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Storia ed evoluzione del calcio negli USA

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Anni fa, su internet, circolava una serie di shootout – l’antesignano del calcio di rigore moderno, rivitalizzato dalla Kings League e punto cardine dell’hockey – di una partita di MLS del 1999 tra i San José Earthquakes e Kansas City. Partenza palla al piede, portiere in uscita a contrastare, impossibilità, per regolamento, di tornare indietro con il pallone. Dagli USA ci arrivava qualcosa che, diciamocelo, aveva poco a che vedere con il calcio.

Oggi, sempre su internet, si possono recuperare i dribbling, i gol e gli assist senza senso di un certo Lionel Messi con la maglia rosa dell’Inter Miami. Peculiare pensare che uno dei calciatori più forti della storia di questo sport stia giocando in un campionato dove, fino a vent’anni prima, i rigori si battevano come nell’hockey, i campi utilizzati erano quelli in affitto dal football americano e gli spettatori non superavano le poche centinaia.

Come ha fatto il calcio – o come direbbero loro il soccer, data la riverenza religiosa nei confronti del football americano – negli USA ad evolversi così? A che punto siamo di questo percorso di crescita? E come funziona lo sport più amato al mondo negli Stati Uniti?


La nascita e le prime fasi di vita della MLS
di Alessandro Molteni

L’origine della MLS risale al 1988, quando la FIFA affidò agli USA il ruolo di paese ospitante per i Mondiali di calcio del 1994. In Nord America non esisteva una lega di calcio, in quanto la North American Soccer League era precedentemente fallita nel 1984. Si erano poi venute a creare diverse leghe regionali, ma nessuna aveva ottenuto il riconoscimento della federazione americana.

Come obbligo imposto dalla FIFA per poter ospitare la competizione mondiale, gli USA si sarebbero dovuti fregiare di una propria lega nazionale, con l’esordio del campionato inizialmente previsto per il 1995 e poi rinviato all’anno seguente, con solo dieci formazioni partecipanti. Dopo una serie di ampliamenti e fallimenti di alcune realtà societaria, nel primo decennio del nuovo secolo, la MLS ha avuto una vera e propria svolta, soprattutto a livello logistico ed organizzativo.

Ricordate i già citati video con i famosi shootout, in questi campi larghissimi, con le linee del football americano? Ecco, dimenticateveli. Nel 1999, il Columbus Crew, inaugurò il primo stadio costruito e pensato ad hoc per l’attività calcistica e fu un vero e proprio successo. Ogni società calcistica riteneva fondamentale possedere un proprio stadio, non solo perché fonte di guadagno altissima, ma anche perché dava un “senso di appartenenza” alla squadra ed ai tifosi. Non c’era più l’obbligo di condividere i campi con altri sport, ogni società per competere all’interno della MLS doveva, come regola cardine imposta nel 2009, possedere un proprio stadio, di proprietà o meno, adibito e funzionale per il calcio. Ad oggi, 21 società su 30 giocano su campi specifici solo per il calcio; di questi 21, 6 sono di proprietà delle stesse società – a questi si aggiungerà presto lo stadio dell’Inter Miami.

La MLS, fin dagli albori, ha preso grandissima ispirazione dalle altre leghe sportive statunitensi. Esattamente come NFL e NBA, il campionato di calcio degli USA prevede un Salary Cap, ovvero un tetto salariale, che ogni società deve rispettare e che rappresenta la quantità di denaro che ogni squadra può spendere durante una stagione per gli ingaggi della propria rosa. L’obiettivo del tetto salariale è stato imposto per evitare salassi sportivi ed il fallimento della lega, com’era accaduto precedentemente per la NASL.

Esattamente come le altre leghe degli USA, anche la MLS è un campionato “chiuso”. Non esistono né promozioni né retrocessioni e sono le stesse franchigie che decidono se, e quando, introdurre nuove società all’interno della lega. La MLS è dotata di un vero e proprio comitato che si occupa di valutare quali siano le zone migliori dove ampliarsi, in base a principi quale la stabilità, l’appeal della zona e la competitività.


Il 2007, la MLS cambia e si evolve
di Alessandro Molteni

Dopo un quindicennio di più bassi che alti, la lega di calcio degli USA ha visto nel 2007 un vero e proprio turning point della propria esistenza. In primo luogo, è stato l’anno che ha visto l’ingresso della prima formazione non statunitense, ovvero il Toronto FC. Inoltre, per innalzare il livello del proprio campionato, ed aggirare il limite economico imposto dal budget cap, è stata introdotta la regola del “Designated Player Rule”, conosciuta anche come “Regola Beckham”.

I club statunitensi decisero di approvare questa norma, che prevedeva sostanzialmente la possibilità di ingaggiare fino ad un massimo di tre calciatori, pagati a cifre superiori al budget cap. La decisione venne approvata per aumentare l’appeal del campionato, ma anche per permettere ai Los Angeles Galaxy di tesserare David Beckham – da qui il nome assunto dalla normativa.

Per quanto riguarda l’organizzazione della stagione, il campionato è diviso in due Conference. Esistono due titoli: la MLS Cup, che si ottiene vincendo la fase play-off, dove si qualificano le prime sette di ogni conference, con ottava e nona che giocano uno spareggio e si segue poi il modello cestistico con incroci in base alla propria testa di serie; e il Supporters Shield, che viene vinto dalla squadra che ottiene il maggior numero di punti durante la regular season.

Come per NBA e NFL, anche in MLS esiste un draft, svolto alla fine della stagione, dove vengono scelti calciatori usciti dal college, anche se oggi l’importanza del draft è diminuita, avvicinandosi ad un modello più “europeo” di scelta e acquisizione dei calciatori.

La grande differenza strutturale della MLS sta nel cosiddetto “Expansion Draft”, ovvero il processo tramite il quale le nuove franchigie possono “rubare” calciatori alle altre società. Con un numero massimo di cinque acquisti, la nuova entrata può creare la propria rosa sfruttando i giocatori di altre società. Ogni squadra ha, però, il diritto di proteggere dodici dei propri giocatori che non verranno toccati da questo processo di riorganizzazione. Per esempio, l’Inter Miami ha, ovviamente, protetto Lionel Messi e il Toronto FC ha deciso di proteggere Federico Bernardeschi, ma non Lorenzo Insigne.


Molto più di un cimitero degli elefanti
di Alessandro Drago

Il calcio negli USA sta vivendo un periodo di rapida crescita e, pur non potendo ancora paragonarsi a quello europeo, si sta trasformando da redditizia oasi per finire la carriera a movimento competitivo sia per quanto concerne i club che per la Nazionale. Ancora oggi si pensa che quello statunitense sia una sorta di campionato per pensionati, idea nata dal fatto che negli anni Settanta diversi calciatori importanti decisero di finire la propria carriera oltreoceano, spinti da ricchi contratti e condizioni di vita agevoli. Da Gerd Müller a George Best, passando per Johan Cruijff, furono tanti i campioni a calcare i campi da calcio americani in quel periodo che però si identifica prevalentemente nella figura mitologica dei New York Cosmos, squadra che poteva vantare nelle proprie fila giocatori del calibro di Carlos Alberto, Giorgio Chinaglia, Franz Beckenbauer, Johan Neeskens e soprattutto Pelé, prima vera icona del calcio a stelle e strisce. Il livello del campionato, comunque, non era alto, e dopo il dissesto economico che ne causò la dissoluzione, il calcio negli USA fu caratterizzato da diversi anni di semi-professionismo.

Dopo anni di esperimenti più o meno riusciti, si può affermare con certezza che il campionato statunitense inizia ad avere una marcia in più nel periodo che va dal 2015 al 2018. Qualche anno prima il ciclone Beckham aveva sicuramente contribuito a porre l’attenzione sulla MLS, ma l’ingresso di nuove e importanti franchigie come Orlando City, Atlanta United, New York City e Los Angeles FC in quel periodo hanno incrementato il fascino del campionato sia per i tifosi, che per la prima volta hanno potuto anche assistere a dei derby cittadini veri e propri, che, soprattutto, per i calciatori stessi.

Non mancano le vecchie glorie alla ricerca dell’ultimo importante contratto, ma sono sempre di più i giocatori che decidono di approdare in MLS nel pieno della propria carriera, contribuendo così a migliorare il livello del campionato stesso. Quando David Villa arriva al neonato NYCFC nel 2015 ha 32 anni ed è reduce dalla vittoria del campionato spagnolo e dal raggiungimento della finale di Champions League con l’Atlético Madrid, in cui ha avuto un ruolo da protagonista, calandosi in questa nuova dimensione con la stessa voglia con cui ha giocato nelle grandi competizioni europee come testimoniano le 80 reti in 126 presenze all’ombra dell’Empire State Building. Nello stesso anno arriva in MLS anche Sebastian Giovinco, che a 28 anni decide di abbandonare la panchina della prima Juventus di Massimiliano Allegri per diventare in breve tempo faro e simbolo di Toronto, che porta alla vittoria della MLS Cup e del treble domestico nel 2017, diventando il calciatore più importante della lega.

Loro due, in particolare, hanno fatto da apripista ad un flusso di giocatori importanti che negli anni hanno deciso di accasarsi a vari club statunitensi, giusto per citarne alcuni: i fratelli Giovani e Jonathan dos Santos, Josef Martínez, Carlos Vela, Zlatan Ibrahimović, Gonzalo Higuaín e tanti altri ancora, e non parliamo solo di gente a fine carriera. Riqui Puig aveva solo 22 anni quando si è separato dal Barcellona per unirsi ai Los Angeles Galaxy, mentre Federico Bernardeschi e Lorenzo Insigne hanno lasciato la Serie A per seguire le orme di Giovinco a Toronto appena un anno dopo la vittoria dell’Europeo, per la quale sono stati importantissimi.

Tutti i sopracitati hanno avuto o hanno tuttora un ruolo chiave per lo sviluppo del campionato, la cui competitività, però, non si basa solo sull’acquisto di grandi nomi. Le regole imposte dalla lega, raccontate in precedenza, non consentono alle franchigie di spendere senza limiti, rendendo necessario preparare la stagione puntando molto sul settore giovanile e sullo scouting, specialmente quello legato al Messico e al Sud America.

Gli ultimi anni hanno visto un filo diretto tra il campionato statunitense e quelli centro-sudamericani, con tanti giovani talenti che hanno scelto di accasarsi nelle franchigie statunitensi come tappa intermedia della propria carriera. I casi recenti più importanti sono quelli dei giovani argentini Pedro de la Vega e Federico Redondo, figlio del celebre Fernando. Il primo ha scelto di lasciare il Lanús per unirsi ai Sounders di Seattle, mentre Redondo, dopo essersi affermato come uno dei centrocampisti più promettenti della Superliga con la maglia dell’Argentinos Juniors, ha accettato la proposta dell’Inter Miami di Leo Messi di cui ora è uno dei perni principali. Un esempio di chi ha virato per gli States prima del salto in Europa è quello del Taty Castellanos, attuale centravanti della Lazio, che ha giocato nel New York City dal 2018 al 2022.

Il mix tra giocatori esperti e talenti in rampa di lancio, in aggiunta agli altri fattori tecnici ed economici, hanno contribuito ad aumentare l’agonismo interno al campionato, tanto che nelle ultime dieci stagioni sono state ben otto le squadre a vincere i play-off, con solo i Seattle Sounders e i Columbus Crew capaci di ripetersi.

La MLS, però, non sta solo “rubando” i talenti agli altri campionati, ma sta cercando di crearli in casa propria, e con ottimi risultati. L’avere un campionato sempre più competitivo e in crescita sta facendo in modo che, oltre al draft, anche i settori giovanili siano presi in grande considerazione dalle varie squadre. Se anni fa i talenti americani e canadesi si contavano sulle dita di una mano e per lo più si trattava di fenomeni mediatici – vi ricordate di Freddy Adu, vero? –, adesso sono sempre di più i giovani capaci di approdare in prima squadra e di farsi notare da importanti club europei.

Matt Turner, Tyler Adams, Tajon Buchanan, Ricardo Pepi, Moïse Bombito, Giovanni Reyna, Gianluca Busio, Brenden Aaronson, giusto per citarne qualche esempio più recente, sono cresciuti nei club di MLS prima di approdare in Europa e di giocare con le rispettive nazionali maggiori. E a questi vanno aggiunti tanti altri nomi destinati ad emergere e a far parlare di sé nei prossimi anni, uno su tutti Benjamin Cremaschi, talento diciannovenne dell’Inter Miami con cui ha già giocato quasi 70 partite ufficiali e che ha già esordito con la Nazionale maggiore a stelle e strisce. L’esempio migliore di un investimento europeo su un giovane prodotto dalla MLS è Alphonso Davies, stella del Bayern Monaco arrivata per 14 milioni di euro dai Vancouver Whitecaps, squadra nella quale è cresciuto.



Il Mondiale e i nuovi orizzonti del calcio negli USA
di Alessandro Drago e Alessandro Molteni

Se l’assegnazione del mondiale del 1994 spinse gli Stati Uniti a riorganizzare da zero il proprio quadro calcistico, quella del 2026 insieme a Messico e Canada, invece, rappresenta un premio e un’ulteriore conferma della crescita di questo movimento. Il gruppo “United” ha vinto la votazione nel giugno del 2018 e questo ha sicuramente contribuito alla nuova primavera che sta vivendo il calcio nordamericano, sempre più sotto gli occhi dei riflettori. Un dato su tutti è lampante: sui 16 stadi nei quali si giocheranno le partite della competizione, 13 sono della MLS – 11 negli Stati Uniti e 2 in Canada –, un vero e proprio trionfo. E parlando di Coppa del Mondo, non si può negare la grandissima influenza che ha avuto e continua ad avere la presenza di Lionel Messi all’Inter Miami, squadra che rappresenta a pieno il connubio tra aspirazione e progettualità di questo nuovo mondo non più solo geografico, ma anche calcistico.

Chi è chiamata a dare delle risposte importanti è ovviamente la Nazionale maggiore statunitense, che nel 2026 dovrà confrontarsi con l’appuntamento più importante della propria storia. Dalla medaglia di bronzo nel 1930 – gli States sono stati la primissima nazionale a vincere una partita di un Mondiale, lo sapevate? –, i risultati non sono stati granché, e negli ultimi vent’anni in particolare non sono mai riusciti ad andare oltre gli ottavi di finale. Nessuno chiede agli USA di vincere il torneo, ma le aspettative sono alte per una squadra che può adesso vantare un CT di alto livello come Mauricio Pochettino e una rosa di giocatori giovani ma già affermati nel calcio europeo. Malik Tillman, Sergiño Dest e il già citato Pepi sono colonne del PSV Eindovhen campione d’Olanda, Johnny Cardoso e Adams giocano regolarmente in squadre importanti come Betis e Bournemouth, e sempre restando in Premier League c’è Antonee Robinson che a 27 anni si sta confermando come uno dei migliori laterali mancini del campionato. E con loro tanti altri ancora, non considerando i giovani che da qui ad un anno potrebbero emergere. Ultimi ma non per importanza, anzi, giocatori importanti per Juventus e Milan come Timothy Weah e Weston McKennie da un lato e Yunus Musah e soprattutto Christian Pulisic dall’altro. Quest’ultimo è per distacco il calciatore più forte degli USA, e dopo qualche alto e basso al Chelsea si sta dimostrando un perno dei rossoneri di Milano. I presupposti per fare bella figura ci sono tutti.

È necessario inoltre aggiungere come il movimento calcistico degli USA, oggi in rampa di lancio, abbia raccolto a piene mani i frutti piantati dal calcio femminile. La Nazionale statunitense femminile, eccezion fatta per il Mondiale del 2023, non è mai finita giù dal podio nella competizione, riuscendo a vincerli per ben quattro volte, a dimostrazione di come le ragazze a stelle e strisce fossero una vera e propria schiaccia sassi del pallone. A questa statistica bisognerebbe anche aggiungere le cinque medaglie d’oro alle Olimpiadi, di cui tre – da Atene a Londra – consecutive. Nessuno meglio di loro nella storia.

Con ogni probabilità, senza il contributo della squadra femminile, oggi non avremmo una nazione che segue e investe in maniera così veemente in uno sport che, fino a vent’anni fa, faticava a rientrare tra le prime dieci discipline più popolari nel continente americano.


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