C’è un periodo dell’anno in cui i tifosi del Napoli percepiscono che qualcosa di particolarmente inquietante sta per accadere. Non è fissato nel tempo, non ricorre nello stesso momento dell’anno come fa, ad esempio, il Natale. È più simile alla Pasqua: si sa che arriverà ma non ce ne si rende conto fino a quando non si arriva alla Domenica delle Palme, e i fedeli tornano dalla messa con acqua santa, ramoscelli d’ulivo e benedizioni da recitare la settimana successiva. Proprio come a Pasqua, alcuni fanno il segno della croce, quasi fosse un gesto apotropaico, sperando che almeno stavolta non si sia andati troppo oltre, che il buonsenso comune non sia stato nuovamente sfidato. E invece, Aurelio De Laurentiis spiazza tutti ancora una volta.
Il patron del Napoli, nei suoi anni di presidenza, ha abituato a dichiarazioni che definire sopra le righe sarebbe un eufemismo nemmeno lontanamente vicino a descriverne la portata. Simbolo di una classe imprenditoriale che oggi risulterebbe anacronistica nel Vecchio Continente – ma non in Italia –, De Laurentiis svetta tra i suoi pari per i toni coloriti durante le interviste, per l’assenza di sfumature nei giudizi e la convinzione di essere sempre dalla parte della ragione; tratti che spopolano tra i dirigenti italiani ancora attaccati a una visione padronale, e che in lui ne raggiungono la quintessenza. Un uomo che, almeno all’apparenza, sembra voler cancellare la complessità delle cose con un semplice cenno della mano, come una zanzara che arrivi a ronzargli troppo vicino. E che spesso, proprio per la riduzione ai minimi termini di quella complessità si sdoppia, si contraddice e polarizza il giudizio su di lui in due categorie.
De Laurentiis è esattamente come un film di Tarantino, di Woody Allen o di Nanni Moretti: c’è chi lo odia e chi lo ama. I primi pensano sia un caciarone, maleducato, insopportabile so-tutto-io, retrogrado all’inverosimile e senza un minimo di empatia; i secondi probabilmente pensano lo stesso, ma «finalmente qualcuno ha il coraggio di dire le cose come stanno», senza peli sulla lingua, in questo mondo perbenista che continua a nascondersi dietro frasi di circostanza. Forse è per questo che ogni sua uscita porta con sé strascichi, dando vita a dibattiti, piccole discussioni o grandi liti tra tifosi e addetti ai lavori. Come se le parole seguissero il vecchio adagio «nel bene o nel male, purché se ne parli».
Ad ogni dichiarazione viene a crearsi un certo hype prima di premere play e ascoltarlo: ci saranno parole d’amore per i tifosi o le solite critiche? E i calciatori, incensati o cuori ingrati? Resteremo più colpiti o imbarazzati, o entrambe le cose? Insomma, quale De Laurentiis ci ritroveremo davanti? Abbiamo cercato di raccogliere i “momenti De Laurentiis”, tutte quelle volte in cui una delle sue diverse personalità è sembrata emergere dall’ombra suscitando in chi ascolta spaesamento, ilarità o imbarazzo.
De Laurentiis Megadirettore Galattico
De Laurentiis, lo sappiamo, è un uomo di cinema. È a Fantozzi che deve aver pensato quando, nel lontano 2007, propose la creazione di «uno stadio da 20.000 posti, come un teatro, con le poltrone in pelle umana».
Ricalcare le orme del Megadirettore Galattico, così attento al benessere dei propri dipendenti e al miglioramento della società nel lungo anzi lunghissimo periodo, deve essere l’aspirazione di ogni imprenditore che si rispetti. È una dichiarazione d’intenti, un filo che collega quarant’anni di storia industriale italiana: non si può cambiare rotta solo perché si parla di calcio. Anche lo sport deve trasformarsi, elevarsi ed elevare le persone. Solo i meritevoli saranno accolti, solo i meritevoli degni di godersi lo spettacolo di una partita: «Io farei lo stadio come se fosse un club, con un’iscrizione, come ad un circolo del tennis, dove se ti iscrivi, vogliono sapere chi sei, che fai». L’idea della Fidelity Card, con cui è possibile avere agevolazioni e una prelazione sull’acquisto dei biglietti per le partite, deve essere nata qui.
Ma non è tutto, perché «di questi 20.000 posti ne regaliamo 5.000 ai meno abbienti, che però hanno studiato, vanno bene a scuola, fanno l’università». E allora i fortunati sorteggiati, come Fantozzi, siederanno sulla pelle di coloro che probabilmente non ce l’hanno fatta, perché non abbastanza istruiti.
De Laurentiis Paternalista
«Il tifoso napoletano va rispettato, ha sempre ragione anche quando ha torto. Vuole vincere ed è giusto che sia così. Uno che tutta la settimana viene vessato da moglie, figli, amanti, padri, capiufficio quando va allo stadio – o in uno stadio virtuale davanti a un bel bicchiere di vino e un pezzo di casatiello con gli amici – trova finalmente il suo sfogo: vuole divertirsi, sono tutti pares inter pares, non c’è più una condizione sociale che li differenzia, si è tutti insieme per una causa comune».
Sulla falsariga del De Laurentiis Megadirettore Galattico, il Paternalista mostra un grado più alto di condiscendenza verso i propri tifosi. Li considera tutti come suoi figliocci, uniti dalla passione comune per il Napoli: c’è un livellamento delle coscienze, certo, ma il tono che utilizza durante l’intervista e alcune parole rivelatrici fanno intendere che per lui il livellamento sia verso il basso. L’idea di un tifoso vessato dalle fatiche della vita, che scarichi tutte le frustrazioni accumulate durante la settimana sulla squadra è un’idea di figura impotente, che non ha a disposizione altre valvole di sfogo. Il pallone diventa un modo per dimenticarsi dei problemi, l’oppio del popolo napoletano. Il presidente, nei panni di un monarca illuminato, offre in cambio panem et circecenses sotto forma di casatiello e stadi virtuali, facendo leva superficialmente sul folklore, dimenticando che nella cucina napoletana il casatiello si mangia solo a Pasqua, e non tutte le domeniche o nei turni infrasettimanali. Il suo modo di rispettare ricalca gli atteggiamenti del politico consumato, dando ragione agli elettori anche quando hanno torto, scordandosi degli insegnamenti di Totò, secondo cui «la ragione è dei fessi».
De Laurentiis Calciatore
È il 2018, e ai piedi delle Dolomiti si stende un piccolo paesino di poco più di mille abitanti, Dimaro. Siamo a metà luglio però, e per il comune si aggirano più di mille persone. Almeno un centinaio di loro accerchiano una piccola struttura in legno, nonostante la pioggia. In una mano lo smartphone, nell’altra l’ombrello, si continuano a ripetere due nomi ossessivamente, come un mantra: «Presidente» e «Cavani». A pochi centimetri di distanza, riparato dal maltempo sotto il tetto spiovente, Aurelio De Laurentiis distribuisce le magliette del Napoli per la nuova stagione e dispensa autografi. All’ennesima invocazione del Matador smette improvvisamente di stringere mani, richiama l’attenzione della folla tutta con il movimento circolare delle dita e tuona: «Ricordatevi una cosa – pausa scenica – sono io il vostro Cavani!». È una frase iconica, marchiata a fuoco nella memoria dei tifosi del Napoli. Ancora oggi viene ripresa sui campetti del Vesuviano o nei gruppi di studio universitari. Uno statement chiaro da parte di un membro della cerchia, che assume il ruolo di comando in assenza di un leader carismatico: non serve che arrivi qualcuno dall’esterno, perché tutto quello di cui abbiamo bisogno è in casa.
Eppure, tornando indietro all’estate del 2018, il Napoli non era di certo carente di figure carismatiche: il vuoto lasciato da Maurizio Sarri pochi mesi prima era stato appena riempito da Carlo Ancelotti, presentato in pompa magna con una posa alla 007. Gli esperti del calciomercato gettavano nel calderone nomi su nomi, da Cavani a Benzema – quest’ultimo definito in quel periodo «vecchio» proprio da ADL –, passando per James Rodríguez, come se il nome di Ancelotti fungesse da forza gravitazionale per i giocatori che aveva allenato o avrebbe voluto allenare. De Laurentiis deve essersi sentito trascurato, una semplice ombra proiettata dalla figura di capopopolo di Sarri e dalla corona di Ancelotti; e ora altre sagome si addensavano all’orizzonte, assottigliando sempre più quell’ombra. La dichiarazione allora può essere letta sotto una luce diversa: è un’affermazione di autorità, un ristabilire l’accentramento dei poteri. Con «sono io il vostro Cavani» il presidente sembra dire «sono io il Napoli», io l’architetto e l’architettura di questo club, colui che prende le decisioni; non Sarri, e nemmeno Ancelotti, che non sono altro che la diretta emanazione della mia volontà.
Al di là di tutte le dietrologie sulla psiche di De Laurentiis, il vero motivo per cui probabilmente non riusciamo a cancellare dalla mente questa frase è che di tanto in tanto balena l’immagine di lui in pantaloncini, la maglia numero sette sulle spalle e la fascetta azzurra tra i capelli argentati: ha appena segnato uno di quei gol di pura resistenza, uno di quelli in cui gli avversari sembrano scivolarti addosso, e per esultare alza la maglietta e mostra una scritta su sfondo bianco: «I belong to Jesus».
De Laurentiis Etico
Il nome di Cavani deve far scattare qualcosa in De Laurentiis, come una sorta di riflesso pavloviano che risvegli una parte del suo essere nascosta con grande fatica, e che non veda l’ora di saltar fuori.
È il 2013 e l’uruguagio è ancora un giocatore del Napoli. A De Laurentiis, sulla soglia della sede Lega Calcio, vengono insistentemente poste dai giornalisti domande sul futuro del Matador, sulla sua permanenza a Napoli e sul rapporto tra il presidente e il procuratore del calciatore. Risponde a quest’ultima domanda cercando di mantenere la calma, criticando il giornalismo italiano e il modo in cui le testate nazionali gestiscono il valore dell’informazione. Ne prende le distanze con fare stoico, dice di non arrabbiarsi più ormai, di leggere le notizie la mattina come fossero un gioco, un racconto completamente staccato dalla realtà in cui vive.
Il giornalista a quel punto incalza: «Quindi la verità com’è su Cavani?», e per De Laurentiis è come se un torero avesse steso davanti a lui un drappo rosso. Si scaglia contro i giornalisti sportivi, definendoli «gran cafoni». Alle risposte indignate risponde minacciando di passare dalle parole ai fatti, disposto anche a mettere le mani addosso a qualcuno pur di fermare lo scempio a cui la stampa lo sottopone. È una sfuriata feroce, che scalda De Laurentiis a tal punto da fargli rivelare il suo lato nascosto, una parte di lui che mai ci saremmo aspettati di vedere: dietro la coltre dell’imprenditore spietato, che gestisce la propria squadra di calcio con l’oculatezza di un industriale dickensiano, si nasconde in realtà un uomo dall’etica incrollabile, per cui il denaro è il simulacro della volgarità, uno strumento utile a dare un prezzo ad ogni singolo uomo, che di per sé gode di un valore intrinseco incalcolabile.
I giornalisti, secondo lui, sono interessati soltanto a «sapere quanto vale un giocatore, per quanto è stato venduto e quanto guadagna». Dieci anni prima del tempo De Laurentiis dà inizio alla battaglia contro la mercificazione dei calciatori e del calcio, che quest’estate pare aver raggiunto il suo apice con i trasferimenti di mercato in Arabia Saudita.
De Laurentiis d’Oriente
Il denaro torna ad essere un tema centrale nelle dichiarazioni di De Laurentiis, assumendo ancora una volta una carica negativa da cui prendere le distanze – almeno se ad essere accostati ai soldi non sono gli interessi della Società Sportiva Calcio Napoli.
Stavolta però non si tratta solo di soldi: siamo a ottobre 2019, e il Napoli sta vivendo un periodo di flessione in campionato. La guida di Ancelotti è in bilico, la tensione tra la proprietà e la squadra è alle stelle – come si scoprirà qualche settimana dopo – e la piazza è in fermento. Il clima arroventato suggerirebbe un basso profilo, ma De Laurentiis sta ai bassi profili come i maglioni di lana – di quelli pruriginosi, con le cuciture che torturano la pelle – all’estate. Così decide di concedersi un’intervista fiume del tutto improvvisata, in cui ne ha per tutti: dal valore di mercato di Koulibaly alla lungimiranza nell’acquistare Di Lorenzo; dalla fedeltà incondizionata ad Ancelotti – «può restare altri dieci anni», ma verrà esonerato esattamente un mese dopo – alle frasi da romanzo di formazione su Lorenzo Insigne.
La parte più spiazzante però arriva quando si parla dei rinnovi di Callejon e Mertens, in quei giorni accostati ad offerte provenienti dalla Cina: «Io non sono assolutamente disposto a fare uno sforzo importante. Ogni giocatore ha un suo valore in base ad alcuni parametri. Se poi ad un certo punto un giocatore vuole andare a fare le marchette in Cina dove viene strapagato per vivere due o tre anni di m*rda è un problema suo. Nella vita bisogna scegliere se si vuol lavorare solo per soldi».
Potremmo soffermarci soltanto sull’uso del linguaggio, e anche accusare i propri dipendenti di volersi prostituire al dio denaro le fa guadagnare punti. Ma è il riferimento alla Cina che più di tutti le offre di diritto un posto nell’Olimpo: qui De Laurentiis fa emergere tutta la sua avversione per la Repubblica Popolare, che forse già era trapelata un anno prima, in occasione della mancata cessione di Marek Hamšík al Dalian Yifang, identificato in un tweet della SSC Napoli con «i cinesi».
Non c’è altra motivazione nello scegliere di andare a vivere in Cina se non quella di seguire il denaro, che secondo il presidente del Napoli funge da compenso per ripagare una vita di… ci siamo capiti. Con poche parole De Laurentiis passa sopra alla seconda/prima potenza economica mondiale, culla della civiltà orientale e fonte di innumerevoli innovazioni che hanno modificato la cultura occidentale stessa. Passa sopra una storia millenaria fatta di dinastie, religioni, dialetti e cucina tradizionale, forse perché non ha mai avuto l’opportunità di visitarla e confrontarsi con essa. Per questo motivo vogliamo condividere con De Laurentiis e con voi gli otto posti da visitare se mai decideste di organizzare un viaggio in Cina.
Nel video sono presenti anche alcune immagini sulla cucina cinese, che forse non darà le stesse soddisfazioni di quella napoletana, ma per il confronto è necessario un assaggio. D’altra parte il segreto, nella vita, è essere curiosi, non giudicanti.
De Laurentiis Autostoppista
È l’estate del 2011, e il Napoli poche settimane prima si è qualificato alla Champions League 2011/2012. Una partecipazione europea che non si vedeva dai tempi di Maradona. Eppure, De Laurentiis è una furia nel parcheggio della sede della Lega Calcio, dove è appena terminato il sorteggio per il calendario della Serie A. Un sorteggio che non ha visto tutelato il Napoli nelle partite a cavallo dei gironi di Champions, e che ha scatenato l’ira del suo presidente. Nello sfogo dell’imprenditore romano possiamo ammirare: l’amore per il turpiloquio e per l’insulto gratuito; quello per il mondo del cinema, un mondo popolato da “signori”, a cui desidera ardentemente ritornare; la predilezione per il coup de théâtre. Il riff di chitarra di ‘Ain’t Talkin’ ‘Bout Love‘ accompagna l’uscita di scena al rallentatore di un De Laurentiis che salta su un motorino passato di lì per caso, senza accennare a voltarsi indietro. Una scena che con qualche effetto speciale in più e qualche costume più elaborato non avrebbe sfigurato in ‘Thor – Ragnarok‘.
Quello che non vediamo nel video è il volto gentile di De Laurentiis. Tempo dopo salterà fuori l’identità del ragazzo che gli diede un passaggio, un ventiquattrenne milanese di ritorno dalla palestra, che non seguiva il calcio e non aveva idea di chi Aurelio De Laurentiis fosse. È stato ricompensato con una Sportcity 300 dell’Aprilia, con annesso stemma del Napoli.
De Laurentiis Autocratico
Avremmo potuto chiudere l’articolo con il video precedente, il più iconico dell’era De Laurentiis a Napoli, quello che ha dato inizio alla sua legacy. Ma sarebbe stato come lasciare il lavoro a metà. Ora che il club è tornato a vincere lo Scudetto c’è bisogno di trovare una chiusura a quel cerchio apertosi con l’autostop in motorino, un modo per dare prospettiva all’arco narrativo di Aurelio De Laurentiis.
Non è stato necessario scavare a fondo, perché altre dichiarazioni sono arrivate subito dopo la conquista del campionato: «Io allo stadio celebrerei i matrimoni e le prime comunioni. Magari la Chiesa si potrebbe inquietare, ma basterebbe montare un altare benedetto, noi lo abbiamo fatto in ritiro a Dimaro: quante volte è venuto il cardinale Sepe a officiare la messa e nessuno si è mai scandalizzato?».
Si parla ancora di stadi. Della loro fatiscenza, della necessità di rinnovare le strutture. Ma si tratta davvero solo di questo? Qui siamo oltre il rinnovamento dello spazio e della fruizione dell’evento calcistico. Siamo addirittura oltre il fitto degli stadi per partitelle tra amici o per svelare il sesso di un figlio in arrivo.
Lo stadio come luogo per celebrare le funzioni religiose è il punto di non ritorno, il cavallo di Troia che De Laurentiis userebbe per far svanire ogni differenza tra sacro e profano. Il Maradona che diventa definitivamente un luogo di culto nella città dove il calcio, in determinati momenti, è venerato quasi come una religione. E Aurelio De Laurentiis che di colpo non sia più soltanto un presidente di club, ma una figura mistica a cui la Chiesa cattolica abbia concesso il suo benestare.
Lui, con i capelli impomatati e la barba argentata, vestito soltanto di una tunica bianca, che con le mani raccolte in preghiera in segno di approvazione osserva il vescovo di Napoli benedire il capo di un neonato con l’acqua santa. Un accentramento dei poteri che seguirebbe molto da vicino il modello della Corea del Nord. E che forse il terzo Scudetto del Napoli ha reso leggermente più verosimile.
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