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La stirpe dei caudillos del fútbol uruguayo

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Nell’America Latina si tende a definire con il termine caudillo una persona che, dotata di grande carisma, riesce a fare un’enorme presa sulle masse, ottenendo così il potere e il controllo politico. Diversamente dal dittatore, il caudillo non possiede grandi abilità politiche né economiche, quanto piuttosto militari e carismatiche.

Nel mondo del calcio ispano-americano si è spesso associato l’epiteto di caudillo a giocatori capaci di mettere il proprio carisma ben davanti alle proprie doti tecniche, buone o carenti che fossero, e di rappresentare dei veri e propri punti di riferimento per i propri compagni di squadra e i tifosi. Il Paese che sicuramente presenta la stirpe e la tradizione più florida di questi condottieri è l’Uruguay. Questo piccolo stato dell’America meridionale, nonostante i soli tre milioni di abitanti – da sola la Toscana ne ha di più, per darvi un metro di paragone –, ha saputo scrivere alcune delle pagine più incredibili della storia del calcio, grazie anche e soprattutto ai suoi grandi leader.


Sul tetto del mondo

La tradizione viene inaugurata nel corso degli anni Venti, epoca in cui l’Uruguay si conferma come migliore selezione del Sud America e si rivela una piacevole e inattesa sorpresa anche nel contesto calcistico mondiale, grazie alla conquista di due ori olimpici e della prima edizione della Coppa Rimet. Primo grande caudillo del fútbol uruguayo è José Nasazzi.

Di ruolo difensore centrale, el Gran Mariscal non si fece mai segnalare per le proprie abilità tecniche, bensì per quelle tattiche e caratteriali. Il nativo di Montevideo era un leader assoluto in campo e nello spogliatoio, sempre pronto a guidare i compagni verso la vittoria. Le straordinarie doti fisiche, sviluppate anche grazie al mestiere di marmista che esercitava, lo rendevano un baluardo difensivo spesso insuperabile e, all’occorrenza, anche un terminale offensivo di ottimo livello, come dimostrato nel corso della Gira del Nacional in Europa del 1925.

Nasazzi guidò la sua Nazionale ai vittoriosi Giochi Olimpici del 1924 e del 1928. Al termine proprio di questi ultimi, conquistati ad Amsterdam contro i rivali rioplatensi dell’Argentina, dedicò una toccante lettera ai tifosi uruguaiani accorsi in Olanda per sostenere i propri guerrieri. Una lettera che conferì al Capitán grande rispetto e che ne confermava le doti di leadership, una lettera che è ancora oggi conservata come una reliquia nel museo del calcio di Montevideo.

Nasazzi si confermò un caudillo totale anche in occasione dei Mondiali del 1930, soprattutto nell’intervallo della finale contro l’Argentina, quando, con un discorso ai compagni che definire convincente e per certi versi intimidatorio è forse dir poco, guidò la rimonta della Celeste verso il primo titolo mondiale della storia, inaugurando la leggenda della garra charrúa, quella volontà di potenza dei calciatori uruguaiani di lasciare tutte le forze sul terreno di gioco, ma portando soprattutto il suo Paese sulla vetta più alta del planisfero calcistico.

L’eredità di Obdulio

La tradizione si confermò florida già a partire dal decennio successivo, quando il ruolo di condottiero della Celeste venne ricoperto egregiamente da Obdulio Varela.

El Negro Jefe, centrocampista difensivo e baluardo della Máquina del Peñarol, si rese protagonista in patria di numerose imprese che ne accrebbero la fama in tutto il subcontinente. Prima guidò lo sciopero dei giocatori della Primera División volto ad ottenere il professionismo in Uruguay, e successivamente divenne il fautore principale di quella che è una tra le imprese più incredibili della storia del calcio.

Nel 1950 il Brasile ospitò il primo Campionato del Mondo dopo lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale e la Seleçao, che ancora si esibiva in maglia bianca, si presentò come assoluta favorita alla vittoria finale. I brasiliani non avevano però fatto i conti la Nazionale uruguaya guidata dal neo-capitano Varela.

La Celeste aveva un gioco sicuramente meno sfavillante rispetto a quello brasiliano ma esponenzialmente più compatto ed efficace: si giocava il cosiddetto imbuto, un sistema di gioco che spingeva gli avversari a convogliare tutte le offensive verso il centro del campo, dove ad attenderle vi era come un guardiano insuperabile il caudillo Obdulio.

Quell’Uruguay sorprese i padroni di casa brasiliani nel famigerato e tanto celebrato Maracanazo, nel quale Varela si rese ancora una volta protagonista nel guidare la rimonta della Celeste dopo l’iniziale vantaggio firmato da Friaça, portandola verso il secondo titolo mondiale della propria storia.

Tra crisi d’identità e di risultati

Seguì poi, per la storia calcistica charrúa, un’epoca avara di successi in campo continentale e mondiale. Nonostante l’espandersi a macchia d’olio del fútbol nel subcontinente, con la nascita della Copa Libertadores, e l’affermarsi della grande dinastia del Peñarol dell’ecuadoriano Spencer, l’epopea di Pelé si stagliò nel panorama calcistico mondiale, mentre a livello continentale emersero nuove piacevoli realtà come quella della Bolivia di Ugarte e del Perù di Cubillas e Chumpitaz.

L’eredità di Nasazzi e Obdulio venne raccolta solo in parte dal centrocampista Nestor Tito Gonçalves, centrocampista del Peñarol dominatore del mondo. I primi successi dopo il digiuno arrivano con l’avvento degli anni Ottanta.

Prima la Celeste trionfò nel suggestivo Mundialito – competizione non ufficiale che comprendeva le Nazionali campioni del Mondo prima del 1980 – e in due edizioni della Copa América. La fascia di capitano passò sul braccio Hugo de León, baluardo difensivo di Nacional e Grêmio, due volte trionfatore della Coppa Intercontinentale.


La rinascita con Terminator

Negli anni Novanta l’Uruguay cadde nuovamente nel baratro dei pessimi risultati, mancando la qualificazione ai Mondiali del 1994 e del 1998. Gli scarsi esiti ottenuti in territorio continentale vennero in parte attenuati dall’incredibile successo nella Copa América del 1995 guidato dal genio incontrastato di Enzo Francescoli. Cosa più importante, la squadra ritrovò un proprio caudillo in grado di dirigere il gioco dalle retrovie.

Nel 1997 Paolo Montero si apprestava a giocare la prima stagione con la maglia di un top team come la Juventus, ottenendo contestualmente la fascia di capitano della Nazionale.

Paolo era un giocatore abituato a dominare incontrastato il gioco nella propria area di rigore, senza alcuna paura di incappare in falli violenti o interventi pericolosi. Sicuramente la normalità per un latino che faceva dell’istintività e della furbizia le proprie doti migliori – come rispondeva a chi sosteneva giocasse spesso in modo sconsiderato e cattivo – e che a soli 17 anni era stato paragonato a Daniel Passarella – il caudillo della storia del calcio argentino e uno dei migliori difensori della storia del Sud America – da un santone della panchina come el Flaco Menotti.

Montero si è affermato negli anni come uno dei migliori difensori del campionato italiano – il più espulso di sempre – e come leader indiscusso della Nazionale, onorata per 61 partite – di cui 41 da capitano – e guidata alla rinascita fino alla partecipazione ai Mondiali nippo-coreani del 2002.

Il connubio Lugano-Tabárez

Il nuovo fallimento del 2006, anno dei Mondiali di Germania ai quali la Celeste non presenziò, vide necessaria un’ulteriore inversione di marcia. Tra una generazione di giovani di belle speranze come Suárez e Cavani si stagliò la figura carismatica di Diego Lugano, il quarto caudillo, uno che esattamente come l’archetipo Nasazzi, era uno del Bolso, ovvero legato al Nacional de Montevideo.

Lugano si confermò un difensore di fama mondiale nel 2005, quando vinse tutto con la maglia del San Paolo, ottenendo poi dal 2007 la fascia di capitano dopo l’addio di Montero dalla Nazionale.

L’Uruguay del nuovo comandante e del ritrovato Óscar Washington Tabárez riconquistò il proprio status di grande del calcio. Prima il Mondiale in Sudafrica del 2010, quello del quarto posto finale grazie ai gol e alla stagione da sogno di Forlán, e poi il quindicesimo titolo in Copa América – record assoluto – un anno più tardi.

Un cammino che ha portato la Celeste ad affermarsi come big, confermato nel 2014 con gli ottavi ottenuti in Brasile nel Mondiale dominato dai tedeschi. Rassegna iridata complicata per il caudillo Lugano, alle prese con una lesione al ginocchio, ma che non ha di certo intaccato il ruolo da trascinatore e idolo dei tifosi.

Il capitano, proprio come fatto da Nasazzi quasi un secolo prima, si dimostrò leader anche non protagonista grazie ad una lettera dedicata agli hinchas prima del decisivo match per il passaggio del girone contro l’Italia: «Ogni Mondiale ci serve per riscoprire che noi uruguaiani assomigliamo solo a noi stessi, nel nostro destino ci sono gli sforzi e i miracoli e le nostre passioni saranno sempre le sfide. Siamo una famiglia, e che famiglia! Giochiamo tutti assieme, sappiamo che tre milioni di uruguaiani dipendono da noi, ma anche noi dipendiamo da quei tre milioni di uruguaiani, abbiamo bisogno di appoggio in ogni errore. Io chiedo a tutti gli uruguaiani di rimanere uniti, tifando per la Celeste, la cosa più importante, in questo modo saremo tre milioni di giocatori sul campo. Noi siamo nati per le cose difficili. Vi chiedo unione. Forza Uruguay». Parole semplicemente degne di un líder máximo.

L’uomo dei record

Dopo quel Mondiale si assistette al definitivo canto del cigno della carriera di Lugano, ma l’eredità del quarto caudillo era pronta ad essere raccolta da un amico fraterno, uno dei difensori più forti del secondo decennio degli anni 2000.

Diego Godín veste per la prima volta la maglia della Celeste nel 2005 a soli 19 anni, ottenendo la fascia da capitano dopo il forfait di Lugano a partire dal Mondiale brasiliano. Un piccolo passo verso quella meta di recordman di presenze con la maglia sacra della Nazionale, una meta che comprende anche il fantastico risultato di essere l’uomo ad aver indossato per più partite la fascia di capitano.

El Faraón è infatti l’uomo che ha riscritto la storia e i record della Selezione, è il prolungamento della storia secolare della garra charrúa di Nasazzi e Varela, è l’ennesimo simbolo di una stirpe di uomini amati incontestabilmente dai propri connazionali indipendentemente dalla fede calcistica, per il semplice fatto che si tratta dei guardiani della Nazionale, una fede più importante di ogni altra cosa per i tre milioni di uruguaiani.

Perché lì il calcio è visto in modo differente. Perché quando gioca la Celeste, che sia un Mondiale o un’amichevole, tutto il Paese si ferma. Perché un caudillo in Uruguay non è un semplice calciatore, ma una vera e propria divinità.

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