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Baruch Spinoza, il vero padre del calcio moderno

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Londra, Wembley Stadium, 20 maggio 1992: alle ore 19:15 il direttore di gara Aron Schmidhuber fischia il calcio d’inizio. Il Barcellona di Johan Cruijff non vedeva l’ora, ma ad opporsi c’era una Sampdoria stratosferica, allenata dal maestro di calcio Vujadin Boškov e piena di elementi di prim’ordine: dal duo Vialli-Mancini alle sicure mani di Gianluca Pagliuca, passando per la calma olimpica di Pietro Vierchowod e la classe sovrumana di Toninho Cerezo.

La contesa è equilibrata, le catene laterali della Samp sono – come direbbero proprio in quel di Londra – on fire, le percussioni di Attilio Lombardo impegnano molto il Barcellona per tutto il match, regolando così l’altezza del baricentro blaugrana e soprattutto le giocate di Michael Laudrup.

Le emozioni sono di conseguenza poche e si giunge ai tempi supplementari, il classico spettro dei rigori era sempre più presente nei pensieri dei calciatori, ma non in quelli di Ronald Koeman. Al 112′ viene infatti concesso un calcio di punizione dai venticinque metri ai catalani, e proprio lui, lo stopper olandese, si avvicina al punto di battuta, come al solito. Due tocchi dei compagni, poi il bolide: un destro perfetto che gonfia la rete. Otto minuti dopo il fischietto di Schmidhuber suonerà tre volte, e tale suono avrà una rilevanza mai riscontrata prima nella storia.

Cruijff vince, il calcio cambia. Per ironia della sorte cambia anche il nome di quel trofeo: non si chiamerà più Coppa dei Campioni, ma, come la conosciamo oggi, Champions League.

Cosa era accaduto di così determinante? Da Amsterdam alla Catalogna, l’impero che Johan Cruijff si era creato non era certo irrilevante. Alcuni sostengono sia stato il Carlo Magno del pallone, altri pensano fosse più simile a Ottaviano Augusto. La verità è che era semplicemente Cruijff.

Aveva mutato le fondamenta stesse del calcio, ed è grazie alla rivoluzione dell’olandese che gli azulgrana vinceranno altre quattro volte la massima competizione europea dopo la splendida serata di Londra. Il calcio, da allora, è animato da una filosofia, è anzi esso stesso, in un certo senso, filosofico.



Cogito ergo sum: Cartesio con queste tre apparentemente misere parole cercava di definire un concetto complesso come l’esistenza. Pochi anni dopo, circa ottocento chilometri a nord-est, Baruch Spinoza, un uomo olandese come Johan, si proponeva di passare il resto della sua vita ad interpretare l’etica attraverso i principi geometrici dell’innovativo matematico seicentesco. Per Spinoza filosofia è geometria, esattamente il concetto di calcio moderno.

Come nel terreno verde, così nell’etica, la percezione del giusto da un punto di vista cartesiano, ma allo stesso tempo umano, è un pensiero solo apparentemente semplice, ma in realtà molto complicato. Cruijff riesce a fare nel calcio quello che il suo connazionale Spinoza aveva intuito secoli prima.

La vita è infatti per Baruch un susseguirsi di eventi dove bisogna avere in ogni occasione l’orgoglio e la predisposizione nel conoscere sempre la diritta via, indipendentemente dalle situazioni o dagli eventi. Johan imposta il suo calcio proprio allo stesso modo, non più un esercizio camaleontico di adeguamento all’avversario ma l’applicazione di una filosofia che viene prima.

È proprio un connazionale di Spinoza, più di tre secoli dopo, il primo a “spinozare” – come direbbe Georg Hegel – nel mondo del calcio. Non importa chi sia l’avversario o le sue caratteristiche, la filosofia è sempre la stessa, ed è unica.


Sempre Londra, sempre Wembley – ma un altro Wembley –, 28 maggio 2011: questa volta il Barça è guidata da Pep Guardiola – lo storico metodista dell’equipo cruijffiano – che nella seconda finale in tre anni trova di nuovo il Manchester United. È un rematch storico della resa dei conti epocale del 2009, in cui Lionel Messi e Samuel Eto’o regalarono il treble ai tifosi catalani.

I Red Devils di Sir Alex Ferguson partono bene, con una mentalità aggressiva ed una predisposizione al pressing collettivo, ma Guardiola fa della transizione la chiave di volta del match e dopo qualche minuto esce fuori.

È il solito Xavi Hernández a illuminare, con un packing rate perfetto che consente a Pedro di sbloccare la partita. Poco dopo arriverà il pareggio di Wayne Rooney grazie a una conclusione sensazionale dell’inglese.

Nel secondo tempo tuttavia cade ogni principio di equilibrio tattico e Guardiola riassume in quarantacinque minuti un lavoro ventennale: prima Messi con un sinistro chirurgico e poi David Villa con un tiro a giro fenomenale. Tutto lungamente pensato e preparato in una geometria così coerente perché ancorata ad un pensiero che viene prima.

Si chiude così un cerchio perfetto, perché anche Guardiola, come Cruijff, sempre a Wembley e diciannove anni dopo, ha spinozato.

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