Dov’eravamo rimasti, quindi? A una fresca serata nella Roma di fine di maggio, e a due squadre con più niente da chiedere al campionato nella sua ultima giornata; a un Napoli con il secondo posto blindato e troppo distante dal primo, e una Roma impantanata nel limbo di un quinto posto. Ad Aurelio Andreazzoli subentrato in corsa su una panchina di Serie A, a Walter Mazzarri che siede su quella del Napoli. A Papa Francesco sul trono papale e a Novak Djoković che di lì a qualche mese avrebbe trionfato alle ATP Finals.
Se a qualcuno appena risvegliatosi da uno stato comatoso lungo dieci anni, per qualche strana ragione, avessimo fornito queste specifiche informazioni sullo stato delle cose – passi pure il Papa, ma perché dovremmo riferire anche di Andreazzoli e Mazzarri? –, lo avremmo convinto di essersi assentato dal mondo esterno per non più di qualche mese. Invece, chi questi dieci anni li ha vissuti ad occhi aperti, percepisce la densa gravità del tempo fino in fondo, come avesse viaggiato lentamente dalla Luna alla Terra: Papa Francesco è sempre lì, ma non è più parte di un duo; Federer e Nadal sono scomparsi, e Djoković è stato lasciato solo a combattere le pieghe del tempo, leggermente imbolsito e con un taglio di capelli più corto sulle tempie, forse per nascondere l’accenno di qualche capello bianco; le stesse pieghe del tempo che sono vere e proprie sul volto di Andreazzoli, che ora indossa gli occhiali e sembra aver accettato una relazione complicata con la panchina dell’Empoli, su cui è destinato a tornare ciclicamente.
Com’è andata al Napoli?
Quanto ai destini del Napoli e di Walter Mazzarri, le loro strade hanno preso direzioni opposte, a partire da quella fresca serata di maggio. Il club, rimasto orfano del primo vero allenatore “identitario” della gestione De Laurentiis, aveva scelto di bruciare del tutto il ponte che lo legava a quella matrice reattiva, a quel gioco scarnificato e così verticale, tessuto dalle associazioni tra le individualità dei suoi uomini migliori. Si era scelta una strada completamente diversa, come a voler rimarcare le distanze prese da un passato che aveva portato tante soddisfazioni – gli ottavi di finale in Champions, il secondo posto in Campionato, una Coppa Italia – ma che sembrava giunto ad un’inevitabile stagnazione. Si era corso il rischio di bruciarsi alzando l’asticella, chiamando un allenatore dal profilo internazionale come Rafa Benítez, che aveva a sua volta richiamato altri profili internazionali, in un processo di brandizzazione del Calcio Napoli su scala europea.
In quegli anni abbiamo assistito agli effetti grotteschi che quella ricerca di affermazione ha prodotto: le maglie denim, le maglie camouflage, le maglie con il bacio, le maglie con le renne; le casacche «sarò con te», che fanno pensare ad un Napoli che puoi portare via dalla provincia, ma ad una provincia che non puoi portare via dal Napoli. Ma abbiamo assistito anche agli effetti benefici di una scelta così radicale, che forse – per quanto sembri strano scriverlo o anche solo immaginarlo – va addirittura oltre la conquista di uno Scudetto dopo trentatré anni di attesa. La vera eredità di quella scelta sta nel modo in cui il Napoli scende in campo ogni domenica da dieci anni a questa parte, indipendentemente dai giocatori o dagli allenatori che si susseguono alla guida. Il DNA del club si è modificato strutturalmente, assorbendo un’identità basata sul bisogno di avere sempre in mano il pallino del gioco, con un baricentro più o meno basso, che sia attirando il pressing avversario ai limiti della propria area o esercitando una pressione crescente nei pressi di quella avversaria, fino a trovare gli spazi tra le linee o addirittura tra i corpi: tutto questo deve avvenire attraverso il controllo del pallone.
È un’identità che si è consolidata a tal punto da non scomparire neanche nei momenti di crisi profonda del club, fatti di mancate qualificazioni alla Champions e ammutinamenti verso la presidenza. Una coperta di Linus per trovare rifugio dalle incertezze e ripartire a piccoli passi, come quei brevi riti e gesti quotidiani che ci permettono di sopravvivere alle giornate in cui sembra impossibile anche alzarsi dal letto. Un’identità così radicata da farci dubitare dell’importanza che un allenatore o un giocatore ha nel plasmarla, attori a cui forse non resta che adattarsi a uno scenario mutato. E se noi non ne abbiamo dubitato, deve probabilmente averlo fatto Aurelio De Laurentiis, quando quest’estate dal cilindro dei «quaranta allenatori» ha tirato fuori Rudi Garcia, che però avrebbe potuto benissimo essere Cristophe Galtier, che a sua volta avrebbe potuto essere Luis Enrique, Rafa Benítez – di nuovo – o Julian Nagelsmann, in una girandola di nomi snocciolati come fossero l’elenco di personaggi saltati fuori da una bustina di figurine Panini: «ce l’ho, ce l’ho, mi manca…».
Forse il paradosso più grande del Napoli in questi anni sta proprio nel cortocircuito tra il percorso di internazionalizzazione del club sotto il profilo tecnico e la dipendenza di un tale progetto dalle scelte di una proprietà ancora non strutturata per rispecchiarne le necessità. Una proprietà in cui la distanza tra la mente e il braccio è tanto breve da non trovare inibizioni, ma neanche momenti di riflessione. Una distanza che porta a una certa libertà di movimento nelle decisioni, ma anche a una facilità nel sovrastimare la comprensione degli aspetti di campo: l’unico diktat autoimposto dal presidente del Napoli quest’estate è stato quello di scegliere un allenatore che fosse disposto a adottare il 4-3-3, come se in un modulo possa nascondersi il simulacro di una specifica cultura calcistica, e i principi di gioco si adattino alla disposizione dei calciatori sul campo prima del fischio d’inizio.
E allora sembra colpito da una strana legge del contrappasso, De Laurentiis, quando poco più di una settimana fa è costretto a sondare possibili allenatori subentranti a Garcia: ovunque si giri riesce a trovare solo figure abbarbicate con la difesa a tre. Di qualcuno che sia ancora innamorato del 4-3-3 o delle sue varianti neanche l’ombra, e i papabili per la panchina sono Antonio Conte – che sembra aver già rifiutato la proposta un mese prima e, a quanto pare, non ha cambiato idea nel frattempo – Igor Tudor e Walter Mazzarri. Sembra che l’ex allenatore del Marsiglia sia a un passo dalla firma, con ADL che si vedrebbe costretto a punirsi doppiamente, dopo aver dichiarato che la juventinità di un candidato sarebbe stata un discrimine sufficiente per non selezionarlo. Tudor però rifiuta quando sembra tutto fatto, non ricevendo abbastanza garanzie sulla durata e stabilità del progetto. Al nome si giunge per sottrazione, e dei quaranta iniziali resta solo Walter Mazzarri, che nel giro di ventiquattr’ore dal rifiuto di Tudor diventa ufficialmente il nuovo allenatore del Napoli. L’accordo si è chiuso con la paura di rimanere con il cerino in mano, che in questo caso avrebbe significato continuare il campionato con un allenatore esautorato da qualsiasi potere. Mazzarri torna a sedere sulla panchina azzurra a distanza di oltre dieci anni.
Com’è andata a Mazzarri?
Quanto a lui? Come gli sono andate le cose negli ultimi dieci anni? Aveva lasciato il Napoli con la speranza di raggiungere una panchina che emanasse un’aura di grandeur, e l’Inter che solo tre anni prima aveva vinto il Triplete offriva quel tipo di prospettiva. Ma era una squadra appena entrata nella sua banter era, che dei recenti fasti conservava solo i ricordi. Aggiustare le aspettative di un ambiente abituato al successo, e che si aspetta nuove vittorie semplicemente sulla scia del passato, è un compito ingrato: «ambasciator non porta pena» vale finché la pena non viene riferita.
Mazzarri si è dovuto adattare al ruolo di portatore di sventure, e anche se il primo anno sulla panchina nerazzurra non era stato del tutto negativo, nella stagione successiva è chiamato a pagare il conto. La sensazione è che su quel conto ci siano finite anche le colpe degli altri, dall’instabilità societaria alla riduzione nel valore della rosa. Ma è anche il suo modo di essere a pesare tanto: è in questo periodo che nasce il Mazzarri “memabile”. Interviste surreali, infarcite di scuse al limite del grottesco; gesti esasperati in panchina, coreografie di gruppo insieme al fidato Frustalupi. Tutti questi atteggiamenti c’erano anche negli anni a Napoli, ma non avevano trovato eco per la mancanza di un catalizzatore. Come le serie TV – sì Boris, parlo di te – e i film in secondo piano tornano alla ribalta grazie alla nascita e all’espansione di nuovi social, così Mazzarri diventa un personaggio virale, che fa divertire i tifosi neutrali e imbarazza leggermente quelli della squadra che allena. La figura del Mazzarri allenatore viene inghiottita dal Mazzarri meme, che ne rende difficile anche l’evoluzione professionale.
Dopo il passaggio a vuoto all’Inter gli è stato difficile risollevarsi, complice l’avventura al Watford, in cui sono nati anche altri meme centrati sulla sua incapacità di parlare un buon inglese. L’avventura a Torino era partita alla grande, con i Granata arrivati a qualificarsi in Europa League, prima di entrare in una spirale negativa conclusasi con le sconfitte con Atalanta e Lecce – rispettivamente 7-0 e 4-0. Infine, c’è stato il suo ultimo incarico a Cagliari, che si è rivelato un disastro dal punto di vista comunicativo, prima ancora che sul campo. Si è visto un Walter Mazzarri totalmente fuori fuoco, che ha terminato la sua avventura da allenatore in guerra aperta con i calciatori. Un Walter Mazzarri diverso da quello visto a Napoli, o semplicemente una sua versione caricaturale, forse anche frutto di una narrazione che gli era stata cucita addosso negli anni precedenti e che lui si è ritrovato ad un certo punto ad assecondare, cavalcando l’onda del personaggio finché ha potuto, prima di perdere il controllo.
L’allenatore di San Vincenzo non è riuscito a portare avanti il progetto di affermazione internazionale – come in parte era riuscito al suo Napoli –, intrappolato in un mondo fuori sincrono, con lui che viaggiava su un piano diverso, anacronistico, e con i suoi pensieri che si sclerotizzavano mentre il tempo passava e andava avanti. Come se fosse stato lui l’uomo svegliatosi dal coma qualche giorno fa, dopo la chiamata del Napoli.
Il viale dei ricordi
Il ritorno alle origini – o alla fine, dipende da cosa scegliamo come punto d’inizio – della storia d’amore tra Mazzarri e De Laurentiis appare come un tentativo di ricostruire quanto era stato cancellato o messo in pericolo dalle loro scelte, ma anche dal tempo che passa. Un modo per ritrovare l’alchimia perduta, il tocco magico che entrambi sembrano aver perso, offuscati dall’incapacità di riuscire a leggere il mondo come avrebbero fatto una volta. Le parole di Mazzarri nell’intervista fiume concessa al Corriere dello Sport poco meno di un mesetto fa, lasciano trasparire l’insofferenza e il rammarico per aver «trascurato i rapporti» ed essersi concentrato solo sul campo. Ma anche quelle parole sono filtrate da una certa incapacità di adattarsi alla cultura che lo circonda: come quando si rende conto «di aver pagato un po’ troppo i miei atteggiamenti, la mia ritrosia. Come si dice adesso? Scarsa empatia», come se l’empatia appartenesse a una realtà nuova, inconcepibile nel mondo di dieci anni fa, costruito su rapporti diretti, duri, che lasciano spazio solo alla professionalità del mestiere e a nient’altro; o quando afferma di essersi aggiornato, di aver studiato il 4-3-3 di Spalletti, e che non aveva mai adottato moduli diversi in passato perché le rose a disposizione non glielo permettevano, in un tentativo maldestro di dimostrare la propria elasticità, o di mostrare che a sessant’anni è possibile cambiare, dopotutto. Un modo di giustificare Mazzarri per il semplice essere Mazzarri.
Quanto a De Laurentiis, sembra che a dettare la sua scelta, almeno apparentemente, sia stata la necessità di ritornare a una zona di comfort, affidandosi a una figura di cui sia possibile prevedere il comportamento, che acconsenta alle sue richieste e che non abbia troppe pretese, in attesa di avviare un nuovo progetto tecnico alla fine dell’anno in corso, magari gettandone già le basi a stagione in corso. Ma non è solo per questo che ha scelto Mazzarri.
Un altro motivo sta nell’enorme operazione nostalgia imbastita con il suo arrivo, a partire dai post pubblicati su Instagram fino al suo annuncio su Twitter con un semplice «Bentornato Walter!», a voler rimarcare che a Napoli stava arrivando un vecchio amico, più che un allenatore. Deve aver compreso che, per rianimare un ambiente depresso, senza prospettive nell’immediato futuro, sarebbe stato necessario giocarsi la carta del ritorno ai tempi che furono, quando l’unica identità a cui appoggiarsi restava circoscritta a un’istantanea dentro il tempo, e non a una struttura che si ponesse al di sopra di esso: tutti abbiamo in mente “il Napoli di Mazzarri”, quella creatura non replicabile per sua natura e il cui scheletro non è riuscito a sopravvivere all’erosione degli anni. Tutti, dopo lo sbigottimento iniziale, lo abbiamo tirato fuori dai cassetti tutto impolverato di nostalgia, che rende il passato sempre un po’ migliore rispetto a un presente insoddisfacente e a un futuro incerto. A Napoli, entrambi sono spazzati via dai ricordi, che sono diventati l’unica cosa che conta in questi giorni.
Una delle partite più iconiche del Napoli di Walter Mazzarri
Per questo diventa sterile cercare di capire in che modo Walter Mazzarri farà giocare il Napoli nei prossimi mesi, anche perché le sue dichiarazioni si scontrano con tutta la sua storia passata, e tentare di scoprire quale delle due possa avere il sopravvento ad oggi appare impossibile. Le prossime partite ci restituiranno un’idea più chiara, ma anche su di loro si allungherà l’ombra dei ricordi, come quelle proiettate dai platani nei viali delle città di vacanza, dove nei pomeriggi asfissianti gli anziani cercano un po’ di refrigerio. Così, se i risultati dovessero alzare troppo la temperatura attorno all’operato della società, la figura di Mazzarri potrebbe fungere da schermo per un po’, donando a De Laurentiis un altro po’ di tempo e benevolenza. Forse, alla fine, era proprio quello di cui il Napoli aveva bisogno in questo momento senza un futuro ben delineato: una panchina ben riparata.
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