Come scossi da un pensiero recondito, uno di quelli che avremmo voluto rimuovere in fretta, fummo sorpresi dalla notizia che Andrés Iniesta avesse annunciato il ritiro dal calcio giocato. E la sorpresa era dovuta al fatto che per noi fosse già da diverso tempo nella lista dei calciatori ritirati. E invece Don Andrés era ancora sportivamente vivo e lottava insieme a noi, a sei anni di distanza dagli ultimi highlights in maglia Barcellona. Era il 2018, l’anno del venticinquesimo titolo per i Culé, chiuso con una laconica vittoria casalinga per uno a zero contro la Real Sociedad, con il pubblico prono per novanta minuti più recupero in adorazione di un uomo, in attesa di quell’unico momento. L’attimo esatto in cui uno dei migliori interpreti di sempre avrebbe lasciato il suo palcoscenico preferito.
Ancora oggi non siamo assolutamente certi che ci sia vita su Marte, ma con opposta e vigorosa sicurezza possiamo giurare di aver visto Iniesta giocare ancora a calcio dopo quella partita e farlo con indosso un’altra maglia. È successo davvero, anche i più distratti se ne saranno accorti: per sei lunghissimi anni il centrocampista spagnolo ha vissuto e giocato in Giappone, tra le file del Vissel Kobe, finendo di sfuggita su qualche rubrica sportiva della domenica, mentre la sua pelata beffava i portieri avversari con un tiro da fuori. Dobbiamo ammetterlo a noi stessi: ce lo siamo bellamente dimenticati! Forse avremmo preferito che quell’1-0 con gol di Coutinho fosse stata la sua ultima partita, cristallizzandolo per sempre nell’immaginario del Barcellona. Ma tutto questo, semplicemente, non è successo: abbiamo difeso il ricordo del grande giocatore rimuovendo la coda della sua carriera, riservandogli lo stesso trattamento che rivolgiamo a tanti altri beniamini. Una sequela nutrita di giocatori che abbiamo visto dal vivo, di cui abbiamo comprato le magliette, a cui abbiamo affidato il destino del nostro fantacalcio e che oggi non occupano più un posto nei nostri pensieri.
Esiste un esercito di calciatori non ancora ritirati, uomini che non ci hanno fatto mai sapere se è giunto o meno il momento di dedicarsi attivamente alla propria famiglia per recuperare il tempo perduto in questi anni. Si muovono silenziosamente, ai margini del famigerato “calcio che conta”, vivono in attesa del prossimo supercorso di Coverciano o nella speranza che la guida di una o dell’altra squadra juniores gli venga assegnata per merito. Peggio ancora, alcuni di loro sognano di tornare a giocare. Come a voler essere l’ennesimo, stanco tributo alle loro gesta, queste sono le storie di alcuni di loro.
Carlos Bacca
Alcuni tifosi del Milan ancora rabbrividiscono al solo pensiero, sentono nuovamente il veleno di una vita fa che risale violento fino in bocca. Roba da matti, specialmente per chi si è esaltato con gusto a sparare le pistole di Krzysztof Piątek al cielo, ma dimentica che Carlos Bacca ha segnato 34 reti in 77 partite con i rossoneri, praticamente un gol ogni due gare. Erano gli anni del Milan fuori da tutte le competizioni europee, della terribile haka in mezzo al campo e di Matías Fernández a sostegno di Luiz Adriano. Banter era pura. Sono stati momenti terribili, in cui il Milan sembrava assemblato da un ragazzino che gioca la Master League per la prima volta, ma nonostante tutto Bacca il suo l’ha fatto.
Lo sapeva bene il Villareal, che di lì a poco e con fiuto per gli affari, avrebbe investito quasi 10 milioni di euro per riportare in Spagna uno che con il Siviglia aveva vinto due Europa League da protagonista. Infatti, puntualmente, il miracolo si è ripetuto di nuovo: nell’infinita finale di EL del 2021 tra Villarreal e Manchester United, quella dei ventuno rigori segnati e uno sbagliato da David de Gea, Carlos Bacca è partito dal primo minuto e a fine gara ha aggiunto la terza coppa europea al suo palmarès. Oggi, a 38 anni, il colombiano è tornato in patria, precisamente all’Atlético Junior, la squadra che lo lanciò. E non si torna a casa mica per svernare: nel 2023 ha vinto il campionato colombiano a distanza di oltre un decennio dai suoi primi due, l’anno dopo ha conquistato la classifica dei capocannonieri. Insomma, il Pescador de sueños continua a fare quello che ha sempre saputo fare alla grande.
Fernando Muslera
Nei quattro anni trascorsi in Italia, Fernando Muslera ha dato l’impressione di poter diventare uno dei migliori interpreti al mondo nel suo ruolo. Titolare tra i pali della Lazio, dai suoi guanti è passata prima la vittoria della Coppa Italia 2008/2009 e poi il trionfo in Supercoppa Italiana nell’anno successivo. Nell’estate 2010 Muslera è partito per il Sudafrica con il suo Uruguay, dove si è classificato terzo nella Coppa del Mondo, e un anno dopo ha vinto la Copa América. In tutte queste competizioni è sempre stato il portiere titolare della sua squadra. A 25 anni un futuro radioso gli si prospettava davanti.
Era il Galatasaray ad offrirglielo, una delle più importanti squadre del campionato turco, e malgrado la distorta percezione che molto spesso abbiamo dei campionati e delle squadre estere, di futuro radioso si è trattato per davvero. Fernando Muslera ha indossato i suoi nuovi colori per la prima volta l’11 settembre 2011 e da quel momento è stato ininterrottamente il portiere titolare della sua squadra per 529 partite, terzo per presenze nella storia degli Aslanlar. Un traguardo incredibile e un percorso costellato di soddisfazioni personali, in una terra che oggi accoglie chi al calcio nostrano non ha più nulla da dare. Per Muslera, invece, le porte della Turchia si sono aperte come si fa con un ospite gradito e ancora oggi la sua storia non è finita: a 38 anni inizia l’ultimo giro di contratto del portiere uruguaiano, che agli ordini di Okan Buruk proverà a vincere l’ottavo campionato turco della sua carriera. A guardarlo in faccia, sembra ancora eternamente giovane e sbarbato come la prima volta in cui ha vestito la maglia della Lazio: in panchina c’era Delio Rossi, era il 2007, e il suo compagno di reparto era Marco Ballotta, da cui ha forse rubato la ricetta per l’elisir di lunga vita.
Adel Taarabt
Dove eravamo rimasti? Ah, sì, era l’estate 2015: «Il centrocampista marocchino Adel Taarabt lascia il Queens Park Rangers e firma un quinquennale con il Benfica». Però sembra manchi qualcosa, è come se non tutte le cose fossero al loro posto. Ecco, cerchiamo qui, forse ci siamo: «Il Genoa a Cagliari con un Taarabt in più. Ufficializzato il ritorno in Italia dell’ex Milan: Jurić lo vede come vice-Bertolacci». Ora è tutto più chiaro, adesso è facile ricordare.
Quando nel 2013 il tecnico Harry Redknapp si è seduto sulla panchina del Queens Park Rangers, una delle prime responsabilità che si è voluto assolutamente assumere è stata quella di spedire Adel Taarabt il più lontano possibile dal suo centro di allenamento, definendolo pubblicamente «una testa calda». Eppure a Londra, col QPR, il fantasista marocchino ha vissuto indubbiamente gli anni più proficui della sua carriera, guidando la squadra verso il ritorno in Premier League con la fascia da capitano al braccio. Di lui è facile ricordarsi come di qualcuno che poteva essere ma non è stato, come si fa spesso con quell’amico che era un genio alle scuole superiori e che poi si è perso strada facendo. Forse con Taarabt questo gioco non vale, perché l’impressione è che lui non si sia mai perso, ma che stia ancora cercando la sua strada: oggi, a 35 anni, gioca negli Emirati Arabi Uniti con la maglia dell’Al-Nasr, affiancando un più giovane ma altrettanto dimenticato Manolo Gabbiadini.
Éver Banega
Cosa significa “non capire un giocatore”? Perché per tutto questo tempo ci siamo spesso detti che «non abbiamo mai capito Éver Banega», per dirne uno? Chissà cosa c’era da capire, in fondo, cosa ci avevano visto quelli che invece l’avevano capito: cosa c’era di così tanto diverso da tutti gli altri giocatori di calcio che, come il centrocampista argentino, hanno due gambe, due braccia e una certa predisposizione all’impatto del corpo col pallone. Nel 2016 Banega è arrivato all’Inter come la grande steal della sessione estiva, preso a zero dopo la fine del suo contratto al Siviglia e pronto a ridefinire il concetto stesso di centrocampista; un anno dopo è andato via come una delle grandi plusvalenze dell’anno, senza rimpianti di sorta, venduto per 7 milioni di euro allo stesso Siviglia. Forse è questo che non abbiamo capito, perché una squadra come il Siviglia ha aspettato un anno per riprenderselo, pagando inoltre 7 milioni.
Nel 2020, a soli 32 anni, Banega ha salutato Siviglia per la seconda volta ed è partito verso l’Arabia Saudita, firmando un quadriennale con l’Al-Shabab. Con 22 gol e 25 assist in 108 presenze, Banega si è presentato ai blocchi di partenza della presunta rivoluzione del calcio saudita come uno dei giocatori simbolo del campionato, salvo poi essere ceduto a titolo gratuito al Newell’s e rimpiazzato da Giacomo Bonavantura – già, ecco che fine aveva fatto.
Javier Hernández
Quel soprannome, Chicharito, o Pisellino in italiano, ha da sempre aiutato a costruire l’immagine di qualcosa che non potrà mai diventare grande, non potrà mai crescere in alcun senso. Ben si sposava con la stazza fisica di Javier Hernández, che al contrario di quanto si possa immaginare, ha invece compiuto già 36 anni ed è arrivato al crepuscolo di una carriera comunque di successo: del resto non si finisce casualmente a giocare per Manchester United e Real Madrid e non si segnano per caso oltre 250 gol da professionista tra club e Nazionale.
Già, la Nazionale, la maledetta Nazionale messicana, la squadra a cui Hernández ha dato tutto quello che aveva e forse anche di più. Con el Tricolor, Chicharito ha segnato 52 reti e vinto la Gold Cup nel 2011, segnando anche un gol in finale. Nel 2020 ha firmato con i Los Angeles Galaxy, in MLS, principalmente per il ghiotto stipendio ma anche per essere più vicino a casa, per rimanere a contatto con la rappresentativa del suo Paese, di cui è il miglior marcatore di sempre. E ci è riuscito: negli Stati Uniti Hernández è rinato ancora, segnando 37 reti in due anni e mezzo e guadagnandosi sul campo un posto per il Mondiale qatariota. Il biglietto aereo era già stampato e portava sopra il suo nome e quello di altri veterani come Guillermo Ochoa. Se non fosse stato per quel piccolo, insignificante dettaglio, per quella sorpresa poco gradita organizzata dal Chicharito, per quell’inezia di qualche anno prima, quando portò alcune prostitute nel ritiro del Messico, generando un po’ di problemi ai compagni di squadra.
Se non fosse stato per questo, per una questione di dettagli, staremmo parlando magari di un altro finale di carriera, di un altro Mondiale, di un’altra vita. Ve lo immaginate il Messico che batte l’Argentina nella seconda giornata grazie a Hernández, estromettendo l’Albiceleste dal Mondiale? E invece niente Qatar, niente ultimo giro, niente di niente. Mestamente, Hernández è tornato a Los Angeles e dalla possibilità di sfidare Messi è passato allo stare in infermeria per la rottura del legamento crociato, accanto a Martín Cáceres. Che poi Messi ci è pure arrivato negli USA, ma lui, forse traumatizzato dal pensiero, è tornato in Messico, nel suo Chivas. Che strana la vita.
Carlos Vela
Se siete appassionati di calcio giovanile da tanti anni, allora sicuramente conoscerete la lista dei migliori prospetti pubblicata da Don Balón, un elenco di cento giovani calciatori consigliati dalla rivista spagnola. I ragazzi selezionati dalla redazione possono essere comodamente suddivisi così: fenomeni veri, giocatori random dell’Arsenal, ragazzi inseriti per far felice qualche procuratore, bidoni.
Il 2010 è stato l’ultimo anno di pubblicazione di questa speciale classifica e rileggerla oggi è un piacevole esercizio di stile che permette di impegnare un po’ di tempo a chiedersi «Ma che fine ha fatto?». Ci sono giocatori che hanno fatto delle grandi carriere, come Gareth Bale, Toni Kroos o Neymar; ci sono tante, tantissime promesse incompiute, come Jack Rodwell e Federico Macheda; ci sono, infine, tanti giocatori dell’Arsenal, appunto, e uno di questi è Carlos Vela.
Per Vela, messicano di Cancùn, l’Arsenal è stato molto più un’illusione che un sogno e oggi, a 35 anni, sono già sette le stagioni di Major League Soccer alle spalle. Tutte giocate con i Los Angeles FC, l’altra squadra della Città degli Angeli, dando vita negli anni a un derby che è sia una stracittadina tra due squadre rivali, sia uno scontro fratricida tra lui e il Chicharito. La carriera di Vela ha preso però una piega tutta sua, in alcuni frangenti vissuta proprio all’ombra del connazionale, che qualche soddisfazione almeno se l’è tolta. L’orologio ticchetta rapido ma Carlos non ci pensa: sente di avere ancora tanto da dare a questo sport e non esclude il ritorno in Europa. Nel 2019 ha vinto il titolo di capocannoniere nella MLS, davanti a Ibrahimović, con cui si è scambiato battute al veleno per tutta la stagione. Vela non si sentiva inferiore al fenomeno svedese, che però aveva giusto sette anni in più di lui e che ha fatto in tempo a tornare in Italia e vincere uno Scudetto prima di ritirarsi, mentre il messicano vanta la MLS del 2022 come trofeo più prestigioso della sua carriera di club. Vela e Ibrahimovic a confronto, roba da non credere.
Hulk
Sarà stato grazie al soprannome e alla contestuale esplosione del Marvel Cinematic Universe, o forse è merito di una stazza fisica esplosiva, messa ancora più in risalto dalle magliette sintetiche e attillate fatte apposta per lui; quasi sicuramente deve tanto agli oltre 150 gol segnati nel periodo tra Porto e Zenit, ed è mettendo insieme tutti questi dettagli che ricordiamo come Givanildo Vieira de Souza detto Hulk sembrasse un demone in campo.
Il genere di gol segnato da Hulk che più ricordiamo e è indubbiamente la conclusione di potenza, e ci mancherebbe pure con quella massa di muscoli che sembra quasi inadatta a uno sportivo che deve calciare il pallone e non annientare gli avversari.
Nei suoi anni migliori, ovvero tra il 2010 e il 2016, Hulk ha contribuito a creare quella farsa dell’attaccante muscolare, che stava rinverdendo i fasti dei centravanti dei tardi anni Novanta, provocando eccitazione tra i nostalgici dei tempi che furono: senza scomodare Messi o Ronaldo, basti pensare che, a livello mondiale, il prototipo di attaccante alla Hulk, modello furgone lanciato senza freni contro gli avversari, lottava per imporsi sui vari Sergio Agüero, Luis Suárez e Gonzalo Higuaín, centravanti in grado di fare almeno dieci cose in più del giocatore brasiliano.
Oggi, a 38 anni, dopo aver attraversato Giappone, Portogallo, Russia e Cina, Hulk non ha ancora smesso di giocare ed è tornato dal 2021 in Brasile, all’Atlético Mineiro, dove si tiene stretta una media di 10-15 reti a campionato, vendendo ai tifosi la sua bugia vincente, l’illusione che basti fare 20 serie di curl martello al giorno per essere un grande giocatore.
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