Di Bartolomei

Agostino Di Bartolomei, carisma e fragilità

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Maglia numero dieci, fascia al braccio, volto che non fa trasparire alcuna emozione, lunga rincorsa, bordata sotto l’incrocio, personalità da vendere. Tutto quello che era, e che è stato fino a quel maledetto giorno di maggio del 1994, Agostino Di Bartolomei, il capitano della Roma scudettata di Nils Liedholm.


Il sogno giallorosso e la gavetta a Vicenza

Una storia, quella con la Roma, che per Ago è iniziata molto presto, intorno ai tredici anni. Il piccolo Agostino aveva rifiutato un’offerta molto allettante arrivata direttamente dalla Milano rossonera, proprio per poter avere ancora la possibilità di vestire l’amata casacca giallorossa. Il ragazzino di Tor Marancia ne allettava tante di squadre, ma in cuor suo voleva solo ripercorrere le orme di idoli della storia giallorossa, quali Fuffo Bernardini e Amedeo Amadei. Un core de Roma, come Giacomino Losi, pronto quasi a morire con la maglia con il lupetto cucito addosso.

Ago è solo un giovanotto quando viene aggregato alla prima squadra assieme a Bruno Conti, futuro compagno di tante battaglie. L’allenatore è Helenio Herrera, uno che aveva vinto due Coppe dei Campioni sulla panchina dell’Inter. «Uno così non può avere solo diciassette anni», deve aver pensato il Mago, quando vide per la prima volta la calma e la sicurezza con la quale Di Bartolomei soleva condurre il gioco.

Diba ripaga la fiducia andando subito a segno nella sua seconda stagione in Serie A. Nella gara contro il Bologna, quando raccoglie un cross dalla destra con una coordinazione fuori dal normale ed una leggiadria innaturale. La palla finisce nell’angolino lontano e si insacca in rete. Il ragazzo si farà. Ha già la maglia numero dieci, mica male per un ragazzino ancora sbarbatello.

È necessaria però un po’ di sana gavetta, e allora il prestito al Vicenza, allenato da un altro mito della panchina italiana, il filosofo Scopigno. I 4 gol in 33 partite e le prestazioni sempre più convincenti lo riportano all’ombra del Colosseo.


La rivoluzione di Viola e Liedholm

La Magica è una squadra fortemente indebitata e che non vince da fin troppo tempo, l’unico Scudetto risale al 1942, da quel momento si sono avvicendate rose composte da grandi attaccanti ma mai in grado di portare il tricolore nella capitale. Ghiggia, Manfredini, Schiaffino, Da Costa, hanno tutti fallito in questo intento. Il presidente Anzalone è sulla graticola, la Roma ad un passo dal baratro, e allora subentra uno di quegli uomini con la Roma nel sangue. È il 1979 e si ha l’avvicendamento nella carica di presidente tra Gaetano Anzalone e Dino Viola.

Nils Liedholm ha appena terminato la sua esperienza sulla panchina del Milan, che lo ha portato al primo trionfo da allenatore: si è infatti appena laureato campione d’Italia. Viola decide di fare un investimento importante per dare seguito al suo desiderio di entrare prepotentemente nel cuore dei tifosi romanisti, riporta quindi nella capitale il tecnico svedese. Il Barone è stato il primo grande allenatore di Agostino Di Bartolomei. La sua prima esperienza con la Lupa era coincisa con il ritorno di Ago dal prestito al Vicenza. A soli 22 anni il giovane centrocampista era già andato a segno per ben 8 volte in campionato, migliorando il suo record l’anno seguente, è l’anno più prolifico per il giovane prodigio, che conclude la stagione con 13 marcature, di cui 10 in campionato. Al sul ritorno Liedholm ha pochi dubbi: Ago dovrà essere il capitano. Ago sarà colui che porterà la Roma al suo secondo tricolore. Ago sarà l’uomo che consacrerà lo svedese come uno dei massimi allenatori della storia della Serie A.

Di Bartolomei non delude le aspettative: segna 5 gol al ritorno in panchina del Barone, è il faro della squadra, grazie soprattutto alla sua grande personalità. Le doti tattiche e tecniche non sono per niente da sottovalutare, tra le migliori di tutto il decennio calcistico italiano. I suoi inserimenti sono letali ed efficaci come un coltello nel burro. Il suo fisico possente ne limita l’atletismo, al quale però sopperisce con la capacità balistica: i tiri di Di Bartolomei sono semplicemente dei missili terra-aria che si insaccano spesso e volentieri all’incrocio dei pali. Il punto forte della casa sono però i calci piazzati: dagli 11 metri o sulle punizioni Diba è imbarazzantemente devastante. Tende a prendere delle rincorse lunghissime e scaricare il pallone verso la porta con tutta la potenza e la rabbia che ha in corpo.

Liedholm come detto gli affida subito la fascia di capitano, grazie anche alla sua personalità ferrea e alla calma olimpica. Ago è un ragazzo schivo, poco incline al dialogo, uno di quelli che aprono bocca solo quando necessario, ma di cui ogni parola è sentenza. Basta uno sguardo per riportare tutto alla normalità, per rassicurare un compagno dopo un errore o per spronare la squadra e spingerla alla vittoria.

In questi anni arrivano i primi successi della carriera, entrambi in Coppa Italia. È il biennio 1979/1980-1980/1981, quello che vede per due volte consecutive la finale tra Roma e Torino decisa ai calci di rigore. Nella prima edizione la partita viene vinta per 3-2 – dopo i tiri dal dischetto – dai giallorossi, che possono così alzare la terza Coppa Italia della loro storia, nonostante l’errore dello stesso Di Bartolomei. L’anno seguente la finale di ritorno vede il gol su rigore di Ago, che va a pareggiare la rete di Cuttone. Bisogna quindi fare affidamento ancora alla lotteria dei rigori, con Diba che fallisce ancora il suo tentativo. Segue però l’errore di Graziani e il gol decisivo nel neo arrivato Falcão, che dà per il secondo anno di fila la Coppa alla Roma.

Ago ancora non lo sa, ma i rigori e lo stesso Graziani incideranno prepotentemente nella sua vita. Il mitico Francesco De Gregori proprio in quegli anni inciderà quella che è probabilmente la migliore canzone italiana sul mondo del calcio, ‘La leva calcistica della classe ‘68‘, nella quale canta «Nino non aver paura di sbagliare un calcio di rigore, non è da questi particolari che si giudica un giocatore». Già, De Gregori ha ragione, ma Ago ancora non lo può sapere.



Finalmente sul tetto d’Italia

In Nazionale Di Bartolomei ha inspiegabilmente il destino inverso rispetto a quello che ha nella Roma: disputa solamente otto presenze nella Nazionale Under 21, andando peraltro a segno per ben sette volte, ma nonostante questo non riuscirà mai ad essere convocato in Nazionale maggiore, restando anche fuori dalla leggendaria e vittoriosa spedizione italiana ai Mondiali di Spagna 1982.

Al ritorno da quella magica estate la Roma ha una rosa in grado di poter competere per il campionato, con un Conti in stato di grazia ed un bomber implacabile in attacco quale Roberto Pruzzo. A ciò si aggiunge l’arrivo di un giovanissimo stopper già chiamato lo Zar e anche lui campione del mondo, Pietro Vierchowod. Liedholm si inventa in quell’anno un nuovo colpo di maestria, arretrando Di Bartolomei fino al ruolo di libero, affidandogli il compito di proteggere, assieme a Vierchowod, la porta del grande Franco Tancredi. Viola decide di fare un ulteriore sforzo per portare il tricolore a Roma, sfumato l’anno precedente: arrivano quindi grandi giocatori del calibro di Maurizio Iorio, Herbert Prohaska e Aldo Maldera.

La stagione è davvero magica per la Roma e lo stesso Diba, nonostante il ruolo meno offensivo, riesce ad andare a segno per ben sette volte. Il primo gol stagionale lo sigla alla seconda giornata, quando con un rigore sotto all’incrocio al 90′ assicura la vittoria casalinga della Roma contro il Verona. Si ripete con la stessa modalità anche con il Genoa: botta di collo esterno da punizione, diretta inesorabilmente all’incrocio, senza possibilità che il portiere possa interrompere quella traiettoria beffarda.

Alla ventesima di campionato è invece il Napoli in piena zona retrocessione a fare i conti con Ago. Dopo un iniziale vantaggio dei partenopei con Ramón Díaz, il pareggio di Nela e il vantaggio giallorosso con un grandissimo gol un Carletto Ancelotti, si scatena Di Bartolomei: prima segna il 3-1 con una bordata rasoterra dai trenta metri, poi firma la doppietta personale con un altro dei suoi missili telecomandati da punizione. Pruzzo la chiude e lancia la Roma verso il paradiso dello Scudetto.

Segna solamente un gol fuori casa, nella vittoria per 2-1 contro il Pisa, sempre su calcio di punizione. Stessa sorte che riserva anche al Catanzaro. A due giornate dal termine la Roma si cuce il tricolore sul petto per più di un’ora, grazie al 2-0 che sta maturando all’Olimpico contro l’Avellino, Ago segna il raddoppio e inizia una corsa che termina quando si inginocchia davanti alla Curva Sud. Diba è appena esploso in un urlo di gioia e tensione, la sua proverbiale calma glaciale è messa da parte per un attimo, ma la Juve pareggia incredibilmente 3-3 contro l’Inter e rimanda la festa giallorossa all’8 maggio.

La Roma è ospite del Genoa e può gestire la partita, conscia di potersi permettere anche un pareggio per poter trionfare. Pruzzo segna il più classico dei gol dell’ex e consegna finalmente lo Scudetto dopo 41 anni alla Roma, nonostante il gol del pareggio di Fiorini. L’arbitro fischia tre volte e i giallorossi sono per la seconda volta nella loro storia campioni d’Italia. Di Bartolomei, Liedholm e Viola diventano dei veri e propri dei agli occhi del popolo capitolino.


Il solo accarezzato sogno europeo

La festa organizzata al Circo Massimo e presieduta da Antonello Venditti è solo il preludio della magica stagione che ogni tifoso spera di vivere. Soprattutto quando Viola regala un altro bomber a Liedholm, facendo sbarcare Ciccio Graziani a Roma. Ultimo ma non ultimo è l’acquisto di Toninho Cerezo, centrocampista brasiliano che entrerà potentemente nel cuore dei supporter romanisti. Il cammino in campionato non è però trionfale come quello precedente, la Roma si deve arrendere alla Juve del Trap. Il cammino europeo, invece, è il più magico della storia romanista. La finale si giocherà proprio all’Olimpico e la Roma di Liedholm non può fallire un’occasione così ghiotta. Vengono eliminate nell’ordine Göteborg, CSKA Sofia, Dinamo Berlino e Dundee United, contro il quale Diba segna su rigore il decisivo gol del 3-0, che manda la Roma in finale alla sua prima partecipazione europea.

La finale è come detto di scena a Roma, avversario è il Liverpool, guidato da Rush, Dalglish e dal portiere sudafricano Bruce Grobbelaar. Al 15′ la sbloccano gli inglesi con Phil Neal, mandando in un silenzio tombale l’Olimpico, ma ci pensa sempre il solito Roberto Pruzzo a pareggiare i conti, con uno stacco aereo che definire imperioso sarebbe riduttivo. La partita è tiratissima, la Roma non riesce a sfondare sfruttando la superiorità e si è costretti ad andare ai rigori. Inizia il Liverpool, Nicol spedisce in curva. Ora tocca ad Ago. Nino non aver paura di sbagliare un calcio di rigore. E Ago di paura non ne ha: bordata centrale e Roma in vantaggio, la Coppa dei Campioni è ad un passo dal finire ai giallorossi. Neal pareggia. Tocca a Bruno Conti, il sinistro di Marazico subisce la stessa sorte del tiro di Nicol e finisce alto, tutto da rifare. Souness, Righetti e Rush non sbagliano. Tocca a Graziani, e Ciccio, come nella finale di Coppa Italia dell’81, sbaglia clamorosamente. Il Liverpool ha il match point che il terzino Kennedy non fallisce, l’Olimpico cala in silenzio e la Roma cade nel baratro.


La rottura con la Roma e con l’ambiente giallorosso

Qualcosa intanto si è rotto tra Viola e Liedholm, a causa del tentativo del presidente di portare Trapattoni sulla panchina romana. Il Barone riprende quindi la strada di Milano, seguito incredibilmente dallo stesso Agostino Di Bartolomei, ritenuto inadatto al gioco dal nuovo allenatore Sven-Göran Erikkson.

Ago è quindi costretto a togliersi per sempre la maglia giallorossa, nonostante l’amore di una curva che lo celebra durante l’ultima partita che cade in concomitanza con la vittoriosa finale di Coppa Italia contro il Verona del mago Bagnoli. La Curva Sud espone uno striscione che recita: «Ti hanno tolto la Roma, ma non la tua Curva».

È il 1984 e Ago giocherà nella città della Madonnina, in un Milan in risalita dopo lo scandalo Totonero, che Liedholm dovrà faticosamente cercare di riportare al successo. Chissà cosa deve aver provato quando è sbarcato nel capoluogo lombardo, quando gli è stata affidata una maglia senza i colori giallorossi. Ma soprattutto chissà cos’ha provato il 14 ottobre 1984, durante il primo scontro diretto contro la sua ex amata. Chissà cosa deve aver provato intorno al 58′ minuto di gioco, quando si è andato a conquistare di rabbia un pallone al limite dell’area, vincendo un contrasto contro due ex compagni. E chissà cos’ha provato poco prima di scaraventare in porta quel pallone con la consueta forza, e cos’ha provato mentre esultava con tutta la rabbia in corpo. Gli hanno portato via la sua Roma, torto imperdonabile per un romano e romanista.

Il Milan vince quella partita per 2-1, ma l’attenzione si sposta tutta su Diba. L’esultanza non è passata inosservata e ha generato diverso malumore tra il pubblico di fede romanista, che come prevedibile al ritorno all’Olimpico lo accoglie con i fischi. Tutto ciò era solo impensabile qualche mese prima, quando Ago era il simbolo per antonomasia della romanità. È una partita carica di nervosismo, che il Milan sblocca grazie a Virdis. Negli ultimi minuti però avviene un contrasto duro tra lo stesso Di Bartolomei e Conti, che fa scoppiare una rissa con protagonisti Graziani e l’ex capitano giallorosso. Con questo episodio il rapporto di Ago con l’ex tifoseria si incrina del tutto, non riuscendo più a tornare ai fasti del passato.

Il finale di carriera lontano da Casa

Le stagioni al Milan non sono delle più felici per il centrocampista romano, che non ottiene alcun trofeo e raggiunge solo la finale di Coppa Italia persa contro la Sampdoria. È comunque un periodo di cambiamento tecnico e tattico: innanzitutto Ago lascia la consueta 10 per vestire la maglia numero 5; varia anche il modo di calciare i rigori, con una predilezione questa volta per una rincorsa più breve; diminuiscono anche i gol su palla inattiva, mentre aumentano esponenzialmente quelli su azione, grazie soprattutto alle abili triangolazioni orchestrate dall’attacco rossonero. Alla fine delle tre stagioni col Milan il suo bottino racchiude 14 gol in 123 presenze.

Ago ha ormai 32 anni ed è nella fase calante della sua carriera. Riesce a disputare un’ultima stagione ad alti livelli, con la maglia del Cesena, che riesce a condurre ad un ottimo nono posto in Serie A. L’atletismo è però scemato sempre di più, per questo è costretto a rinunciare all’idea di poter giocare ancora nella massima divisione. È questo il motivo che lo spinge alla Salernitana in C1, dove diventa subito l’idolo della tifoseria. Nei due anni a Salerno ottiene i gradi di capitano e conduce i campani ad una storica promozione in Serie B, 23 anni dopo l’ultima volta.


La solitudine e il drammatico finale

A questo punto Ago capisce che è giunto il momento di appendere gli scarpini al chiodo, lo fa il 3 giugno 1990, ma nonostante questo l’uomo è sempre lo stesso: imperturbabile. Il volto di Diba non fa trasparire alcuna emozione durante il giro di campo d’onore, le risposte all’interviste sono sempre le solite di un uomo schivo e umile. Un uomo per l’appunto tranquillo, dotato di leadership ed enorme carisma, un uomo di poche parole ma dal grande peso specifico. Un uomo inspiegabilmente lasciato troppo fuori dal calcio che conta.

Il suo sogno era infatti quello di allenare, iniziando dai più piccoli, per insegnare l’amore per il gioco, opportunità che gli è stato più volte negata, ed Ago inizia così a sentirsi chiuso in un buco. Il mondo del calcio gli ha voltato completamente le spalle, la situazione diventa sempre più insostenibile, fino alla mattina del 30 maggio 1994, quando Agostino non riesce più a resistere.

«Se ci fosse attenzione per il campione oggi sarebbe qui. Se ci fosse più amore per il campione oggi saresti qui». Così canterà la storica voce giallorossa Antonello Venditti nel 2007 nel brano Tradimento e Perdono. Ma di attenzione ed amore per Agostino non ce n’è, e allora si sveglia presto, prende la sua Smith&Wesson 38 special, esce in terrazzo e sente la brezza primaverile di San Marco di Castellabate. Agostino ci pensa un attimo, Nino non aver paura, e di paura decide di non averne più. Un tonfo secco, il corpo cade esanime, la pistola che fuma ancora. Agostino Di Bartolomei si è appena suicidato, sparandosi un colpo in petto.

«Ricordati di me mio capitano. Cancella la pistola dalla mano. Tradimento e perdono fanno nascere un uomo». Ed è così che è nato un uomo, uno di quelli con la lettera maiuscola, uno degli elementi più puri del mondo del calcio, un uomo schiacciato da un mondo che non era più adatto a lui.

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