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Storia e tradizione dei numeri nel mondo del calcio

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In occasione di USA 1994, la FIFA stabilisce che, per la prima volta in una grande manifestazione calcistica, le maglie dei protagonisti in campo porteranno sulla schiena i nomi, o meglio i cognomi, degli stessi. I Baggio, Baresi, Maradona, Batistuta, Romário, Matthäus, Stoičkov fioccano sulle maglie da calcio, ma solo a far compagnia a quelli che fino ad allora hanno rappresentato lo status symbol di quei campioni, di onesti mestieranti, di semi-dilettanti, di improvvisati disperanti: i numeri.


Per parlare dell’introduzione dei numeri di maglia, i veri padroni dell’abbigliamento sportivo calcistico, esempio primordiale del rapporto tra azione e mistica, bisogna andare decisamente più a ritroso del 1994. Il merito è da attribuire a un signore nato il 19 gennaio 1878 a Kiveton, area metropolitana di Rotherham, che risponde al nome di Herbert Chapman, un modesto calciatore laureato in ingegneria, un geniale innovatore del football inglese e consequenzialmente mondiale. Ridurre il suo impatto a livello di idee e progetti partoriti al semplice aver dato, letteralmente, i numeri è ingeneroso. Chapman è stato uno dei primi ad allenare sotto ogni aspetto possibile, dalla tattica alla preparazione atletica; uno dei primi a perorare l’importanza dei riflettori per illuminare le partite in notturna, così come l’utilizzo dell’inconfondibile pallone a spicchi bianco e nero, anch’esso volto a garantire una maggiore visibilità; ed è stato anche l’ideatore del Sistema, o MW, e con esso del ruolo dello stopper, creato per sfruttare al meglio il cambiamento della regola fuorigioco da tre a due uomini – ovvero com’è adesso.

Last but not least, appunto, i numeri. Il primo match di cui si ha memoria del loro utilizzo è Arsenal-Sheffield United del 25 agosto 1928, in ordine crescente dal portiere all’ultimo degli attaccanti, da destra verso sinistra. In pratica, gran parte del legame tra specifici numeri e specifici ruoli ha origine nella disposizione di quell’Arsenal, ordinata secondo un ipotetico 2-3-5 che poi si tramuta in 3-2-2-3. Da qui l’1 al portiere, il 2 e il 3 ai difensori e il 9 alla punta centrale, solo per indicare i numeri che più fedelmente si sono ancorati ad una posizione in campo. Dall’altra parte gli ospiti presentano, con lo stesso ordine, i numeri dal 12 al 22. A guardare quella che sembra essere l’unica fotografia che abbia riportato quell’evento, il modo in cui è posto sulle maglie il numero, nero in un quadrato bianco, ricorda quello degli specialisti dell’atletica alle Olimpiadi.

Negli anni successivi, l’esperimento “matematico” è proseguito a macchia di leopardo sui campi inglesi, senza reportage ufficiali che lo segnalino, visto che il Football League Management Committee non lo sanziona in alcun modo. Nonostante questo, lo stesso organo rifiuta di regolarizzarlo nel 1934, per poi approvarlo il 5 luglio di cinque anni dopo. Ovviamente il resto del mondo non sta a guardare: assorbe la numerazione, anche se a volte non in ortodossia rispetto alla sistemazione chapmaniana. Un esempio lampante lo dà proprio agli inglesi l’Ungheria, in un’amichevole organizzata a Wembley nel 1953. La squadra di Sua Maestà, fino a quel giorno, non ha mai perso in casa con una nazionale che viene al di là della Manica. La partita termina 3-6 per i magiari, che sgretolano l’ormai obsoleto e ideologico MW avversario con una sua rivisitazione, l’MM, per cui i due trequartisti nascondono quella che dovrebbe essere la punta centrale, perché con il numero 9, Nándor Hidegkuti, rendendolo di fatto invisibile fino al momento in cui non calcia la palla verso la porta, bucata tre volte. L’Aranycsapat manipola la presunzione britannica anche grazie ai numeri, togliendo punti di riferimento, architettando una tattica basata sugli stessi, oltre alle concrete figure sul campo da calcio.

Un anno dopo, durante la Coppa del mondo di Svizzera 1954, la Grande Ungheria perde 3-2 tra mille sospetti la finale contro la Germania Ovest e chiude la sua fase di grandezza. In occasione di quello che sarà il primo Mondiale trasmesso in televisione, la FIFA allenta le strette sulla numerazione delle divise: si può scegliere dall’1 al 22 indipendentemente dal ruolo coperto, e così sarà fino al 1992. In realtà molte squadre – tra cui l’Italia – si mostrano poco intrigate dalla novità, preferendo la sistemazione tradizionale e ordinata seguita fino ad allora. Con altrettanto ordine altre, come la Svizzera e la Francia, scelgono di abbracciare il cambiamento distribuendo i numeri in maniera crescente per ruolo: 1, 2 e 3 ai portieri e su a scalare. Più in là, nelle edizioni a seguire, qualche scelta particolare non manca, come quella dell’Argentina nel 1978 e nel 1982, che numera i suoi giocatori in ordine alfabetico, di modo che il portiere, Ubaldo Fillol, indossi nel ‘78 la maglia numero 7 e nell’82 la numero 5, e soprattutto che, sempre nel 1982, Osvaldo Ardiles sfoggi da fantasista un pittoresco numero 1.


Ma se da quel giorno di agosto del 1928 numerosissimi campioni hanno vestito altrettante divise, davvero nessuno di questi è riuscito a legare in maniera lapidaria il suo nome, la sua fama, al numero dietro la schiena. Questo prima che, esattamente trent’anni dopo, «una faccia nera, un par di cosce ipertrofiche e un tronco nel quale stanno due polmoni e un cuore perfetti», nella descrizione di Gianni Brera, abbiano fatto il loro debutto mondiale con il Brasile. Faccia, cosce, tronco, polmoni e cuore sono di proprietà di un diciassettenne Pelé, e sua è anche la maglia numero 10 – assegnatagli casualmente – con cui spinge la Seleção al suo primo successo mondiale. È il momento in cui il suo volto diventa stampato su di un numero di maglia, e che numero di maglia: è la nascita del numero 10, il rotondo, magico, esoterico, numero 10. La prima decina diventa per sempre il sinonimo dell’estro calcistico.

Ma il rapporto campioni-numeri nel calcio non si limita al mainstream 10. Ce lo ha insegnato Johan Cruijff, la cui leggenda si lega indissolubilmente al numero 14. Una prima versione sull’origine della storia d’amore la fornisce il compagno di squadra all’Ajax Gerrie Mühren, diretto interessato, datandola al 30 ottobre 1970, giorno in cui lo stesso ammette nello spogliatoio di non trovare la sua casacca prima della grande sfida contro il Feyenoord di Ernst Happel da poco campione d’Europa. Johan, leader, gli cede la sua 9, ripiegando sulla prima accatastata tra quelle per le riserve, appunto la 14, con cui gioca e vince brillantemente il De Klassieker. Ma il Pelé bianco, per tornare al campione carioca e alle definizioni di Gianni Brera, la fiaba la racconta diversamente. Accenna dell’idea dell’Ajax d’introdurre per quella stagione la numerazione fissa, con lui che, infortunato dall’estate, al ritorno in squadra trova la sua ormai vecchia fiamma sulle spalle di Mühren e ripiega per il primo multiplo di 7.

Ad ogni modo, fino al 1993, l’esempio di Cruijff è solitario, rappresentando già di per sé una zebra a pois nell’irremovibile sistemazione dei numeri dall’1 all’11 del calcio di club. Poi la liberazione ha avvio: la FA decide che si può scegliere dall’1 al 99 senza alcun criterio di ruolo o titolarità. Come era successo dopo il 1939, il resto del mondo segue. Il Barocco dei numeri di maglia prende il via, per lo scontento di chi lo vede come un passo del progressivo imprigionamento del calcio nella gabbia del marketing. Certo è che da allora, vista la maggiore possibilità di scelta, sono ben più numerosi i casi di numeri iconicamente legati da un particolare interprete, a volte neanche particolarmente iconico di per sé.

Le casistiche sono disparate. Ragioni affettive, nel caso di Stephen Bywater, portiere britannico che sceglie il 43 in onore di Les Sealey, suo preparatore ai tempi delle giovanili del West Ham, diventato in pratica il suo “secondo padre” e venuto a mancare per un attacco cardiaco proprio a quarantatré anni. Simile è il discorso per Giuseppe Rossi, che con il 49 ricorda l’anno di nascita del padre venuto a mancare, e per Fabio Quagliarella, che con il suo 27 onora la memoria di Niccolò Galli, suo amico e compagno di squadra nelle giovanili della Nazionale, scomparso a soli diciassette anni. Anche Dani Alves sceglie di tributare una persona cara, per fortuna colpita da un destino più felice, quando prende in custodia dall’estate 2013 la 22 del compagno blaugrana Éric Abidal, in quel momento alle prese con un tumore al pancreas.

Motivi decisamente meno gravi, molto più goliardici, per Stefano Sensi con il 5, Fabio Gatti e Massimo Oddo con il 44 – per il secondo basta un briciolo di ragionamento in più –, Marco Fortin con il 14 e Cristo González con la 33. A volte ancora la spiegazione è dietro un omaggio, come per Daniele De Rossi, che ha stampato alle sue spalle la 16 in onore dell’irlandese Roy Keane, o per Massimo Ambrosini, David Beckham e Marco Materazzi e le loro 23, in ossequio a His Airness Michael Jordan che, per fare una parentesi extracalcistica, lo ha scelto credendo di valere metà del fratello, che ha sfoggiato appunto la 45. Numero 45 che per lungo tempo giace anche sulla schiena di Mario Balotelli, principalmente in luce di un debutto fortunato con la stessa nella prima squadra interista, gol alla Reggina e doppietta alla Juventus.

Per concludere, gli esempi di rivoluzionari, novelli Robespierre numerici che, pur consapevoli della dittatura instaurata da quel geniale inglese nativo di Kiveton, hanno tentato di abbattere la convenzione al grido di liberté, egalité, fai un po’ come vuoi te. Cristiano Lupatelli, portiere dal numero 10 di una squadra anch’essa ben poco convenzionale, il Chievo Verona dei miracoli di Luigi Delneri; Jonathan De Guzmán, che anche in questo caso nella compagine clivense – forse calamita per queste idee – decide di fare più o meno l’opposto, prendendo da centrocampista la 1. Infine, sacrilego sarebbe non parlare di Iván Zamorano, con molta probabilità il primo ed unico nella storia a giocare con un’addizione sulle spalle, il 18 preso per lasciare la 9 al neo idolo milanese Ronaldo che diventa, su clemenza della Federcalcio, un leggendario 1+8.


Se però è vero che svariati numeri di maglia si sono legati nel tempo a specifiche figure, è anche vero che spesso alcuni di questi sono stati “adottati” in toto da alcune squadre di calcio, con diversi interpreti illustri che hanno tramandato un simbolo diventato con il tempo sempre più grande. La legacy più nota in questo campo è sicuramente quella della 7 del Manchester United, passata da George Best a Éric Cantona, da Éric Cantona a David Beckham e da David Beckham a Cristiano Ronaldo, colui che poi ha reso il 7 semplicemente un elemento imprescindibile della sua immagine, probabilmente il primo, almeno nel calcio, a farne parte di un brand stellare.

Un fuoriclasse così, insomma, ha reso proprietà privata questo numero, circondandolo di aura reverenziale e consapevolezza che quasi certamente nessun’altro saprà portarlo sulle spalle meglio di lui. Così hanno fatto anche molti altri, devoti sempre o quasi ad una sola squadra per cui hanno dato tutta la carriera, meritando di mantenere quel numero per loro per sempre: Franco Baresi con la sua 6 e Paolo Maldini con la sua 3, Javier Zanetti e Giacinto Facchetti con le loro 4 e 3, Diego Armando Maradona e la sua intoccabile 10, e tantissimi altri esempi, tra cui non manca chi purtroppo si è visto ottenere un onore del genere solo dopo essersene andato prima del tempo – l’ultimo caso è quello di Davide Astori e della sua 13 ritirata da Cagliari e Fiorentina. L’Italia è il paese al mondo che maggiormente ha scelto questa forma di onorificenza, è stata applicata ventisei volte, ma i casi esteri non mancano, da coloro purtroppo legati ad Astori in un addio ancora acerbo ad altri, come Jude Bellingham, che a 19 anni ha già messo il lucchetto sulla sua 22 al Birmingham City, o Pelé, di cui si è già parlato, la cui 10 è perfettamente disponibile al Santos, ma non ai New York Cosmos. Esiste poi, in diversi club, la regola di riservare la numero 12 a qualcosa di più grande di qualsiasi leggenda, lasciandola alla propria parte più essenziale, il tifo.

La storia dei numeri di maglia nel calcio, insomma, è ormai talmente anziana e consolidata da aver reso questo apparentemente piccolo, banale dettaglio un elemento impregnato di un potere più grande, quasi taumaturgico, in un processo che l’ha portato a trasformarsi da strumento pratico a simbolo, da materia a forma. E se è chiaro che questo discorso non riguarda soltanto il football, come lo chiamava Chapman, ma anche diversi altri sport, non è invece audace ritenere che esso è stato però il più efficace nel provocarlo, perché per gli appassionati di calcio tanti, tantissimi numeri non saranno mai dei meri “oggetti” della matematica.

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