Non parlare di Roma quando si parla di Alessandro Florenzi è complicato. La sua epopea calcistica non può che fondarsi stabilmente sulla dimensione capitolina. Il perché risiede già negli esordi ammantati da un’aura fiabesca, nel peso dell’eredità di due colossi come Totti e De Rossi, nei legamenti che per la Roma ha sacrificato.
La percezione del giocatore da parte della sua piazza è stata ed è tuttora multiforme, non soltanto per le polarizzazioni che ogni calciatore è in grado di creare, specie in un contesto viscerale come Roma – in grado di gettare nel tritacarne anche i precedenti capitani –, ma anche per via della sua stessa carriera contraddistinta dalle diverse fasi che hanno finito per disegnare mille vite, ruoli e significati attorno al ragazzo di Vitinia.
Alessandro da Vitinia
La genuinità, l’assenza di sofisticherie di sorta, la percezione pulita di bravo ragazzo che rinveniamo nel Florenzi adulto è il riflesso di un quadretto familiare sereno, imbevuto della premura amorevole di papà Luigi e mamma Luciana. Un atteggiamento benevolo che traspare dai racconti e dai gesti di Alessandro. Se “Gigi”, con un passato da calciatore nella Fortitudo, sarà così centrale nel percorso calcistico del ragazzo tanto da meritare un’esultanza dedicata con dito sotto al naso a evocare un paterno paio di baffi, l’immagine che lo stesso Florenzi ci dà di sua madre è straordinariamente tenera nella sua popolarità: lei davanti a tre borse da calcio – il fratello di Alessandro giocava per l’Atletico Acilia – da preparare e disfare ciclicamente.
I genitori gestiscono il bar del centro sportivo dell’Atletico Acilia ed è qui che Alessandro muove i primi passi sul campo da calcio, scommettendo dapprima le liquirizie con i suoi amici – «tanto comunque andava ci pensavano mamma e papà ad offrirle a tutti» –, arruolandosi poi tra le fila dell’Atletico Acilia e successivamente seguendo l’illustrissimo precedente di Francesco Totti, per arrivare cioè alla Lodigiani all’età di nove anni, appena prima di approdare nella galassia Roma, la sua squadra del cuore.
Da raccattapalle, qualche domenica vede i suoi beniamini correre lì vicino a pochi metri, insieme al padre cede a dolci suggestioni, vagheggiando di un giorno in cui la palla a Totti potrà passarla con i piedi e non con le mani. Negli Allievi, da ala, finisce per indossare la numero dieci, un aspetto che rivela un estro – confessato nel suo “Draw My Life” su YouTube – che affonda le radici nella predisposizione dall’infanzia alla fantasia e al dribbling, con i tentativi di replicare i numeri dei campioni ammirati in televisione. Diventerà un altro tipo di calciatore, di sicuro non un funambolo o uno specialista nel puntare l’uomo sullo stretto, tuttavia determinati colpi forse mai abbastanza celebrati del suo repertorio rimarranno tutto sommato coerenti con questa natura.
Florenzi, il prospetto
Il suo allenatore di allora, Andrea Stramaccioni, lo abbassa ben presto in un ruolo ritenuto maggiormente idoneo per le sue più spiccate caratteristiche tecniche e fisiche: eccezionali capacità aerobiche con abnegazione fuori dal comune, discreta visione di gioco e buona scelta dei tempi. In effetti, rimarrà in mediana per tutto il suo trascorso nel settore giovanile e anche nella Primavera di Alberto De Rossi. Da capitano vincerà il Campionato Primavera 2010/2011, guidando al successo una squadra infarcita di talenti di vario spessore – tra gli altri Antei, Barba, Ciciretti, Viviani, Verre, Caprari, Politano – mostrando tutta la sua caparbietà e anche un certo senso del gusto balistico – in tutto saranno 15 le marcature in stagione –, da saggiare poi su palcoscenici di rilievo maggiore.
In una stagione così lieta c’è tempo anche per l’esordio tra i professionisti in una singolare partita contro la Sampdoria, subentrando a Francesco Totti. La Sampdoria, dopo una stagione iniziata con i preliminari di Champions League, terminava con un’avvilente retrocessione in Serie B. La stessa serie cadetta che, nella stagione successiva, avrebbe offerto ad Alessandro Florenzi l’occasione di “farsi le ossa”.
Arriva a Crotone e all’esordio ufficiale è schierato subito titolare da mister Menichini, ma da terzino destro. Come racconta al Corriere dello Sport: «Sai che c’è? Al mister mancava uno da schierare lì. Mi ha detto “te la senti”? Non ci ho pensato su, “se vuole gioco anche in porta, mi dia quella maglia da titolare”, ho detto a Menichini. Due partite da terzino destro, poi sono tornato nel mio ruolo e ho anche fatto gol. E poi la convocazione di Ferrara». Infatti, finisce anche nel giro della Nazionale Under-21, ai suoi stessi occhi un risultato ottenuto grazie alla scelta di andare in prestito a Crotone per giocare tante partite ufficiali – un percorso diverso da quello dei suoi compagni Viviani e Caprari, talvolta adoperati da Luis Enrique in prima squadra alla Roma.
Negli 11 gol che Florenzi segna in Serie B – gli varranno la nomina di miglior giovane della cadetteria a fine stagione – abbiamo già un trailer perfetto del Florenzi maturo che calcherà gli stadi di Serie A: la grande qualità nell’inserimento, le rasoiate da fuori e due piccoli gioielli – una punizione contro il Grosseto e una sforbiciata di gran classe contro l’Albinoleffe. Tornerà alla base un calciatore pronto ad un salto di categoria privo del limite dell’estemporaneità.
Florenzi, il figliol prodigo
Voluto fortemente da Zdeněk Zeman nel ritiro con la prima squadra, viene riportato a casa da Walter Sabatini mediante l’esercizio di un controriscatto, Alessandro sembra essere effettivamente più che congeniale all’idea di calcio dell’allenatore boemo. In particolare, con il ruolo di vertice basso coperto teoricamente da un calciatore dello spessore di Daniele De Rossi, il ruolo di mezzala sembra perfetto per valorizzarne le qualità.
Nella prima partita contro il Catania perde il ballottaggio con Michael Bradley per una maglia da titolare, nella seconda contro l’Inter invece scende in campo dal primo minuto, complice l’assenza dello statunitense, al fianco di De Rossi e Tachtsidīs. Sulla panchina avversaria siede proprio Andrea Stramaccioni, l’allenatore che ebbe l’intuizione di renderlo un centrocampista.
Francesco Totti, che compone il tridente d’attacco con Daniel Osvaldo e Mattia Destro, spazia nel centro-sinistra e proprio dalla fascia pennella un traversone per la testa di Florenzi, autore di un’incursione senza palla non assorbita dai difendenti nerazzurri, valida per il gol dello 0-1. La partita finirà 1-3 con la Roma che sbancherà San Siro e con Alessandro che sfiorerà la doppietta sprecando una grande occasione a tu per tu con Luca Castellazzi. Poco importa, dal momento che aveva appena realizzato la suggestione del giovane raccattapalle di pochi anni prima, sebbene con una clamorosa inversione di ruoli: era stato Totti a dargli il pallone con i piedi, alla Scala del calcio. L’abbraccio del numero 48 al Capitano lascia parlare l’incredulità del tifoso, il sogno realizzato, la gratitudine nei confronti degli eventi. Zeman a fine partita lo definirà «un giocatore pronto», ovviamente sottolineandone anche i margini di miglioramento.
La disponibilità al sacrificio di Florenzi diviene una prerogativa tipica del ragazzo e per chi lo ha seguito particolarmente nelle sue prime stagioni in A è difficile non avere sedimentato nel proprio immaginario il suo viso affannato, le guance paonazze e i capelli arruffati, il fisico stremato da uno sforzo agonistico eseguito senza riserve, con i limiti di un’acerba e insufficiente gestione della propria autonomia. Sono particolari che restano nella mente del tifoso che chiede, a garanzia della tutela del proprio sentimento, la maglia sudata, il frutto di una tenacia gladiatoria che non può che essere apprezzata anche da un allenatore – specie se quell’allenatore è Zeman.
All’Inter segnerà ancora, in semifinale di Coppa Italia, e finirà la stagione con 4 reti – dei quali 3 grazie a colpi di testa, che su un fisico di 173 centimetri denotano un’ottima lettura dei tempi di inserimento – su 39 presenze, «un giocatore affidabile». Nel frattempo il progetto di Zeman era naufragato, e i resti della squadra agonizzante furono affidati ad Aurelio Andreazzoli, che da traghettatore affronterà il ciclone del 26 maggio 2013, la finale di Coppa Italia persa contro la Lazio.
Dalle ceneri del primo biennio di proprietà statunitense rinascerà la Roma più competitiva del decennio, nella costituzione della quale Florenzi rivestirà un ruolo centrale. Nel frattempo, giocherà anche l’Europeo Under-21 in Israele, dove la selezione azzurra viene sconfitta dalla Spagna all’ultimo atto.
Florenzi, il valore aggiunto
Alessandro esce indenne dalla rivoluzione che nell’estate successiva, a Trigoria, cambia tantissimi volti. È la prima Roma di Rudi García, carismatico tecnico francese che infiamma la piazza mediante dichiarazioni divenute oggetto di culto – prima di quelle che divennero oggetto di scherno – e sfoggio di sincera passione, artefice di un inizio record da dieci vittorie consecutive. Una squadra reattiva, con grande movimento senza palla, una coppia di centrali complementari e in stato di grazia, un giovane e prepotente Kevin Strootman in versione “lavatrice” a completare un terzetto niente male con calciatori del calibro di Miralem Pjanić e Daniele De Rossi, l’imprendibile Gervinho fatto di vento, il sempiterno Capitano.
Florenzi in questa stagione si riappropria di due tratti identitari primordiali: il numero di maglia 24 – la data di fidanzamento con Ilenia, sua attuale moglie – e il ruolo di esterno d’attacco. Un piccolo prodigio sportivo trasforma in pochi mesi una compagine che usciva dal precedente campionato 2012/2013 con 56 gol al passivo nella miglior difesa delle prime dieci partite, malgrado un ambiente mediatico definibile eufemisticamente infuocato e l’umore dei tifosi ai minimi storici. Una solidità alla quale a queste latitudini, dopo due anni spesi ad inseguire utopie calcistiche, di certo non si era abituati.
Sebbene gli artefici di questa roboante partenza siano stati una consistente gamma di uomini, appare legittimo rivendicare il valore di Alessandro nel suo ruolo di garante della sostenibilità dello schieramento, una sorta di depositario degli equilibri del macchinario di García.
Ben presto, la formazione tipo del tecnico transalpino non contemplerà la presenza di un vero e proprio centravanti che potesse riempire l’area o allungare la linea difensiva avversaria. In condizioni di disponibilità del numero dieci, è Totti a ricoprire il ruolo di falso nueve e creare gli spazi per gli attacchi alla profondità della freccia ivoriana e soprattutto del jolly ex-Crotone.
In fase di possesso, il suo ruolo è quello di un vero e proprio esterno incursore, attaccante ombra abile nello smarcamento senza palla. La duttilità e la facilità di corsa del tuttofare romano permettono inoltre un comodo scivolamento tattico all’indietro, a dare manforte ai tre di centrocampo in fase di non possesso, nonché una repentina proiezione verso il centro del campo, a spianare le praterie alla poderosa conduzione palla al piede di un Maicon nel pieno di un’ennesima nuova giovinezza.
Con gli avversari in possesso, i giallorossi formavano una sorta di 4-1-4-1, con De Rossi fondamentale nello sdoppiarsi nel ruolo di play e di difensore aggiunto, pronto a riempire la zona in mezzo a Medhi Benatia e Leandro Castán. Questa disposizione difensiva concedeva comunque al velocista ex-Arsenal qualche licenza congrua alla sua anarchia tecnico-tattica, così che non sempre egli dovesse retrocedere all’altezza delle mezzali. Proprio la capacità di dare equilibrio di Florenzi sull’altro lato allora si rivelava cruciale per tollerare la presenza di un terminale offensivo come Gervinho, riferimento vitale per le transizioni, spina continua nel fianco di qualsiasi retroguardia avversaria.
Vedendo le partite di quel tridente e constatando l’impatto delle assenze in questo stesso trio, si apprezza quanto il potenziale di quell’attacco fosse espresso pienamente in presenza di entrambi gli esterni in questione – gli unici in rosa così efficaci nell’attacco dello spazio – nonché la necessità di un calciatore unico come Totti a innescarli in maniera sublime.
Il tema dell’esterno così abile a tagliare dentro e il problema dell’uscita sul vertice alto del rombo di centrocampo è stato per molte retroguardie un rebus rimasto irrisolto. Il lavoro di Totti in questa mansione è apparso di gran lunga preferibile a interpretazioni come quelle di Pjanić o Ljajić, per mancanza della giusta misura di questi nel venire incontro o nella scelta dei tempi e cura adeguata della giocata di prima. Perciò le assenze di Gervinho e soprattutto di Totti finivano per spuntare consistentemente l’efficacia di Florenzi. A tal proposito è incredibile pensare alla connessione tra Totti e Florenzi, tecnico-tattica ma anche “cabalistica” – il Capitano gli dà il primo cambio e il primo assist, in una combo di coincidenze da copione –, ridondante e saldissima. Lo è soprattutto farlo a posteriori, consapevoli delle tante indiscrezioni fluttuanti nell’etere romano riguardo le tensioni tra i due degli ultimi periodi.
Al di là dell’apporto tattico e dei suoi meriti in termini di duttilità che gli consentiranno l’impiego anche da mezzala, non è una cattiva idea raccontare in che termini Florenzi è stato il valore aggiunto della squadra parlando delle sue realizzazioni, le sue giocate vincenti e determinanti. Parafrasando Brodskij, si descrive meglio l’uomo con i suoi manufatti che con le sue confessioni.
La prima partita della Serie A 2013/2014 è la trasferta a Livorno. La Roma non vince da sei anni la prima di campionato, e Florenzi è schierato nel tridente con Totti e Marco Borriello – Gervinho non era ancora al meglio. La prima ora di gioco, malgrado un Totti in grande spolvero, non vede ancora sbloccarsi il risultato. All’ingresso di Gervinho al posto di Borriello e l’impiego di Totti in zona centrale si sussegue dopo pochi minuti l’appoggio del Capitano per la gran bordata di De Rossi da fuori area che fa 0-1. Il raddoppio arriva dopo pochi giri d’orologio: lancio lungo di Castán dalle retrovie, il Livorno è allungato, Florenzi scatta sulla sinistra ma è in svantaggio rispetto all’avversario. Il pallone rimbalza al limite dell’area di rigore, quando tocca terra il numero 24 della Roma è ancora dietro il suo marcatore ma appare già più lanciato, in una maniera che ci fa predire che possa arrivare in anticipo. La sfera non rimbalza una seconda volta sul prato del Picchi. Alessandro è defilato, calcia in corsa di prima intenzione a mezz’aria, incrociando con il sinistro sul secondo palo, tenendo bassa la conclusione. È un gol di ottima fattura che rende smaccatamente manifesto l’innato fiuto nel buttarsi dietro la linea, con la falcata ad alta frequenza che brucia il difensore e la testardaggine nell’inseguire un pallone che sembra buttato pur senza avere i centimetri per fare la guerra.
Non ci ricorda però solo la capacità di incursioni intelligenti del ragazzo: ci fa anche cominciare a drizzare le antenne in ottica di una certa sensibilità nella scelta delle soluzioni per quanto questa non arriverà mai ai livelli di un finalizzatore spietato. Il gesto tecnico in questo caso viene effettuato semplicemente nella maniera più utile in cui doveva essere eseguito, senza contorni pirotecnici, di certo senza il clamore del sinistro al volo di Totti a Marassi nel 2006, senza nemmeno un impatto pieno e pulito che avrebbe rischiato di far finire il pallone in curva ma con una predilezione per la sostanza che alla sua età percepiamo lodevole.
La marcatura successiva arriva alla terza giornata al Tardini e presenta alcune analogie con la realizzazione precedente. Il Parma è passato in vantaggio contro una difesa che non subirà gol nelle successive otto partite. A inizio secondo tempo, il Nostro riceve uno splendido passaggio confezionato come pallonetto dalla delicata rifinitura di Miralem Pjanić. È senza marcatura, colpisce ancora una volta la palla a mezz’aria, ancora dopo un solo rimbalzo. Stavolta però è nella sua posizione da esterno destro. Calcia con il destro, la conclusione è molto più violenta, l’impatto con il collo del piede è maggiore. Il tiro che ne esce fuori è più teso e più potente, parte un vero proiettile e Antonio Mirante resta immobile con il pallone che si insacca sul primo palo dopo una rapida parabola. È un altro gran gol, con la forza trasmessa al pallone che ci restituisce un maggior senso di appagamento del precedente che probabilmente resta comunque più complicato. Il giovane mostra di poter attingere da un repertorio niente male di soluzioni di calcio, sempre tradotte in concreto con impeccabile elasticità.
Il primo gol stagionale all’Olimpico è la rete che apre le danze del pokerissimo rifilato al Bologna, una respinta su una punizione da fuori di Pjanić su cui è il più rapido di tutti a ribadire in porta. Nel primo gol di Gervinho, nella stessa gara, ha il merito di lavorare un pallone che si guadagna su un attacco alla profondità sfidando in velocità Diego Laxalt, prima di appoggiarlo a Totti che andrà dall’ivoriano. I suoi gol, il suo contributo alla squadra, sono costantemente il riflesso stereotipato delle sue caratteristiche: l’inserimento, il tempismo, un certo occhio per la più funzionale opportunità balistica.
Quest’ultima qualità viene ribadita nella partita successiva, nella prova di maturità a San Siro contro l’Inter. Dopo la doppietta di un ispiratissimo Totti, lo stesso Capitano sul finire della prima frazione di gioco addomestica un pallone recuperato da una situazione di corner dell’Inter, ai limiti dell’area di rigore romanista. Lo fa in una maniera oltraggiosamente elegante, tramite un palleggio col corpo rivolto verso la propria porta, poi una rapida giravolta ad innescare con un delizioso tocco di esterno piede la corsa di Strootman che asfalta il tragitto box-to-box per poi consentire al numero 24 di presentare un’altra specialità della casa: la rasoiata dal limite dell’area di rigore, a chiudere le marcature della settima vittoria consecutiva.
Nella gara successiva alla brutta sconfitta esterna contro la Juventus, la Roma affronta il Genoa in casa. È il giorno di uno dei gol più belli di Alessandro Florenzi, quelli in cui la straordinarietà dell’evento rompe l’ordinario loop di un fantastico gregario, di un inesauribile moto perpetuo e di un instancabile equilibratore.
La difesa rossoblù è alle prese con la gestione di una violenta punizione di Totti, respinta in due tempi – a metà dei quali Florenzi parte verso la porta, con il suo solito tempismo, sperando che il pallone arrivi nella sua zona – ed è costretta ad alzare un piccolo campanile in area di rigore. Alessandro nel frattempo torna indietro e si approccia a questa palla già spalle alla porta. Senza pensare troppo la colpisce nell’unico modo possibile: la rovesciata, incrociando con il destro verso il secondo palo e trovando una diagonale perfetta.
Ancora, l’ideale modalità di impatto, per una sensibilità balistica non banale. Quando il mondo smette di essere sottosopra, post-atterraggio, è tempo per l’incredulità. Urla, portando le mani tra i capelli, sorpreso quanto noi, spettatori che nell’occasione di gol eccezionali come questo restiamo nell’eterno limbo tra il progressivo grado di comprensione dei contorni del prodigio in atto, l’aspettativa sul suo compimento e l’attesa mozzafiato dell’esito.
L’ultimo gol di Florenzi in questa stagione è a fine marzo, in una gara interna assai combattuta, contro il Torino, fissata sul risultato di 1-1 grazie ad una bellissima realizzazione di Ciro Immobile. Il climax della gara si risolve nel finale di partita, quell’intervallo temporale in cui la giocata è per forza di cose maggiormente candidata a diventare epica. Alessandro riceve palla da Gervinho, è un pochino defilato, nel centro-sinistra dell’area di rigore, laterale rispetto al prolungamento dell’area piccola. Controlla sullo stretto, lascia partire il mancino e insacca incrociando. L’impatto con la palla non fa gridare al miracolo, non sembra nulla di speciale. È un gol che appare naturale e facile nella sua naturalezza. La sua non banalità ha ragion d’essere a partire dal primo tocco, accompagnato da un piccolo cambio di passo che pone i presupposti per una finalizzazione repentina che possa sorprendere retroguardia e portiere.
Alessandro Florenzi, il controllo dei tempi ancor più della purezza di un gesto tecnico gli permetterà di accumulare a fine stagione 6 gol e 6 assist. In mezzo, tanto movimento e tanta quantità, le fondamenta di una struttura solida. Quella Roma terminerà il campionato con 85 punti, record nella storia del club, che sarebbero potuti essere di più se la squadra non avesse mollato, con la tensione a stare sul pezzo cancellata dalla distanza in crescendo dalla Juventus di Antonio Conte, poi Campione d’Italia con 102 punti.
Florenzi, il jolly
Nell’annata successiva, l’ottimo avvio di campionato della Roma si infrange contro due sconfitte pesantissime per le ambizioni dei capitolini: la caduta per mano della Juventus di Massimiliano Allegri a Torino – 3-2 infiammato di polemiche che condurranno il tecnico Rudi García ad avventati proclami al termine della partita, già impreziosita dalla sua esibizione nella celebre protesta del violino – e la derrota casalinga contro il Bayern Monaco per 1-7 in un Olimpico gremito.
Florenzi è escluso dall’undici iniziale nell’esordio stagionale con la Fiorentina, gioca però titolare a Empoli e contro il Cagliari, nel match che lo consacra alla tifoseria – grazie al telecronista Carlo Zampa – come ‘bello de nonna‘. Riceve in area leggermente defilato grazie a un rimpallo fortunato e calcia basso e teso, da pochi metri dalla porta, raddoppiando il risultato. Scappa tra gli spalti e ci regala un gesto perfettamente congruo con l’idea che ci andiamo costruendo di Alessandro, quella di un ragazzo irrimediabilmente buono, che con un’esultanza definita da lui stesso istintiva si fionda tra le braccia di nonna Aurora in quell’occasione per la prima volta allo stadio. Un personaggio fondamentalmente positivo, che lascia entrare la tenerezza nel rigido copione dell’atleta sul campo da calcio.
Giocherà da subentrato sia la successiva partita contro il Parma che quella contro il Verona dove ha il merito fondamentale di sbloccare una gara contro una formazione ben coperta. Entra in campo al posto di Totti, a rubargli secondo una piccola provocazione del fato tabellino e onori proprio nel giorno del compleanno del Capitano. Nemmeno dieci minuti dopo, infatti, un consueto Nainggolan-contro-tutti si risolve in una seconda palla vagante sulla trequarti sinistra, sulla quale il numero 24 si avventa già in coordinazione, per un impatto che risulta immediato.
In questa stagione arriva una nuova svolta per la carriera di Florenzi. Le scarse garanzie fisiche di Maicon e l’infortunio di Torosidīs inducono García a schierarlo terzino destro. La sua facilità di corsa e le sue qualità organiche si confanno al ruolo – specie in una squadra reattiva come quella del tecnico transalpino –, nonché la sua capacità di effettuare cross tesi e pericolosi. Gioca in questo ruolo da titolare nel pareggio 2-2 contro il Sassuolo, a dicembre, con la Roma che sotto di due gol all’intervallo e in inferiorità numerica dal 50’, acciuffa un pareggio in extremis con una doppietta di Ljajić. Una sovrapposizione di Alessandro al novantesimo permette il cross dentro l’area, con il fantasista serbo che insacca a porta spalancata.
È nell’ultima parte di campionato, invece, che c’è spazio per due gol particolarmente apprezzabili del Florenzi terzino, e il primo di questi arriva proprio nella gara di ritorno contro il Sassuolo. Con il vantaggio già acquisito grazie a un gol di Doumbia, Florenzi riceve molto ampio, più o meno all’altezza della trequarti destra, con Gervinho ancora più largo quasi a calpestare la linea del fallo laterale. Nonostante la soluzione vicina, sembra voler andare al cross dentro. Il tocco precedente aveva fatto un po’ allungare la palla che sta gestendo, lasciando intendere che davvero si libererà della sfera con una giocata lunga, dato l’avversario in pressione su un pallone non proprio incollato al piede dell’esterno romano e dunque i presupposti per una situazione relativamente rischiosa, miccia di una possibile ripartenza. Invece con personalità finta il cross, manda a vuoto il marcatore e si prende il centro del campo con l’interno piede facendo schizzare il pallone per aria. Adesso gioca a palla scoperta, a testa alta valuta il da farsi mentre conduce accentrandosi verso l’area, arriva al cospetto di Brighi al vertice e si mette in proprio. Cambia postura, con un solo tocco d’esterno destro e un fulmineo cambio di passo, va via in velocità all’avversario guadagnando il lato corto dell’area di rigore. Un’altra caratteristica di Alessandro è messa in risalto da quest’azione, cioè quella di toccare il pallone non più del necessario, sfruttando soprattutto i tempi per eludere gli interventi avversari. Dopo aver saltato il difensore neroverde lanciandosi il pallone in avanti verso destra, adatta la frequenza del passo a quella per il tiro, abbandona la fidata rasoiata in favore di una finalizzazione ancora più scenica e potente ma altrettanto efficace, lasciando immediatamente partire un discreto bolide a incrociare nel sette del secondo palo.
L’altro gol in questione è quello contro il Genoa, alla trentaquattresima giornata di un campionato già vinto dalla Juventus ma che ha ancora da esprimere i suoi verdetti sulla lotta per l’accesso alla successiva Champions League. Doumbia sblocca la partita, la Roma ha altre occasioni per incrementare il vantaggio ma da metà ripresa è il Genoa di Gian Piero Gasperini che fa la gara.
All’ultimo minuto il Grifone è sulla trequarti offensiva, Iago Falque nasconde il pallone all’agonismo di Nainggolan, e scarica su Tino Costa distante pochi passi, libero di ricevere. Ma appena prima della trasmissione di palla dello spagnolo, Florenzi si sgancia dal limite dell’area di rigore, forse intenzionato a raddoppiare la pressione sul portatore insieme al solo Nainggolan. Costa si sente aggredito e controlla male, cerca di addomesticare il pallone con un tocco leggero che non lo faccia finire esposto all’aggressione romanista ma lo stop si rivela addirittura inconsistente, il pallone scivola alla sinistra del centrocampista genoano che a quel punto deve rincorrere la sfera. È troppo tardi: Florenzi fiuta l’occasione, cambia immediatamente passo e direzione e si avventa sull’avversario, saccheggiandolo con un intervento pulito e un tocco che lo lancia immediatamente nella prateria dell’Olimpico.
Siamo a Roma, è una caldissima domenica di maggio, sono circa le 14.15 e Alessandro ha già 93 minuti del suo solito moto perpetuo nelle gambe. Come racconterà, sente la gente che lo spinge a correre più veloce di tutti e si cimenta in un portentoso coast-to-coast di almeno sessanta metri in cui è irraggiungibile per chiunque. È accompagnato da Gervinho, che costringe De Maio a badare a entrambi in attesa di un recupero dei suoi compagni di squadra che non arriverà in tempo utile. Il tempo e lo spazio per l’assistenza all’ivoriano sfumano e le intenzioni del numero 24 cominciano a palesarsi nonostante i precedenti sguardi al movimento della Freccia Nera. Cambia la falcata, inizia a preparare palesemente la conclusione già appena entrato in area, con il centrale italo-francese che legge il proposito di guerra e prova l’intervento in scivolata. Parte una fucilata che si stampa sul fondo della rete, trafiggendo sul primo palo l’amico Mattia Perin.
Il fine partita ci regala un grande momento di romanismo con un lungo abbraccio tra Capitan Futuro e Capitan Futurissimo, a festeggiare tre punti fondamentali per la lotta Champions che sarà archiviata alla penultima giornata sconfiggendo i dirimpettai biancocelesti, competitor della contesa per l’Europa.
La Roma si prepara alla stagione successiva riconfermando Rudi García al timone e confezionando una campagna acquisti di assoluto spessore – Szczęsny, Digne, Rüdiger, Iago Falque, Salah, Džeko – che appare una dichiarazione di intenti, con un centrocampo già fortissimo. Da battere c’è la Juventus finalista di Champions, che però ha perso tre elementi fondamentali del gruppo quali Tévez, Vidal e Pirlo. A fine anno arriverà a +11 sui capitolini nonostante un avvio di stagione complicato.
I giallorossi iniziano a Verona contro l’Hellas con un esordio carico di pressioni e interesse. García schiera Džeko con i due velocisti Gervinho e Salah, ma a salvare la Roma, addirittura in svantaggio dopo il gol di Boško Janković, è proprio Alessandro Florenzi. Il lavoro di Iago permette il recupero palla di Nainggolan che serve Džeko. Il bosniaco appoggia al numero 24 che indisturbato controlla, la ritocca velocemente con l’esterno destro per la conclusione e calcia verso la porta di Rafael, una staffilata secca delle sue su cui il portiere di casa non è incolpevole. Nel post partita il tecnico transalpino prevede che poche squadre faranno punti su questo campo, tuttavia il Verona finirà ultimo in classifica.
In Champions League, a settembre 2015 contro il Barcellona, si materializza un altro momento di culto della sua carriera. La Roma è da poco passata in svantaggio per mezzo di Luis Suárez. Su un giro palla offensivo blaugrana, Florenzi azzecca la lettura ed esce bene in aggressione su un tentativo di imbucata sulla trequarti di Neymar. Lo slancio preso già prima del possesso lo proietta rapidissimamente – in posizione molto larga – all’altezza della linea di centrocampo. È qui che da un’istantanea occhiata verso la porta di Marc-André ter Stegen prende forma l’idea di un ambiziosissimo pallonetto dalla distanza. Accade tutto troppo velocemente ed è quasi difficile dall’esterno rendersi conto di cosa abbia spiato Florenzi con quel rapido sguardo che gli ha di colpo ridotto la falcata. La rapida palombella termina la sua folle corsa sul secondo palo per poi finire nella rete, immortalando l’incredulità del portiere tedesco, seconda solo a quella di Alessandro che si copre il volto con le mani con l’aria di chi sa di averla combinata grossa.
Se l’emotività del calcio risiede in gran parte nel momento appena precedente la rete, in cui la forza di realtà dell’evento squarcia il velo delle possibilità e la sensazione tangibile prevale sulla nostra incredulità, reti dalla distanza siderale come quella di Florenzi hanno il merito anche solo fisico di estendere la nostra illusione, la nostra preghiera, in un concetto spazio-temporale che è al tempo stesso dilazionato fino all’eterno o compresso in un moto d’animo, in cui insomma le distanze sono percorse in maniera non convenzionale e il tempo sembra davvero scorrere diversamente.
In campionato è poi determinante nelle vittorie contro Palermo – da centrocampista fa assist per il primo gol di Pjanić – e Fiorentina – da terzino destro nella gara che vale il vertice della classifica, lanciando Gervinho a campo aperto per il gol del raddoppio. Per le prime volte scende in campo con la fascia da capitano al braccio nelle due successive partite contro Udinese e Inter.
La terza stagione di García è quella in cui la sua duttilità gli fa cambiare ruolo in media ogni tre partite. Gioca uno spezzone del Derby e la trasferta in un Dall’Ara inzuppato da ala, torna terzino per le quattro successive e nell’ultima di essa segna ancora al Genoa. Da centrocampista gioca la giornata successiva contro il Chievo, a Verona, dove con un ottimo break imbastisce un’azione offensiva personale partendo a testa bassa con la sua rapidità e tornando a segnare con una classica rasoiata a incrociare. È preferito a Maicon nell’ultima partita del tecnico francese ormai da settimane in una nerissima crisi di soluzioni di gioco, lo scialbo pareggio contro il Milan a Roma.
La società giallorossa esonera quindi García e chiama al suo posto Luciano Spalletti, che risistema il centrocampo col vertice alto e legge ancora in Florenzi l’uomo in grado di dare equilibrio. Per la sua prima gara casalinga, contro l’Hellas, lo schiera ala sinistra, a compensare Salah sulla destra. Poi centrocampista contro la Juve, ala contro la Samp, terzino destro contro il Carpi, centrocampista contro il Palermo. Salta l’Empoli ed è titolare, terzino destro, nelle quattro successive.
Come l’anno precedente, la primavera si rivela ancora feconda di belle reti per Alessandro. A Udine sblocca il risultato su assist di Pjanić. Aveva attaccato forte in sovrapposizione, appena riceve l’imbucata morbida del centrocampista bosniaco è al vertice dell’area piccola. Scherza Felipe con un controllo raffinato, una sterzata volante verso la porta che manda l’avversario a vuoto, un rimbalzo sul prato e un solo altro tocco d’esterno piede ad anticipare Karnezīs e batterlo sul secondo palo.
Una splendida marcatura realizzata in appena due tocchi, con i quali riprende a manifestarsi l’estro con cui si identificava da ragazzino, progressivamente spogliato dalla sua caratteristica essenzialità. È in questo periodo che nelle progressioni palla al piede Alessandro assume spesso una posizione del corpo più adatta all’artista che al gregario, la lingua spesso fuori dalle labbra e la manina tenuta asimmetricamente alta nella corsa, aperta alla ricerca e all’ispirazione.
Da capitano segna il gol dell’1-4 in Lazio-Roma dell’aprile 2016, primo Derby con la fascia al braccio e primo gol nella stracittadina. Sugli sviluppi di un corner Patric respinge corto dopo una carambola, Florenzi calcia al volo il pallone a mezz’aria, al limite dell’area, verso il secondo palo. In un momento emotivamente così saliente, è un gol che racconta Florenzi più di quanto si possa credere. Ancora l’impatto è assai pulito, ma non è portentoso, è soprattutto efficace e sostanziale. Ben funzionale a tenerla bassa, la palla è schiacciata a terra e rimbalza un paio di volte prima di insaccarsi.
Le esultanze di Alessandro meriterebbero un capitolo a parte, nel loro essere un concentrato di orgoglio, incredulità, sincero entusiasmo. Abbraccia ancora De Rossi dalla panchina, poi è sommerso dai compagni, infine incita il pubblico. Una sequenza non lucida, istintiva, rivela che per quanto prenderà confidenza con la rete non cederà mai a quella preconfezionata e ripetitiva interpretazione di sé che vediamo inscenata dai grandi realizzatori per cui il gol è prima di tutto un mestiere. Ed è qui che risiede la sua grande capacità di farci costantemente immedesimare nelle sue vicissitudini, di renderci partecipi del concentrato emotivo che prova e che determina.
Nella stagione successiva, Alessandro è nel pieno della sua maturità, calcistica e non solo, dato l’arrivo della figlioletta Penelope – che dopo un paio di anni godrà della compagnia di Sveva, la secondogenita. La solida guida tecnica di Spalletti e la rosa ricca di qualità lasciano spazio a prospettive rosee, per il calciatore e per il collettivo. La mazzata per Ale arriva però nella trasferta contro il Sassuolo nell’ottobre del 2016, nella fase iniziale del campionato in cui lui e la sua Roma erano chiamati al salto di qualità, a giocare a carte scoperte e definire le proprie ambizioni.
Florenzi, la promessa spezzata
Troppi calciatori che subiscono infortuni così pesanti sembrano presentare, vicino alla storia della loro carriera e più analiticamente nei loro gesti tecnici e perfino nel loro passo o nel loro atteggiamento in campo, un asterisco che i tifosi della Roma sono ormai tristemente abituati a leggere. Senza alcuna controprova possibile, aleggia comunque un enorme «cosa sarebbe stato se…?» in ogni accezione di questi sfortunati atleti, specie di quelli che fanno magari della fisicità o della facilità di corsa delle caratteristiche fondamentali. Nella fattispecie di Florenzi, soprattutto l’elasticità.
Alessandro dava l’idea di essere un calciatore fatto di gomma, dotato della capacità di ripetuti disimpegni acrobatici e giocate in pose complicate. Lo spettacolare salvataggio sulla linea a Euro 2016 contro la Germania renderebbe bene l’idea della sua plasticità che emergeva in ognuna delle sue interazioni col gioco. È anche per questo che le scene dell’infortunio sono state così potenti per chi era abituato a vedere Florenzi cadere sempre in maniera elastica, quasi rimbalzando sul terreno. L’arto che si impunta, il movimento innaturale percepibile del ginocchio sinistro, la repentina presa di coscienza: «me so rotto ‘r crociato, mister» dirà a Spalletti dalla barella.
Tra il caloroso e consueto sostegno dell’ambiente e dei colleghi, spicca la vicinanza di Daniele De Rossi che si spendeva anche in notturna: «adesso a noi interessa il ragazzo, poi il calciatore». Parole ancora più necessarie nel febbraio 2017, quando lo stesso ginocchio cede di nuovo e il crociato è ancora KO, a sancire la chiusura definitiva di una stagione troppo breve, proprio nell’età in cui un calciatore è al massimo del proprio potenziale e può definire il suo status, rendendo il conto di aspettative e illusioni. Rivedremo Florenzi in campo solo per l’addio al calcio di Francesco Totti, dunque ancora in lacrime e con gli occhi gonfi.
Torna a giocare titolare nella vittoria contro l’Hellas Verona nel settembre del 2017, dove fornisce l’assist a Džeko dopo una bella giocata con cui mette a sedere il diretto marcatore rientrando sul sinistro e confeziona poi un pregevole traversone mancino sul secondo palo. In questa assistenza Florenzi ci sembra lo stesso calciatore guizzante di sempre, con i consueti spunti, ma intorno è la Roma ad essere cambiata. È il primo anno d.C. (dopo Capitano), in panchina siede Eusebio Di Francesco, e contemporaneamente inizia un lento processo di ridimensionamento e impoverimento tecnico – conseguente ai suicidi finanziari legati alla gestione Monchi – che porta alla cessione di pezzi pregiati mai adeguatamente rimpiazzati. La creatura tattica del tecnico abruzzese è una squadra ancora ottima nelle aggressioni e abile nelle transizioni rapide, che in fase di possesso prova a innescare i famosi triangoli di stampo zemaniano nel 4-3-3 con le mezzali a dare ampiezza e le ali a stringere la posizione. Ad Aleksandar Kolárov spettano i compiti principali di regia, costituendo così la fascia sinistra come “lato forte” e la fascia destra come luogo ideale per i movimenti senza palla e per un calciatore come Florenzi. Tuttavia, solo un sontuoso Alisson consente ai capitolini di incassare meno gol rispetto a quelli contemplati dalla fragilità dell’assetto e al netto della straordinaria cavalcata in Champions, la Roma di Di Francesco comincia a perdere vertiginosamente quota in campionato – pur centrando l’accesso alla massima competizione europea almeno nel primo anno.
Ad essere cambiato, di colpo, sembra anche essere il sentimento del popolo romanista nei confronti del suo virgulto. La piazza improvvisamente sembra non essere più in grado di tollerare i difetti strutturali di Florenzi – più che trovarne di nuovi –, è come se il passaggio dall’innocenza alla maturità del frutto del vivaio giallorosso avesse azzerato l’indulgenza dei tifosi nei confronti di un calciatore sempre disponibile ad adattarsi in ruoli diversi per le esigenze della squadra e con il legamento crociato del ginocchio sinistro due volte sacrificato sull’altare della causa. La lunga assenza per infortunio non ha determinato clemenza nel giudizio del pubblico, anzi, il ritorno dopo un lungo recupero sembra essere stato soprattutto un pretesto per riscoprirne i difetti.
Incappa in un rovescio della medaglia che vale per molti jolly. La sua duttilità, il marchio distintivo alla base della sua carriera, finisce per rappresentare un’arma a pericoloso doppio taglio, ingabbiandolo in un indefinibile limbo tecnico-tattico. È l’equivoco di un’ala ombra che attacca e vede bene la porta ma che non ha i numeri all’altezza dei migliori interpreti del ruolo; una mezzala ottima nell’incursione e nel dinamismo, ma strutturalmente poco fisica e con una qualità nella costruzione e nella rifinitura non di primissimo ordine; un terzino in grado di garantire puntuali sovrapposizioni ma non a suo agio nelle letture difensive, non specializzato negli uno contro uno, troppo spesso in sofferenza nelle marcature anche per via di mismatch fisici ancora una volta strutturali, con l’impossibilità sistematica di coprire adeguatamente i cross sul secondo palo provenienti dall’altra fascia. Limiti che portano nel tempo a radicare ingrate immagini di insufficienza negli occhi dei tifosi, specie nell’ottica di una struttura difensiva ballerina nel complesso.
La situazione implode a partire dal rifiutato confronto sotto una Curva Sud in contestazione al termine di un’ennesima prestazione insufficiente dei giallorossi contro la Sampdoria nel gennaio del 2018. Florenzi, che in quella gara indossava la fascia al braccio e aveva anche sbagliato un calcio di rigore, dichiara di essersi sottratto per via di una nota regola che impediva ai calciatori di presentarsi sotto ai tifosi, che però non si accontentano della spiegazione.
Comincia a serpeggiare un malcontento sempre più aspro nei confronti del numero 24, passando dalle lunghe e ponderate trattative di rinnovo che intavola l’estate successiva – all’età di Alessandro, il contratto più importante del ragazzo – interpretate come sintomatiche di venalità a delle vere e proprie contestazioni con tanto di fischi e cori – «Florenzi trenta denari» – ad personam. Un’insofferenza acuita ancora di più dal rendimento mediocre della squadra nella seconda stagione con Di Francesco in panchina, che porterà infatti all’esonero del tecnico abruzzese e al ritorno di Claudio Ranieri.
Prima del termine della stagione c’è tempo per un gol con un morbido scavino alla Juventus – per l’ennesima volta, quasi in passerella primaverile all’Olimpico – in virtuale risposta all’atteggiamento poco carino di Cristiano Ronaldo nei confronti della sua statura. Di quest’episodio colpisce la mancata reazione della squadra nei confronti di un simile sberleffo verso il proprio capitano, con il solo Pellegrini ad allontanare timidissimamente Ronaldo e il resto dei compagni, tra tutti particolarmente attivi Manōlas e Džeko, insieme ad Emre Can e Paulo Dybala, a rimettere in riga un nervosissimo e umiliato Florenzi.
Florenzi, il capitano
Dopo l’inaspettato addio di De Rossi, diventa definitivamente il capitano della squadra, e l’illusione romantica è che possa riprendersi la sua Roma. Alla prima partita della gestione di Paulo Fonseca, contro il Genoa, una parte dei tifosi gli manifesta approvazione e sostegno dedicandogli uno striscione di incoraggiamento. In una squadra che si preannuncia propositiva e orientata al dominio del gioco, le sue caratteristiche in fase di spinta sembrano destinate a rivalorizzarsi.
Tutto il contrario, invece. Un’intesa mai sbocciata con l’allenatore portoghese e una personalità obiettivamente inferiore a quella di certi compagni dei quali dovrebbe rappresentare il leader, lo relegano ancora ad un ruolo non solo di comprimario, ma di grigia comparsa. Tolta l’anima arrembante e vivace, di colpo resta solo un calciatore mesto e imperfetto, tatticamente il capro espiatorio perfetto di una squadra già di per sé vulnerabile a coprire l’ampiezza sui cambi di gioco avversari data la densità portata sul lato della palla in fase di non possesso.
Un capitano fuori dal progetto, come effettivamente poteva indurre a pensare già l’ingaggio in prestito di Davide Zappacosta. Nonostante l’infortunio di quest’ultimo, l’allenatore ex-Shakhtar gli preferisce comunque Davide Santon o Leonardo Spinazzola adattato a destra, e dopo la finestra invernale addirittura Bruno Peres di rientro dalla seconda categoria brasiliana.
Per paradosso, ha ricevuto l’onore dei massimi gradi nel momento in cui la sua popolarità nella piazza era ai minimi storici, così come la sua credibilità agli occhi dell’allenatore. La natura più profonda dell’incompatibilità tra Florenzi e Fonseca resta misteriosa – soprattutto perché in virtù del successivo cambio di modulo, da quinto il numero 24 avrebbe potuto recuperare una sua dimensione. È questo l’ennesimo dato triste di un addio avvenuto nell’indifferenza, sebbene le indiscrezioni come di consueto siano corse rapidissime, più per il gusto romano del pettegolezzo che per amore ferito, nessuno ha praticamente sentito il bisogno di approfondire davvero le ragioni di questo divorzio che spiazza proprio per la naturalezza con cui si è consumato.
In un’anonima mattinata di fine gennaio, Alessandro è volato via da Roma, filmato in aeroporto, proprio come tanti altri. Un saluto discreto invece delle consuete opulenti manifestazioni d’affetto di Roma ai suoi figli. È l’equivoco di un’eredità che sembrava dover disporre di un passaggio scontato. Dopo essersi succeduta per mano di due istituzioni come Totti e De Rossi, assumeva ora i contorni di un dovere insostenibile per le spalle strette di Florenzi, per i suoi legamenti ricostruiti due volte, farsi garante del sentimento del tifoso e della fiducia di quest’ultimo nei mezzi tecnici della squadra e dunque del capitano che la rappresentava. Ancor prima delle eventuali promesse tecniche non mantenute per cui il tuttofare che poteva ricoprire ogni ruolo era diventato insufficiente in qualsiasi zona del campo, addirittura umanamente il ragazzo generoso era diventato esoso, il personaggio genuino un ruffiano.
Dov’è che Roma non ha capito Florenzi, amandolo solo nella misura in cui egli poteva offrirle supremazia tecnica o leadership caratteriale come chi era venuto prima di lui? Quando si è rivelata disposta ad amarlo “a condizione che”, in totale controtendenza per lo spirito di un popolo che ama incondizionatamente? Dov’è invece che il ragazzo non l’ha sentita più sua, quando ha smesso di lottare? È come se la piazza, viziata da anni di magnificenza e straordinarietà, avesse di colpo perso la capacità di accettare una normalità che rimane incredula davanti alle sue punte di eccezionalità.
Questo è stato Florenzi a Roma: un buon calciatore che si è sempre meravigliato di quanto in alto potesse arrivare, in una città che aveva smesso di stupirsi della bellezza che nasce dalla forza dei suoi figli.
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