«Il senso dell’intera operazione, peraltro, è più ampio: dimostrare che in Italia un calcio diverso non solo non è possibile, ma non è neanche augurabile». Potrebbe essere questa, più o meno, la comunicazione degli ordini che spuntano fuori via Gregorio Allegri 14 a Roma, sede della FIGC. Tra degrado degli impianti, Coppa Italia prototipo superleghista, Supercoppe in paesi autocratici, continui fallimenti, scadenza del sistema giovanile, disgusto del nuovo e tanto altro, parafrasare le parole della leggendaria serie Boris sembra il modo più efficace e sincero di constatare il degrado dello sport più amato nel Bel Paese. E visto che Boris è riuscita a parlare in maniera così tagliente ed efficace del becero mondo della televisione nostrana, perché non farne una versione su un altro laboratorio di storture come il nostro calcio? Certo, converrebbe proporre un cast nuovo che dia un senso di continuità ed equilibrio rispetto a quello vecchio, ma abbiamo già in mente alcuni nomi.
Boris e il calcio italiano: Alessandro – Qualsiasi giovane
Sogni, speranze, esordi, imprevisti, realtà, delusione, rassegnazione, omologazione. Il percorso nel mondo del calcio di migliaia di ragazzi e ragazze in Italia è stato compiuto esattamente su questo binario, che è fondamentalmente quello su cui viaggia la carriera nella fiction di Alessandro. Nel corso delle stagioni impariamo a compatirlo per la sua inesperienza, a biasimarlo per la sua ingenuità, a sostenerlo per la sua resilienza e a rimpiangerlo, per la sua scelta di trasformarsi in un altro operaio nella catena di montaggio della «merda».
Guardarlo copiare per entrare tra gli autori di ‘Libeccio‘ infonde lo stesso senso di sconforto del vedere tanti giovanissimi abbandonare ogni velleità calcistica per un business delle scuole calcio sempre più focalizzato sul capitale monetario che non su quello umano, per cui si arriva a pagare persino per giocare o per liberarsi dai vincoli che legano i ragazzi alle società, per non parlare dell’enorme arretratezza del movimento femminile.
E a noi spettatori non resta che osservare quella minuscola, luccicante, briciola di purezza venire inghiottita da una nube grigia e densa di nullaggine. E sospirare, perché c’è un altro in meno per cui fare il tifo.
Boris e il calcio italiano: Arianna Dell’Arti – Domenico Berardi
Se si dovesse estendere il paragone ad un tertium genus, sarebbe facile associare Arianna dell’Arti e Mimmo Berardi a un San Bernardo, la creatura in cui fedeltà e abnegazione raggiungono probabilmente il punto di congiunzione massimo. Sono lavoratori infaticabili, dotati anche di specifici talenti che hanno consentito loro di farsi le spalle larghe in due habitat lavorativi isterici, caotici, cinici, imprevedibili. Sono dediti a una causa che è forse l’unica della loro vita, talmente prioritaria da aver inghiottito tutto il resto, relegato all’anticamera del cuore. Si dannano l’anima in contesti periferici rispetto all’élite della loro industria, una fiction e una serie in streaming scadenti e un Sassuolo per anni a centro classifica e poi caduto persino in B, magneticamente attratti dal loro nido pascoliano, incapaci di muovere le gambe e andarsene come i Dubliners di James Joyce, nonostante le occasioni per liberarsi si ripresentino ciclicamente.
La loro vita professionale è una gabbia in cui si sono chiusi portandosi le chiavi, un miscuglio di pulsioni autolesioniste, un inno alla rinuncia. Forse in fondo, più che un San Bernardo, Arianna e Berardi sono testuggini, abituate a portare sulle spalle la fatica e il peso di quella che è allo stesso tempo anche la loro casa.
Boris e il calcio italiano: Augusto Biascica – Armando Izzo
«Nelle intercettazioni mi chiamavano ‘L’ignorante’. “Oh, l’ignorante non deve sapere nulla”. Avevano ragione, sono ignorante», ricorda candidamente Armando Izzo a proposito delle indagini subite per una sua presunta partecipazione ad uno scandalo calcioscommesse del 2014, insegnando che non c’è mai vergogna nel riconoscere le proprie mancanze, specie se derivate da contesti decisamente più complicati della norma. Izzo è la perfetta espressione di quella parte di Paese sincera, vernacolare, terra terra, ma non meno complessa del più altolocato dei nobili. Un’espressione in cui talvolta è difficile immedesimarsi allo stesso modo in cui è facile apprezzarla, e il capo elettricista romano è un altro a possederne ampiamente il phisique du role. Con il loro italiano dialettale e poco asfaltato e la propensione per le mazzate, in campo e nella “stanza buia”, ti farebbero da balia perfetta in un’esplorazione antropologica delle migliori peggiori periferie dello Stivale. Magari non li troverai mai a leggere un libro della casa editrice Adelphi, ma sfido a vivere una serata in discoteca con loro priva di avvenimenti.
Boris e il calcio italiano: Arturo Biascica – Arturo Calabresi
Sinceramente non c’è molto da dire, è solo che sono due gocce d’acqua, è incredibile.
Boris e il calcio italiano: Duccio Patanè – Antonio Cassano
La parola chiave per riassumere questi due personaggi – perché entrambi lo sono, chi sulla scena e chi no – è spreco. Un talento dimostrato e riconosciuto agli albori e sempre più impolverato col passare degli anni, una serena e quasi snervante consapevolezza di star dando il 10% – forse anche meno – del proprio potenziale, e la totale mancanza di voglia di invertire il trend. Duccio e Fantantonio sono prede dei loro vizi, di priorità ben lontane da quelle lavorative, che pure alle volte appaiono come folate di vento in una torbida giornata di luglio inoltrato, contribuendo ad accrescere, in loro stessi ma soprattutto negli spettatori, il senso di sperperamento; ed è un peccato talmente grande che proprio non ce la si fa a dimenticarli nella loro dissoluzione, piuttosto ce li si porta appresso anche nelle avventure più improbabili e penose, forse per spremerne un ultima goccia di rilevanza, forse per non vederli scomparire nel buio: Vita di Gesù, BoboTV.
Ah, e quando iniziano un discorso è semplicemente impossibile dare un senso al 99% di ciò che proferiscono.
Boris e il calcio italiano: Diego Lopez – Andrea Agnelli
Per quanto sarebbe stato facile, poiché servito su un piatto d’argento, il parallelismo tra il personaggio interpretato da Antonio Catania e i suoi omonimi del mondo del calcio – l’allenatore ex Cagliari e il portiere ex Milan –, è decisamente più puntuale il paragone con l’ex presidente della Juventus.
«L’ho trovato geniale», spiega Lopez a René riferendosi al piano del Dottor Cane circa la débâcle programmata di Medical Dimension, e non è improbabile che abbia parlato negli stessi termini anche Andrea Agnelli, rivolgendosi alla dirigenza juventina, di un certo progettino che Florentino Pérez gli ha sussurrato in una qualche conversazione tra i due: la fantasmagorica Superlega. Queste due rivoluzioni fasulle non sono che il piano gattopardesco per conservare, anzi scolpire nella pietra, i comandamenti della fiction e del calcio: la tradizione, lo status societario, il monopolio dell’attrazione, ed entrambi ne sono sinceramente abbagliati. Lopez e Agnelli amano fare i piccoli con i grandi e i grandi con i piccoli: il primo, al di là della formale gerarchia, lacchè di Cane e bullo di René, il secondo, sbottante perché squadre come l’Atalanta «non hanno storia» e non dovrebbero giocare la Champions, mentre ad oggi la Dea è l’ultima italiana ad aver vinto in Europa e sogna lo scudetto, che la sua ex-squadra non vince dal 2020 soprattutto per via del suo fine-ciclo disastroso.
Boris e il calcio italiano: Lorenzo – Vincenzo Italiano
Cosa succede nel contesto italico quando qualcuno parte dalla periferia del paese alla ricerca imperterrita del coronamento dei loro sogni, senza scendere a compromessi accomodanti e cercando semplicemente di fare il suo lavoro? Quel qualcuno viene preso per il culo. Assai.
Questo manicheo ma abbastanza fondato ragionamento accompagna il personaggio dello “schiavo” più picchiato di Roma e uno degli allenatori più picchiati dall’opinione pubblica, soprattutto la più pubblica. E sono spesso le ragioni più irrazionali e superficiali che impediscono a questi individui di ottenere un meritato riconoscimento, quali il titolo a tempo indeterminato di operatore o il riconoscimento di una intelligenza calcistica non indifferente. Lorenzo e Vincenzo palesano la dura verità che l’Italia – ma probabilmente il mondo intero – ama ancora il semplicistico e abbreviante meccanismo dell’etichetta, con cui schedare e stabilire a priori e in definitiva il valore di un individuo: Lorenzo un fichetto dalla regia “politica”, “Iraniano” un invasato mosso dalla passione di buttare via i risultati a suon di crossing game inoffensivi. Al tempo stesso, i due sanno rispondere nella maniera migliore: andando avanti contro tutto e tutti, a prendersi le loro meritate soddisfazioni.
Boris e il calcio italiano: Glauco – Zdeněk Zeman
Due anomalie del sistema, due variabili impazzite, due bestie indomabili e imprevedibili. Se, nel corso della loro vita e carriera, Glauco si è de-italianizzato e Sdengo si è invece immerso nella cultura sportiva italiana, il risultato per entrambi è coinciso con una tempra inscalfibile, una comunicazione spicciola, un carattere duro ma eccentrico, da cui è scaturito un modus operandi e vivendi altrettanto duro ed eccentrico.
Entrambi sono figli adottivi di un paese estero, ma condividono l’idea che, per dirlo amleticamente, c’è del marcio in Italia: l’allenatore boemo con la sua arringa sul doping che tutt’oggi mantiene, Glauco denunciando la totale mancanza di un’etica lavorativa sul set e in Italia in generale, che mette a rischio la possibilità di fare pubblicità occulta a una marca di merendine in Occhi del Cuore. Glauco e Zeman insomma non sono esenti da criticità e ipocrisie: il primo disgusta il cinema e la produzione televisiva italiana, ma non prova minimamente a cambiarla; il secondo ha iniziato la sua vita in panchina sperimentando, azzardando, poi si è barricato nel suo credo, che da magnifica primizia è marcito.
Boris e il calcio italiano: Mariano Giusti – Silvio Baldini
Avete presente quanto appena detto per Glauco e Zeman? Ecco, quello, però con una piega più strana, allucinogena, surreale. Da una parte un sociopatico-bipolare-fondamentalista cattolico, dall’altra la risposta artigianale italiana al Loco Bielsa. Entrambi con una comunicazione sfrontata, di una schiettezza talmente fragorosa, in due mondi di frasi fatte, da apparire alle volte delirante. Un interesse puro per le sfere più alte dell’esistenza umana, dalla brama di libertà al rapporto col divino: «A me della vittoria o della sconfitta non me ne frega un cazzo, a me interessa il percorso. Non me ne frega di questo mondo. Voglio sognare ed essere libero»; «Quindi ti prego, preghiamo con gioia».
Semplicemente, Mariano e Silvio credono davvero in quello che fanno, e vivono la loro professione – che nel loro piccolo onorano – in maniera talmente viscerale da non voler mai scendere a compromessi degradanti, preferendo piuttosto il taglio netto, il colpo di testa, quando le loro condizioni ideali non si concretizzano. Tanto, come insegna proprio Mariano ad Alessandro, essere un po’ matti «è ‘na qualità».
Boris e il calcio italiano: Stanis La Rochelle – Cristiano Ronaldo
Bisogna subito fare una ovvia precisazione: benché entrambi contengano in loro una quantità di ego straripante, il rapporto tra autoconsiderazione e considerazione esterna per queste due figure è enormemente diverso. Stanis è un “cane”, per dirla nel gergo cinematografico, Ronaldo, va beh, non c’è bisogno neanche di spiegare chi sia.
Se dovessimo parlare del Cristiano degli albori, probabilmente non sarebbe individuabile alcun punto di contatto, ma a partire dalla sua esperienza juventina, forse già dal tramonto di quella madrilena, e sicuramente nel suo ritorno a Manchester, il portoghese ha iniziato a condividere con l’attore un gusto per la complicazione oltre il necessario, spesso messa in moto da capricci – siano questi di non pressare o di non morire in nessuna fiction – che rendono insofferenti coloro che vi stanno attorno, costretti però il più delle volte a mantenersi sorridenti e accondiscendenti, per non incappare in lesa maestà. Alla fine quindi, sebbene circondati da milioni di fan, seppure capaci di portare comunque a casa quello per cui vengano pagati, sia con le quattro faccette con cui uno «copre due serie da 24 puntate l’una», che con il numero più alto di gol nella storia dell’altro, Stanis e CR7 risultano in definitiva essere due individui con cui difficilmente condivideresti un viaggio di 6 ore in macchina, un breve tragitto nell’ascensore o una fila al salumiere.
Boris e il calcio italiano: Cristina Avola Burkstaller – Mario Balotelli
No, non si parla di talento sprecato, anche perché entrambi dimostrano più di una volta di averne quanto basta per navigare tranquilli nella loro occupazione. Per Cristina e Super Mario il problema è la testa, e con ciò non si intende la testata che l’attrice dà a René dopo una leggera divergenza di vedute, ma la totale incapacità di essere regolarmente professionali, senza abbandonarsi a capricci snervanti che più di una volta vengono, con molta indulgenza, perdonati. Cristina e Mario paiono a tratti quasi costretti a un lavoro che non li appaga, lasciandoli rinchiusi in una gabbia d’oro in cui si limitano a fare il compitino, perché è tutto quello che serve. L’importante è fare quello che si deve fare e ricevere la busta paga, compiacersi del proprio operato non è parte del piano: «Quando segno non esulto perché segnare è il mio lavoro, avete mai visto un postino esultare quando consegna la posta?».
Forse, nelle loro ultime apparizioni, il personaggio di Cristina riesce a emanciparsi dall’aura da Balotelli della fiction, mostrandosi più matura e vogliosa di emanciparsi dalla “protezione” familiare. Per quanto riguarda Mario… beh, siamo ancora in attesa che ce la smonti, questa Serie A.
Boris e il calcio italiano: René Ferretti – Marco Giampaolo
C’è un elemento in particolare che si trascina assieme a entrambi al posto della loro ombra, oltre al vacuo titolo di «maestro»: la malinconia, il rimpianto di quello che poteva essere e non sarà mai, l’alone di occasione sprecata, in alcuni casi neanche mai arrivata. René e Marco sono due uomini genuini, pieni di idee, ambiziosi, speranzosi, fondamentalmente buoni e a tratti generosi, spesso dall’aspetto trascurato, perché messo in secondo piano rispetto al primo, puro interesse di fare il proprio lavoro. Non hanno sperimentato solo il fallimento, hanno conosciuto picchi, come l’acclamato Baule d’oro nella prima stagione di Boris, o il decimo posto con un ottimo calcio nella prima stagione di Empoli, ed anche riconoscimenti – «René Ferretti non è un regista, è LA REGIA!», Diego Lopez; «Giampaolo è uno dei più grandi talenti tra gli allenatori italiani», Maurizio Sarri – ma questi non sono che piccoli porticcioli sicuri in una vita navigata in acque sempre impervie.
Entrambi non sono esenti da colpe, non sono solo vittime di un destino che hanno comunque contribuito a plasmare, caratterizzati spesso da un’incapacità di visione periferica, di andare oltre i propri credo, le proprie nevrosi, i propri tic, rappresentati, ad esempio, per il regista dal profondo rapporto di amicizia e affetto con un pesce e un temperamento che spesso va a farsi benedire, per l’allenatore dal profondo rapporto di amicizia e affetto con il 4-3-1-2 e un integralismo tattico che ne consegue.
Entrambi paiono condannati a un dinamico immobilismo, una serie di peripezie e disavventure che li riportano sempre nella stessa torbida situazione lavorativa e forse esistenziale. Questo finché un giorno all’improvviso non capita tra le mani una manna dal cielo il cui nome inizia per M: Medical Dimension, Milan. E allora vai di «un’altra televisione è possibile», su con i «testa alta e giocare a calcio», fino a quando, un indizio dopo l’altro, i sogni si tolgono la maschera e si palesano per quello che erano fin dall’inizio: una trappola. E ai due, come dice Lopez al regista di Fiano Romano una volta scoperto l’inganno, non resta che andare incontro al proprio destino, nientemeno che il naufragio definitivo.
La reazione a questo enorme tradimento è passiva, di sconforto, verso il ritorno all’aurea mediocritas, in un tentativo disperato di mostrarsi ancora validi, ancora adatti a svolgere il proprio mestiere: René si prodiga per convincere la rete con Occhi del Cuore 3, poi spera in un ennesimo miracolo con il cinema; Giampaolo tenta il rilancio al Torino, poi sbarca con la coda tra le gambe a Genova, di nuovo dalla parte blucerchiata. Falliscono ancora, ma è una delusione ormai innocua, che anzi li conduce a un apatico abbandono di ogni aspirazione.
Boris e il calcio italiano: Tatti Barletta – Moise Kean
Per lungo tempo, aspettiamo Tatti Barletta e Moise Kean come Godot. Il primo è all’inizio letteralmente una running gag, un nome caricato di crescente valore memetico mano a mano che questa fantomatica comparsa viene menzionata dai protagonisti; il secondo invece si palesa prestissimo, sembra che resterà per sempre davanti ai nostri occhi e invece piano piano comincia a evaporare.
Capita poi che entrambi appaiano o riappaiano, un po’ a caso, senza grandi aspettative – per non dire proprio zero – a circondarli, apparentemente distanti eoni dalla vita da protagonista, ridimensionati nelle loro ambizioni artistico-tecniche, che pure non sarebbero infondate: Kean farà il centravanti titolare della Fiorentina, Tatti – finalmente in carne ed ossa – farà Giuda Iscariota. Due ruoli abbastanza equivalenti nell’attirarsi astio.
Quella che sembra l’ennesima conchiglia vuota tira invece fuori una perla, il riscatto. I gol a caterva di Moise, il ruolo da protagonista come Giuda di Tatti, in una serie, finalmente di qualità, di René. E per il momento, non ci è dato neanche sapere se questo sia il picco, o solo l’inizio, della loro scalata.
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