere una sfera, ma spesso succede che la cosa sfugga di mano, o meglio di piede. Non importa dove sia finita, se oltre un recinto, su un albero o sul volto del proprietario del campo che stava leggendo la Settimana Enigmistica, l’impertinente richiesta di restituzione arriva comunque.

«MA PASSALA!»

Perfetta incarnazione delle mitologiche Erinni nel calcetto, una frase del genere presuppone un solo sentimento: vendetta. Eri libero, mannaggia a lui, e non te l’ha passata! Incredibile! Ma dove andremo a finire, signora mia? Ma non è una cosa ovvia? Adesso devi sentirti in dovere di urlargli in caps lock. Beh, sappi che hai tutto il mio sostegno, almeno finché non sarai tu a tentare un’improbabile tiro dalla distanza – finito puntualmente alle stelle – invece di optare per l’appoggio.

«Allarga!»

Qui mi pare superfluo specificare che il complemento oggetto di questo verbo, buttato lì a caso in fasi generalmente poco esaltanti di un match, è il pallone. Non certo il canale di Panama o, come sostengono altre fantasiose teorie, la base di voto della Repubblica Popolare Democratica di Corea. Non ci sono spunti geografici o politici che tengano, si tratta proprio di dare il pallone al compagno sulla fascia, è inequivocabile.

«Vaivaivai!» alternato a «Daidaidai!»

Nell’evoluzione pronunciativa del termine, la distanza tra i suoni si è rarefatta e poi cancellata. Questo significante nasconde diversi significati in realtà, dall’invito ad aggredire alla spinta morale non richiesta, dalla rabbia all’ammirazione alla grinta. È un jolly, ricopre tutte le sfere del calcistico senza scomodarne nessuna e, soprattutto, aiuta i leader da calcetto con poca fantasia.

«Taglia!»

Il verbo tagliare in ambito futbolistico, per dirlo alla Lele Adani, non ha nulla di violento. L’obiettivo è quello di mandare in rete qualcuno liberandogli spazio, portando via marcatori e compagnia bella. Insomma, alla fin fine è un sequestro di persona consenziente, con fini che rimangono spietati e nessun ritrovamento di cadavere.

«Svegliati!»

No, non è vostra madre che vi sveglia la mattina perché siete in ritardo per andare a scuola. No, non è parte di un rito per riesumare dagli abissi una qualche entità ultramondana – anche perché tutti sanno che l’unico, vero, signore degli Antichi è Roberto Gagliardini. Semplicemente, molto spesso il calcio sembra – o è – un sogno, uno così bello o così brutto da sembrare finto, e non riesci a scappare da questa sensazione nemmeno correndo per tutti i chilometri che i tuoi polmoni ti consentono di reggere. E allora eccoci qua, riscossi dal simpatico del gruppo di calcetto, che ci ricorda a modo suo che saper usare la testa è tutto. Perché, che ci crediate o no, quel rettangolo verde e quel pallone che rotola, con tutte le emozioni allegate, sono assolutamente reali.

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