Sei stanco. Te ne sei accorto all’improvviso, in una domenica pomeriggio autunnale che non sembra molto diversa dalle altre. Sei stanco della routine, le settimane che si ripetono uguali a sé stesse l’una dopo l’altra. Dei continui viaggi, le camere degli alberghi asettiche, le strette di mano e i finti sorrisi che seguono quelle strette.
Soprattutto, sei stanco delle telecamere: le interviste infilate negli unici attimi di tempo libero che ti restano, quasi fossero un piano per toglierti quanto più sonno possibile; e le domande fatte con lo stampino, con le persone che già sanno cosa aspettarsi dalle tue risposte, con te che già sai quale sarà la loro reazione. Fa tutto parte del gioco, a cui partecipi con quel vestito che ti hanno cucito addosso con tanta perizia, dopo che tu sei stato così gentile da fornire le misure. Nelle interviste continui a ripeterti perché ci credi, in quello che dici: che il calendario è troppo fitto, che non ti resta tempo per concentrarti su quello che dovrebbe essere il tuo vero lavoro, che certe volte bisogna scendere a compromessi e il tuo miglior lavoro in carriera non può essere replicato come fosse un’opera in serie. Ogni volta però lo sforzo di farti comprendere è maggiore, e inizi a chiederti se non sia colpa tua. Ti senti come Don Chisciotte, lì da solo a combattere contro i mulini a vento; solo che lui era completamente perso nel suo mondo, mentre tu ti sei accorto che il mondo di cui parli non c’è più, o è sulla via di scomparire del tutto.
La verità è che non sai se abbia più senso continuare: ti eri attaccato al tuo sogno come una colla, ma quasi non ricordi più qual era. Ci dev’essere stato un momento della tua carriera in cui accettavi di indossare quel vestito perché il mestiere che facevi rendeva il resto sopportabile, ma ora che fatichi a ritrovare gli attimi che rendevano il tuo lavoro speciale, il vestito ti sembra semplicemente troppo stretto. E richiamare quei momenti è diventato uno sforzo troppo grande, seppelliti come sono dal tempo e dalla coltre di compromessi con cui sei dovuto venire a patti. In una delle ultime interviste lo hai ammesso chiaramente, senza girarci più intorno: «Se il calendario continuerà a essere così smetterò di allenare, è un calcio che non mi diverte».
Chissà se a queste parole ci crede davvero, Maurizio Sarri. Immaginare un suo futuro lontano dai campi, anche alla soglia dei 65 anni, ci sembra semplicemente uno scenario incontemplabile. Tutte le informazioni che abbiamo su di lui ci restituiscono una figura che del calcio ha fatto il punto focale della sua vita, anche quando questo non faceva parte della sua carriera professionale. Abbiamo mandato giù a memoria la sua storia, da impiegato di banca ad allenatore professionista ai livelli più alti, perché forse quella storia racconta qualcosa sulle nostre aspirazioni, sulla possibilità che un giorno si possano avverare se siamo abbastanza coraggiosi e testardi da continuare a perseguirli. È la storia che vogliamo sentirci raccontare perché lascia uno spiraglio aperto ai desideri che ci portiamo dentro.
A quella storia però Sarri sta aggiungendo un altro tassello negli ultimi mesi, ed è una parte che, se fossimo gli editori di un romanzo, vorremmo tagliare: ci parla di cosa succede dopo che il sogno è stato raggiunto, delle storture e delle imperfezioni con cui dobbiamo confrontarci nella vita di tutti i giorni, e che nei romanzi vengono tagliate perché noiose e anti-climatiche.
L’inserimento dei nuovi acquisti
Nella sua intervista-fiume concessa a La Repubblica, l’allenatore della Lazio ha parlato ancora una volta del problema-calendari, di come sia stato un errore tornare in Italia, di un movimento calcistico povero in termini culturali rispetto a quello inglese, e di come la sua povertà derivi anche da scelte sbagliate che tendono a delocalizzare gli eventi salienti del nostro calcio. Sono tutte opinioni più o meno condivisibili e talvolta contraddittorie tra loro, ma più che il merito di quelle affermazioni va valutata la tonalità con cui sono esternate: con un certo grigiore, certamente intrinseco nella sua figura, ma che stavolta si ammanta di un’aura di rassegnazione. È ancor più evidente se lo ascoltiamo parlare o lo guardiamo muoversi all’interno della sua area tecnica durante le partite. Non sembra la stessa persona che a momenti rischiava di picchiare Kepa nella finale di Carabao Cup.
La situazione che la Lazio sta affrontando in questa stagione ha sicuramente contribuito a peggiorare il suo malumore. I biancocelesti sembrano dipendere dallo stato mentale dei propri uomini, dalla loro capacità di rimanere dentro la partita fino a un certo punto: se la concentrazione viene tenuta alta per tutta la partita possono arrivare risultati sorprendenti, come il pareggio contro l’Atlético all’ultimo secondo grazie a un gol di Provedel; se la concentrazione cala, anche solo per pochi minuti, possono verificarsi situazioni come quella di Salerno, dove la squadra è stata rimontata senza riuscire a rientrare in partita. Questo spiegherebbe in parte anche la differenza tra i risultati in campionato e in Champions, in cui la squadra di Sarri è riuscita a strappare una qualificazione agli ottavi con un turno di anticipo, raccogliendo la maggior parte dei suoi punti nei minuti finali delle partite: mantenere alta la concentrazione in un match europeo, con altre motivazioni e meno possibilità di recuperare punti durante il percorso, è un po’ più semplice. È una tendenza opposta a quella che di solito hanno le squadre di Sarri, che si esaltano nei percorsi lunghi, perché gli automatismi che si creano permettono di superare i momenti in cui i giocatori sono meno brillanti o meno focalizzati sul presente.
Dall’inizio della stagione il ruolo della tensione nervosa ha assunto un’importanza maggiore perché quegli automatismi sono venuti a mancare. La partenza di Sergej Milinković-Savić ha portato uno squilibrio nel centrocampo della Lazio difficile da riassorbire, perché il serbo era quel tipo di giocatore che ha un impatto non solo su una parte del gioco, ma sull’intero sistema: la sua presenza – o assenza – influisce su tutti i reparti, condizionando a cascata il modo in cui la difesa riesce a impostare in fase di possesso e garantendo soluzioni offensive alternative a un gioco che troppo spesso in questa stagione si è affidato alle individualità dei singoli, mancando di quelle associazioni tra i giocatori delle catene laterali che erano il punto di forza del Napoli di Sarri, l’opera che l’allenatore toscano viene costantemente chiamato a replicare.
Al posto del centrocampista serbo sono stati acquistati due giocatori che insieme avrebbero potuto compensare la sua perdita, ma il risultato non è stato conforme alle attese – in realtà già al momento della partenza di Milinković ci si era resi conto delle difficoltà nel rimpiazzare il serbo, dopo che Loftus-Cheek, il suo possibile sostituto, era approdato al Milan. Daichi Kamada e Mattéo Guendouzi sono due giocatori molto diversi da Milinković, in qualche modo complementari tra loro ma allo stesso tempo non schierabili in campo contemporaneamente, visto che gli altri due posti del centrocampo sono occupati da Luis Alberto e da uno tra Cataldi e Nicolò Rovella – altro giocatore che ha faticato a inserirsi quest’anno, adattato a play basso anche se non è la sua posizione preferita. Guendouzi ha assorbito meglio i dettami del gioco di Sarri, anche grazie al suo dinamismo senza palla, ed è entrato in pianta stabile nell’undici titolare a scapito di Kamada, apparso spaesato in un contesto molto diverso da quello dell’Eintracht – la partita con l’Inter, in cui entrambi sono stati schierati dal primo minuto, ha certificato che anche al posto di Luis Alberto il giapponese fatica a trovare una sua dimensione. Guendouzi però non ha la stessa capacità di Milinković di catalizzare il gioco con la palla, e il compito di accentrare il gioco è ricaduto completamente sulle spalle di Luis Alberto, che sembra l’unico in grado di accendere la luce nei momenti bui di una Lazio poco ispirata.
L’incapacità di Sarri di trovare nuove soluzioni che permettano l’adattamento di tutti i nuovi giocatori della rosa deriva anche dalla mancanza di tempo per istruirli a dovere: in un contesto dai principi di gioco codificati serve tempo per allenare i movimenti alla base di meccanismi complessi, tempo che Sarri non ha avuto, considerando che il mercato della Lazio è partito in ritardo. Le lamentele sul calendario, allora, non sono soltanto frutto della paura di vedere i giocatori spremuti fino alla polpa o continuamente infortunati, ma riflettono la preoccupazione di non riuscire a svolgere il proprio lavoro con l’accuratezza necessaria, perché non c’è abbastanza tempo: «mi sveglio la mattina e non guardo più con chi giochiamo dopo 60 ore, è un delirio che non mi appartiene». In quel delirio si nasconde la sua difficoltà nello strutturare gli allenamenti in modo diverso, per stare al passo con un calcio certamente più frenetico, ma che richiede anche il coinvolgimento di più giocatori nel progetto e una maggiore elasticità nel modificare i propri metodi di lavoro. Sembra ieri che si esaltavano i droni che il suo staff utilizzava sui campi di allenamento, portati come esempio di avanguardia nella Serie A di ormai dieci anni fa, ed è strano ammettere che forse sono proprio i metodi ad essere invecchiati rapidamente, più che i principi di gioco in sé.
Le mancate garanzie di chi c’era già
Se i nuovi giocatori faticano a introdursi nei saldi principi richiesti, è anche vero che quelli che c’erano da prima non danno garanzie. Nonostante siano passati solo pochi mesi, il secondo posto della passata stagione sembra lontano anni luce, così come gli uomini che lo avevano propiziato appaiono l’ombra di sé stessi: capitan Ciro Immobile, che aveva risentito di costanti problemi fisici, non è tornato ai livelli pre-infortunio, e forse è definitivamente entrato nella parte crepuscolare della carriera; Felipe Anderson e Mattia Zaccagni non stanno performando come lo scorso anno, ed è qualcosa che in parte ci si poteva aspettare guardando alla storia del primo, o osservando le statistiche offensive della Lazio della passata stagione: in Serie A, solo la Salernitana aveva registrato un’overperformance sugli xG maggiore della Lazio (9.74), e nonostante questo è stata anche la squadra che ha segnato di meno tra le prime cinque. Anche la fase difensiva ha sofferto dello stesso appannamento, con la Lazio che lo scorso anno aveva subito soltanto 30 reti – esattamente la metà rispetto alla media della Serie A – e mantenendo la porta inviolata in 21 partite. A consolidare questi numeri aveva contribuito Ivan Provedel, che lo scorso anno si era affermato come il miglior portiere del campionato, con la percentuale più alta di xG evitati in percentuale. Quest’anno Provedel è quartultimo, registrando un -20% che non può essere spiegato soltanto da una flessione del suo rendimento, ma piuttosto dalle difficoltà della Lazio nel mantenere alto il livello della fase difensiva.
Giocare la Champions può aver contribuito ad abbassare il livello delle prestazioni individuali, con la stanchezza che si affaccia alla soglia di un’ennesima partita più facilmente: la brillantezza fisica che perde il proprio smalto, le corse per aiutare il compagno che si riducono e la lucidità mentale nel fare le scelte giuste che fa intermittenza come le luci elettriche nei film di Lynch. La Lazio di quest’anno è stata caratterizzata proprio da blackout temporanei, che hanno fatto capolino durante le partite in momenti inaspettati e estemporanei, come nella partita con l’Inter, o che hanno tenuto la squadra fuori dal gioco per lunghi tratti. È accaduto specialmente in trasferta e specialmente con squadre nella parte destra della classifica – i biancocelesti sarebbero quarti se avessero affrontato solo la parte sinistra del tabellone – e questo ci dice qualcosa non solo sulla capacità di tenere la concentrazione alta, ma anche sull’effettivo supporto che la squadra sta ricevendo in questi mesi. La qualificazione agli ottavi di Champions non è bastata a risollevare un ambiente deluso dai risultati in campionato, che negli occhi ancora aveva il secondo posto.
La piazza, come succede spesso dopo cambiamenti societari importanti, è divisa a metà tra chi crede che la direzione presa sia quella giusta e chi invece crede si sia giunti a un punto in cui si sia imboccato il bivio sbagliato. Il relativismo viene soprattutto da un disaccordo di fondo sulla composizione della rosa, che ad alcuni sembra rafforzata rispetto agli scorsi anni e ad altri invece indebolita. L’ambiguità attorno alla valutazione dei giocatori ha generato un certo scetticismo anche attorno alla figura di Sarri, che nelle ultime settimane si è lamentato della piazza e del clima depresso che si è creato nell’ambiente: «l’ambiente laziale è devastante […], creano aspettative che chi innesca sa che sono inarrivabili, e questo crea frustrazione». Sembra quasi un gioco di specchi, tra due profili che si studiano con l’obiettivo di cercare quante più differenze possibili nonostante la persona sia la stessa, una sorta di Lazio di Schrödinger di cui non si conoscerà il valore finché tutte le competizioni non saranno terminate.
Visto il modo in cui la Lazio ha overperformato lo scorso anno, è ragionevole pensare che il livello della rosa e del gioco di Sarri si attesti su un gradino inferiore rispetto ai risultati raggiunti nella stagione 2022/2023. Ma questo getterebbe ancora più dubbi sul lavoro del tecnico toscano, se sia stato bravo lo scorso anno a far rendere i propri giocatori più del previsto attraverso un gioco che ne valorizzasse le potenzialità o se il suo sistema sia stato valorizzato da quegli stessi giocatori. Sarri stesso appare spaesato, e i continui cambi di formazione di quest’anno nel tentativo di trovare una quadra descrivono abbastanza bene la confusione di un allenatore che ha fatto della graniticità delle scelte un suo marchio di fabbrica. Un undici titolare così fluido, che per altri potrebbe significare flessibilità e capacità di sfruttare appieno tutto l’organico, per Sarri accendono una spia gialla, sintomo di qualcosa che va a incepparsi in un motore altrimenti ben oliato.
C’è luce in fondo al tunnel?
Restano elementi su cui ancora poter lavorare: Luis Alberto ha accettato di diventare il leader tecnico della squadra ed è un risultato inaspettato, vista l’inclinazione che aveva preso il suo rapporto con Sarri all’inizio della sua avventura; Guendouzi sembra entusiasta del progetto, non solo con le parole rilasciate al suo arrivo a Roma, ma anche con l’importanza crescente che sta assumendo nel centrocampo laziale; Immobile e Castellanos stanno imparando a convivere assieme, accettando entrambi di condividere una staffetta. In generale, Sarri sembra avere una presa salda sulla squadra.
La confusione di questi mesi, anche se da un lato è un segnale allarmante, lascia spazio per pensare a grandi margini di miglioramento per il futuro dei nuovi giocatori ancora non perfettamente integrati come Castellanos e Rovella, che nelle ultime partite hanno guadagnato minutaggio e possono portare soluzioni tattiche nuove a un Sarri che, al di là del dogmatismo sui principi di gioco, è molto più pragmatico di quanto la narrazione su di lui faccia intendere, quantomeno sugli accorgimenti tattici – la Lazio della passata stagione ha abbandonato quasi del tutto i marchi di fabbrica del “sarrismo” napoletano, ricercando molto spesso la profondità attraverso le vie centrali.
Il miglioramento però passerà anche per la cura di quegli aspetti che negli anni sono stati croce e delizia delle squadre di Sarri: la capacità di coinvolgere gli uomini tecnicamente più validi nel progetto – molto passerà da quanto Kamada riuscirà a inserirsi nei prossimi mesi – e la necessità di lasciare indietro qualcuno – per riuscire a capire meglio dove può arrivare questa squadra e avere una base più solida da cui ripartire.
Serve che quella figura grigia torni a compattarsi dietro i malumori, le lamentele e l’insoddisfazione che nel corso della carriera ha utilizzato come propulsore per darsi la spinta nei momenti difficili, e che invece ultimamente ha subito come un impiegato usurato lentamente dalle ore di ufficio, in attesa soltanto di andarsene in pensione. Serve che l’entusiasmo per le sfide che gli si pongono davanti torni più grande delle “rotture di hazzo” per tutto ciò che è intorno al campo. Insomma, serve che Maurizio Sarri torni a essere Maurizio Sarri.
Leggi anche: Di Walter Mazzarri, o della nostalgia