Obdulio Varela

Obdulio Varela, mitologia di una leggenda uruguaiana

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Ci sono storie che assumono importanza grazie ai personaggi che le popolano, uomini protagonisti che ingigantiscono l’alone di epicità del contesto. Altre volte la leggenda scaturisce proprio da quest’ultimo, spesso con un immancabile e inevitabile contributo della situazione politica e sociale, che spinge i protagonisti ad elevarsi a figure mitologiche e a diventare quasi delle divinità per il contorno, quel popolo per il quale questi eroi sono chiamati ad agire. Quando però le due casistiche si fondono non si ha più solo una storia o un racconto, ma si entra di diritto nella leggenda e nell’immortalità, così come vi è entrato Obdulio Varela.


Le umilissime origini e l’imposizione in Uruguay

La storia di Obdulio Jacinto Muiños Varela inizia esattamente come quella della maggior parte dei personaggi di maggior spicco della storia calcistica, nella difficile e per certi versi invivibile povertà rioplatense. Nato a Montevideo, inizia fin da bambino a vendere giornali per le strade della capitale per riuscire a guadagnare abbastanza per sopravvivere, prima di entrare nelle giovanili del Deportivo Juventud. Dopo il debutto tra i grandi e un trascorso nei Wanderers di Montevideo, approda nel club più titolato e importante del paese, il Peñarol.

Obdulio era un mediano molto intelligente dal punto di vista tattico, con spiccatissime capacità difensive e discrete doti d’impostazione, ma soprattutto era un giocatore dalla personalità sconfinata. Ha sempre incarnato perfettamente quello spirito di linearità e compattezza tattica e fisica tipico dei grandi condottieri del calcio uruguaiano, affermandosi nel corso della sua carriera come uno dei più grandi giocatori della storia sudamericana.

Il Peñarol lo attenziona e lo acquista proprio perché è grazie alla sua leadership che l’Uruguay comincia la sua rinascita calcistica, dopo i titoli olimpici del ‘24 e del ‘28 e il primo Mondiale nel 1930. Nel 1942, infatti, Obdulio porta la Celeste a vincere la Copa América – il più prestigioso trofeo dell’epoca, vista l’assenza di Olimpiadi e Mondiali, causa Seconda Guerra Mondiale.

La competizione, che si giocava proprio in Uruguay, non era organizzata come la conosciamo oggi, ma prevedeva un girone unico all’italiana con le sette migliori squadre del Sud America che si affrontavano. Nonostante dunque la possibilità di potersi permettere dei passi falsi e vincere comunque il trofeo, Obdulio e compagni trionfarono dopo aver vinto tutte le sei partite affrontate.

E i trionfi non mancano di certo con il Peñarol, con il quale conquista sei campionati uruguaiani nel corso dei suoi dodici anni in aurinegros – precisamente, i titoli arrivarono nelle annate 1944, 1945, 1949, 1951, 1953 e 1954 –, vincendo la metà delle sfide stagionali contro l’altro gigante dell’Uruguay, il Nacional.

Leader nel calcio e nella vita

La leadership di Varela non viene sfoggiata solo sul rettangolo verde. Sul finire degli anni Quaranta, infatti, è uno dei principali sindacalisti della huelga calcistica, lo sciopero dei calciatori sudamericani volto ad ottenere maggiori diritti per gli atleti e l’introduzione del professionismo. Obdulio è ovviamente leader carismatico di questo sciopero e, assieme all’asso del Nacional e rivale in campo Enrique Castro, guida circa cinquecento colleghi nella rivolta.

Per spiegare il personaggio basterebbe anche solo il soprannome che si era guadagnato negli anni: el Negro Jefe, il Capo Nero. È sempre stato l’esempio da seguire, in campo e fuori, per i compagni e per i tifosi. In altre parole, Obdulio Varela è un vero e proprio caudillo del calcio, il degno successore di un’istituzione come José Nasazzi. Ed è proprio per questo che, nonostante con questa specie di lockout cestistico non si sia di certo attirato le simpatie della Federazione, alla vigilia del Mondiale in Brasile del 1950 viene nominato capitano della Celeste. Obdulio era troppo forte e troppo importante per non essere convocato, e soprattutto a posteriori si capisce bene il perché.

Obdulio Varela



Il Mondiale del 1950 e il Maracanazo

A quel Campionato del mondo si arriva in un clima molto, ma molto strano. Innanzitutto, è la prima rassegna iridata dopo l’interruzione causata dal secondo conflitto bellico mondiale, cosa che causa l’esclusione automatica della Germania e del Giappone, ma non quella dell’Italia – forse salvata dal successivo schieramento con gli Alleati, ma anche in quanto bicampione mondiale in carica. Proprio sull’Italia vi erano le più grandi attese, ma un maledetto pomeriggio del maggio del 1949, il fato e il maltempo si sono portati via il Grande Torino, colonna portante degli Azzurri.

Con l’Italia drammaticamente fuori dai giochi, le principali candidate per la vittoria finale restano quindi le sudamericane: il Brasile della linea delantera, i cinque attaccanti capaci di segnare ad ogni azione e guidati dal fenomenale Zizinho; e proprio l’Uruguay di Obdulio Varela.

A rendere ancor più strano quel Mondiale fu la formula, non la classica ed odierna eliminazione diretta, bensì due fasi a gironi al termine delle quali la squadra con più punti viene incoronata campione. E il Brasile, per la prima ma non ultima volta nel corso del torneo e della sua storia, non riesce nel suo intento: arrivare all’ultimo match contro l’Uruguay già matematicamente campione.

La gara si trasforma per una serie di circostanze in una vera e propria finale, diventerà una delle partite più iconiche della storia di questo sport. È il Maracanazo. È il punto più alto della vita calcistica di Obdulio Varela. La pagina più importante nella storia del calcio uruguaiano, la più buia di quello brasiliano. Da una parte i verdeoro – all’epoca ancora in bianco –, forti di un punto in più in classifica che li renderebbe campioni anche con un semplice pareggio – compito ritenuto facile e scontato da tutti, per via della qualità dei suoi calciatori, come Friaça e Jair, e del vantaggio di giocare in casa. Dall’altra la Celeste, obbligata a vincere per bissare il successo del 1930 e in grado di schierare giocatori come el Mono Gambetta, Pepe Schiaffino e Ghiggia, oltre ad Obdulio Varela. A far da cornice uno splendido Maracanã gremito con oltre 200.000 spettatori.

Inizia la partita, e nonostante al Brasile basterebbe un punto, è chiaro che nessuno si accontenterà di un pareggio. Prima della gara Varela ha raccomandato ai suoi compagni di non lasciarsi distrarre dal pubblico, pronunciando alcune delle parole più iconiche della storia uruguagia: «Los de afuera son de palo», «Quelli fuori non esistono». Nonostante questo, la Celeste sembra non essere scesa in campo. Giocare davanti a quella mole di pubblico avversario non è semplice, e persino Schiaffino, l’uomo più tecnico, è solo una controfigura del grande campione del Peñarol. All’intervallo la gara è sullo 0-0, ma nei primi minuti del secondo tempo il Brasile passa in vantaggio grazie alla rete del già citato Friaça. L’Uruguay sembra non avere più idee, ma è qui che si compie il destino di Obdulio.

Il capitano dei Charrúas prende la palla, ma non la rimette subito al centro del campo. La tiene per attimi che sembrano interminabili, giusto il tempo di raffreddare l’entusiasmo carioca. Successivamente approfitta di un’incertezza avuta dal guardalinee nell’azione del gol, che aveva alzato e poi abbassato la bandierina, e protesta per un fuorigioco. Obdulio sa perfettamente che la sua protesta non avrebbe tolto il gol al Brasile, ma ogni mezzo possibile andava sfruttato per non riprendere il gioco velocemente. La terna arbitrale era inglese, e per la difficoltà nel comunicare Varela chiede un traduttore. Altro tempo che scorre. Il numero cinque della Celeste è convinto che riprendendo subito il gioco sarebbero stati spazzati via dall’entusiasmo brasiliano, mentre quando il pallone è tornato a rotolare, diversi minuti dopo il gol, i 200.000 del Maracanã erano su tutte le furie, così come i calciatori della Seleção, che innervositi dalle perdite di tempo giocheranno in maniera meno lucida, e gli uruguaiani ne approfitteranno.

L’Uruguay è completamente rinvigorito. Prima pareggia Schiaffino al 66′, poi segna a dieci minuti dalla fine Ghiggia. Il Brasile è totalmente tramortito a livello psicologico, non riesce a trovare quel gol dal sapore di gloria, e al triplice fischio l’Uruguay è campione del mondo per la seconda volta su due partecipazioni. Obdulio riceve la coppa da Jules Rimet in persona – che aveva preparato già il discorso di congratulazioni per i padroni di casa –, prima di rientrare in albergo a Rio de Janeiro.

Obdulio Varela

La serata non la passa però a festeggiare con i suoi compagni. Vedendo quanta sofferenza ha causato, è quasi amareggiato per la vittoria e per il suo contributo, e vaga per le vie cittadine nel vano tentativo di consolare i tifosi brasiliani. Una storia che restituisce l’immagine di un uomo non solo carismatico, ma anche dalla spiccata sensibilità, che viene ricordato ancora oggi con grande rispetto anche in Brasile.

Un uomo che non avrà grandi incarichi al termine della propria carriera, e che morirà in povertà nel 1996, nella sua Montevideo, capitale di quella nazione che ne ha ammirato le gesta e che non potrà mai smettere di ringraziarlo, in quanto protagonista e artefice della più grande pagina di storia del fútbol uruguayo.

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