Obdulio Varela

Obdulio Varela, el líder pobre

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Ci sono storie che assumono importanza grazie ai personaggi che le popolano, uomini protagonisti che – nel bene o nel male, con un ruolo più o meno importante – ingigantiscono l’alone di epicità del contesto. Altre volte la leggenda scaturisce proprio da quest’ultimo, spesso con un immancabile e inevitabile contributo della situazione politica e sociale, che spinge i protagonisti ad elevarsi quasi a figure mitologiche e a diventare idoli e, a seconda dell’importanza, quasi divinità, per il contorno, quel popolo per il quale questi eroi sono chiamati ad agire. Quando però le due casistiche si fondono non si ha più solo una storia o un racconto, ma si entra di diritto nella leggenda e nell’immortalità, così come vi è entrato Obdulio Varela.



È questa la storia che ci porta ad incontrare uno dei più importanti giocatori della storia del fútbol sudamericano, capace di oltrepassare i confini uruguagi e di diventare per un pomeriggio – il più mitologico per la storia della Celeste, il più tragico e disastroso per quella brasiliana – re del Brasile e del Mondo intero. Per spiegare il personaggio basterebbe anche solo il soprannome: el Negro Jefe, il Capo Nero, derivato ovviamente dalla carnagione e dall’enorme carisma. Obdulio, infatti, incarna perfettamente quello spirito di linearità e compattezza tattica e fisica tipico dei grandi condottieri del difensivista calcio uruguaiano, affermandosi nel corso della sua carriera come uno dei più grandi centrocampisti della storia sudamericana. A questo si aggiungono anche doti ben spiccate di leadership, che lo rendono un esempio da seguire in campo e fuori per compagni e tifosi. In altre parole, Obdulio è un vero e proprio caudillo del calcio, il degno successore di un’istituzione come José Nasazzi.

La storia di Obdulio Varela inizia esattamente allo stesso modo della maggior parte dei personaggi di maggior spicco della storia calcistica, nella difficile e per certi versi invivibile povertà rioplatense. Nato a Montevideo, inizia fin da giovane a vendere giornali per le strade della capitale per riuscire a guadagnare abbastanza per sopravvivere, prima di entrare nelle giovanili del Deportivo Juventud. Dopo un trascorso nei Wanderers di Montevideo, arriva nel club più titolato e importante del paese, il Peñarol.

È in questo periodo che la Celeste comincia la sua rinascita calcistica, dopo i titoli olimpici del ‘24 e del ‘28 e il primo Mondiale nel 1930. Egli porta la sua Nazionale a vincere la Copa América del 1942 – il più prestigioso trofeo dell’epoca, vista l’assenza di Olimpiadi e Mondiali, causa Seconda Guerra Mondiale –, e cominciano anche i primi successi con il club, con la conquista dei campionati del 1944 e del 1945.

Tra il 1948 e il 1949, conduce per sette mesi la huelga dei calciatori, lo sciopero calcistico volto ad ottenere maggiori diritti per gli atleti e l’introduzione del professionismo. Obdulio Varela è il leader carismatico di questo sciopero e, assieme all’asso del Nacional e rivale in campo Enrique Castro, guida circa 500 colleghi nella rivolta. Questo causerà lo stop anticipato del campionato del 1948, terminato dopo soli 10 turni e col Nacional al comando ma mai omologato campione, e il ritardo nell’inizio del torneo successivo, che sarà poi vinto ancora una volta dai gialloneri di Varela. Questa specie di lockout cestistico accrescerà la fama e il carisma del mediano, che alla vigilia del Mondiale in Brasile del 1950 viene nominato capitano della Celeste.

A quel Campionato del mondo si arriva in un clima molto, ma molto strano. Innanzitutto, è la prima rassegna iridata dopo l’interruzione causata dal secondo conflitto bellico mondiale, cosa che causa l’esclusione automatica della Germania e del Giappone, ma non quella dell’Italia, forse salvata dal successivo schieramento con gli Alleati, ma molto più probabilmente in quanto bicampione mondiale in carica. Proprio sull’Italia vi sono le più grandi attese, senonché un pomeriggio del maggio del 1949, il fato e il maltempo si sono portati via una delle squadre più forti della storia, il Grande Torino, colonna portante degli Azzurri.

Le principali candidate per la vittoria finale restano quindi le sudamericane: il Brasile della linea delantera, i cinque attaccanti capaci di segnare ad ogni azione e guidati dal fenomenale Zizinho, e proprio l’Uruguay di Obdulio Varela.

A rendere ancor più strano quel Mondiale fu la formula, non la classica ed odierna eliminazione diretta, bensì due fasi a gironi al termine delle quali la squadra con più punti viene incoronata campione. E il Brasile, per la prima ma non ultima volta nel corso del torneo e della sua storia, non riesce nel suo intento: arrivare all’ultimo match già matematicamente campione.



È il Maracanazo. È il punto più alto della vita calcistica di Obdulio. La partita decisiva. Da una parte i brasiliani, forti di un punto in più in classifica che li renderebbe campioni anche con un semplice pareggio. Compito facile se si pensa alla qualità dei suoi calciatori, come Friaça e Jair, e del vantaggio di giocare in casa. Dall’altra la Celeste, obbligata a vincere per bissare il successo del 1930 e in grado di schierare giocatori come el Mono Gambetta, Pepe Schiaffino e Ghiggia, oltre ad Obdulio Varela. A far da cornice uno splendido Maracanã gremito con circa 200.000 spettatori.

Inizia la partita, al Brasile basterebbe un punto, ma è chiaro che nessuno si accontenta di un pareggio. La Celeste sembra però non essere scesa in campo, basti pensare che Schiaffino, l’uomo più tecnico, è solo una controfigura del grande campione del Peñarol. Nella ripresa il Brasile passa in vantaggio, e l’Uruguay sembra non avere più idee, ma è qui che si compie il destino di Obdulio. Da capitano prende la palla, ma non la rimette subito al centro del campo, no, lui non la dà vinta così facilmente ai brasiliani. La tiene per attimi che sembrano interminabili e, lentamente e con enorme calma, la riporta nel cerchio di centrocampo spronando i suoi compagni. Loro, ai quali prima del fischio aveva consigliato di non lasciarsi distrarre dai fattori esterni, i 200.000 del Maracanã, pronunciando alcune delle parole più importanti della storia uruguagia: «Los de afuera son de palo», «Quelli fuori non esistono».

La Celeste è rinvigorita. Pareggia Schiaffino, segna a dieci minuti dalla fine Ghiggia. È finita, l’Uruguay è campione del mondo per la seconda volta su due partecipazioni. Obdulio riceve la coppa da Jules Rimet in persona e rientra in albergo a Rio de Janeiro con i compagni, ma non passa la serata a festeggiare con loro, bensì vaga per le vie cittadine nel vano tentativo di consolare i tifosi brasiliani.

Giocherà i Mondiali del 1954, dove la Celeste perderà la semifinale per 4-2 contro la Grande Ungheria orfana di Puskás, partita saltata da Varela per infortunio e che gli permetterà di concludere da imbattuto la sua carriera ai Mondiali.

Morirà poi, naturalmente in povertà, nel 1996, nella sua Montevideo, capitale di quella nazione che ne ha ammirato le gesta e che non potrà mai smettere di ringraziarlo, in quanto protagonista e vero artefice della più grande pagina della storia uruguagia.

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