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L’evoluzione del numero dieci

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Il numero dieci, figura mitologica del calcio, è riconosciuto ad ogni latitudine sportiva come l’elemento di fantasia e allo stesso tempo di destabilizzazione più potente che ci sia all’interno di un campo da gioco.

Intorno al dieci sono state intessute trame romanzesche degne delle migliori narrative letterarie, proprio perché esso incarna i vizi, le virtù e le fantasie dell’essere umano. In campo, come nella vita, il dieci danza tra gli alti e bassi della partita. Come un esperto marinaio naviga a vista e quando sceglie di regalare emozioni porta il pallone nel porto più sicuro al mondo: i suoi piedi.

Il numero dieci non può essere racchiuso in schemi o ruoli prestabiliti. Soffocarne la vena artistica è controproducente, come giudicare le pennellate di Vincent van Gogh racchiudendole in uno stile piuttosto che in un altro. Prendendo spunto dall’opera più famosa del pittore di Zundert, ‘Notte Stellata‘, che ritrae un cielo illuminato da splendidi astri in riconciliazione con l’universo, ci si può ricollegare alla simbologia che lo stesso numero dieci evoca. La perfezione e allo stesso tempo l’annullamento, rappresentando quindi un numero che contiene l’intera globalità dei principi universali.

Per gli antichi greci il dieci incarnava la perfezione, essendo somma dei primi quattro numeri, e questa idolatria antica non si discosta di molto rispetto dalle emozioni che hanno riempito i cuori degli aficionados argentini davanti ai colpi di Juan Román Riquelme o del Payaso Aimar. Racchiuso all’interno della Bombonera o del Maracanã, sotto i colpi dei piedi che pestano le tribune, il grande cuore del calcio batte e balla al tempo della fantasia, balla al tempo del Diez.


Chiedi chi era il dieci

Gli Stadio nel 1984 cantavano ‘Chiedi chi erano i Beatles‘, alludendo indubbiamente al successo senza tempo della band di Liverpool. La città che nasce sulle rive del fiume Mersey ha rappresentato fonte di ispirazione per i baronetti, che spesso ne rievocano le sonorità e i paesaggi nelle loro canzoni. La forza di un mito quindi è legata in maniera indelebile ai suoi luoghi d’origine da cui trae linfa vitale e magia allo stesso tempo.

La genesi del numero dieci trova le sue fondamenta, tutte ritmo e fantasia, in Sud America: il paradiso del puro divertimento calcistico. Precisamente in Brasile, quando i dirigenti della Seleçao commisero l’errore di inviare la lista dei convocati per il Mondiale del 1958 senza numeri assegnati. Fino ad allora il numero dieci serviva a distinguere un giocatore dall’altro, ma quando i numeri vennero assegnati in maniera totalmente causale ai giocatori brasiliani, si compì il destino di quelle due cifre mitiche: la maglia numero dieci andò alla stellina del Santos, un certo Edson Arantes do Nascimento, detto Pelé. Da quel momento in poi la storia del campione e del numero magico si intrecciano in maniera eterna, arrivando, con tutte le contaminazioni possibili, ai giorni nostri.

Tatticamente il numero dieci era stereotipato come un calciatore dotato di una visione di gioco totale, capace sia di rifinire che di affondare nel momento opportuno. Generalmente si parla di giocatori brevilinei, non molto esplosivi, con la caratteristica comune di muoversi in maniera scoordinata rispetto alla squadra.

I più romantici ricorderanno che molti miti iconici, che vanno dal Mago Valdivia a Roberto Baggio, spesso venivano sorpresi in zone poco pericolose, isolati, pronti a illuminare con passaggi estatici i compagni. Dagli anni Cinquanta in poi è facile riconoscere, nelle fucine calcistiche di tutto il mondo, la crescita di questi principi della terra di nessuno: la trequarti.

In un tipo di calcio meno dinamico, dove la staticità delle difese era considerata un must, questi uomini mitici riuscivano a trovare il loro habitat naturale, ricostruivano l’humus della loro essenza. Il calcio era basato fortemente sul concetto dell’uno contro uno, in cui una superiorità numerica era pane per il numero dieci, libero di inventare.

Da Pelè a Maradona, passando per Riquelme, Baggio, Zidane e Owen, le caratteristiche variavano lasciandone immutata la sostanza, legata indissolubilmente a quella casacca, basata sulla magia del rallentamento spazio-temporale che faceva sembrare le loro gesta magiche, degne del miglior Houdini.


Cambiare tutto per non cambiare niente

È fuori dubbio che la “ventata spagnola” del secondo decennio del Duemila ha cambiato la fisica e l’evoluzione dello sport in generale. Più precisamente, nel calcio, il Barça di Pep Guardiola, riprendendo concetti trasmessi da maestri come Cruijff e Arrigo Sacchi, ha trasformato le dinamiche della partita, rimodulando gli interi movimenti della squadra e dei singoli giocatori, compresi quelli del numero dieci.

Dinamismo e interscambiabilità sono diventate due parole d’ordine non solo in fase offensiva, ma soprattutto in fase di non possesso. Le difese sono diventate più aggressive, difendono alte, attaccano gli spazi vuoti in un valzer frenetico.

In questo tourbillon di emozioni, il numero dieci ha perso un po’ la sua zona naturale, ma cambia pelle, si trasforma mutando movimenti senza perdere la sua identità. Il nuovo dieci è un giocatore fondamentale dove serve di più, cioè nelle zone nevralgiche del campo, dove occorre mantenere il possesso, dove la palla dev’essere trasmessa dolcemente. Il numero dieci nel calcio moderno si muove tra spazi diversi, magari a metà campo, stando attento anche in fase difensiva, esplodendo sui portatori di palla, diventando utile in ogni fase del gioco.

La necessità vitale di trovare lo spazio sulla trequarti avversaria non c’è più, ci si può spostare a metà campo o direttamente sugli esterni. Il posto fisico che prima era del numero dieci, oggi, molto spesso, è occupato da grandi giocatori dinamici come Goretzka, Nainggolan e il Perrotta della prima Roma di Spalletti.

L’11 novembre del 1958, pochi mesi dopo la nascita del mito del dieci, usciva, per Feltrinelli, il Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, portando alla luce la storica frase che rappresentava la politica italiana del tempo: «Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi». Decifrandola in termini calcistici, potremmo dire che in realtà la mutazione esteriore del numero dieci è sotto gli occhi di tutti ed è doverosa, affinché l’anima del Diez resti pura, immutata, celata come uno scrigno segreto, che una volta aperto, mostri i suoi tesori più lucenti.

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