Let it be è una canzone dei Beatles del 1970, una delle ultime e delle più note, e significa «lascia che sia, lascia correre». Il brano era un invito che Paul McCartney aveva ricevuto in un sogno da sua madre, ad essere pazienti con gli altri e perseveranti nei periodi difficili. Nell’agosto ‘74 Bob Paisley si siede da manager sulla panchina del Liverpool e decide di seguire il principio alla base del ritornello che riecheggia per tutta la città, sotto un cielo ammantato dei diamanti di Lucy e lungo un Merseyside ingombrato di sottomarini gialli. Lascia correre i suoi ragazzi. Coi tacchetti e coi bicchieri.
In tutte le taverne dal Vallo di Adriano alle bianche scogliere di Dover, e oltre, negli interminabili Gran Tour d’Europa, perché poi i ragazzi corrono anche in tutti i campi. Inarrestabili. Vincono spesso e vincono tutto, più volte, forse perché vogliono essere sicuri di avere delle cause per cui brindare dopo i triplici fischi. Paisley lascia correre sino a quando, sette anni e tre Coppe dei Campioni dopo, uno di quelli che più correva, dei più sfrenati, dentro e fuori gli stadi, si becca una denuncia per aggressione nel nord del Galles. Il suo nome è Jimmy Case, e fino ai 21 anni non ha voluto far parte nella prima squadra perché voleva completare il praticantato da elettricista.
Una vita rosso scintillante
Pur avendo per fortuna deciso di assecondare il suo talento per il pallone, è legittimo il sospetto che si sia sempre trascinato dietro quanto appreso. La sua carriera è una serie di contatti mancati mal allacciati, da cui sono scaturite scintille; queste non lo hanno mai bruciato, e al contrario hanno infiammato Anfield, e da lì sono divampate in tutto il mondo.
I primi contatti sfilacciati sarebbero le torbide frequentazioni della zona sud di Liverpool, nel sobborgo di Allerton in cui è cresciuto e nato il 18 maggio del 1954, dalle quali secondo Paisley, che dal 1932 abitava a Woolton, ad appena due miglia di distanza, non sarebbe mai riuscito ad allontanarsi definitivamente. In realtà sembra che Jimmy da frugoletto fosse stato un birichino, di quelli che la mamma deve tenere sempre sott’occhio, ma che nemmeno crescendo si fosse mai inguaiato seriamente. Anzi, di conoscenze in loco non ne aveva abbastanza: proprio Paul McCartney, ovviamente il suo cantante preferito, abitava pure lui nei dintorni, ma da Campione d’Europa in carica gli toccherà lamentarsi di non essere ancora mai riuscito di incontrarlo.
Jimmy Case manda in cortocircuito ogni narrativa sul talento sregolato e sul campione morigerato che non eccede manco con l’acqua frizzante: semplicemente era entrambi. Esagerava senza uscire dai limiti. Forgiato dall’etica del lavoro instillatagli dai genitori e dalla cultura celtica poco british e molto english della working class thatcheriana, come un personaggio comprimario di Dickens o Ken Loach, pensava alla famiglia e lavorava duro, e di conseguenza voleva sbizzarrirsi nelle ore e negli spazi in cui gli era concesso farlo. Se in allenamento i polmoni o il dribbling non risentivano delle ore piccole, perché preoccuparsi?
Il suo calcio era quasi espressione del suo stile di vita ambivalente: picchiava e regalava piccole magie. In possesso di palla saltava l’uomo e lo rincorreva ferocemente quando ne era sprovvisto. Aveva la fama di essere tignoso e duro, persino per gli standard dell’Inghilterra anni Settanta, ma niente affatto scorretto. Mancino, si batteva lungo tutta la fascia, dalle retrovie sino alla trequarti destra avversaria, da dove spesso si accentrava per rovesciare dei montanti secchi nella rete altrui. Marcò 46 reti in 269 partite con i Reds – in sei anni, dal 1974/1975 al 1980/1981 –, un’ala molto prolifica per i tempi.
Per poco non mancò anche il contatto col pallone: da ragazzino era considerato troppo basso per andare avanti in quel mondo, poi una crescita improvvisa e straripante proprio sul finire dell’adolescenza gli donò sufficiente altezza – 175 centimetri – e atletismo per competere a livello professionistico; questo quando, per colmare il divario, aveva già acquisito la tecnica dei folletti irriverenti, che sgattaiolano dove vogliono con la sfera di cuoio celata tra i calzettoni.
Come accennato in precedenza, dopo la scuola aveva incominciato a formarsi come elettricista, per cui non volle esordire da professionista sino a che non si fosse qualificato in quell’occupazione; durante il giorno lavorava, le sere e un paio di mattine si allenava con le riserve.
Completa l’idilliaco percorso di figlio della città che approda in prima squadra col cambio della guardia da Bill Shankly al vice Paisley, ed il rosso torno ad essere Urbe et Orbi il colore della vittoria, come ai tempi di Roma Invicta: Coppa UEFA nel 1975/1976, Coppa Campioni nel 1976/1977, 1977/1978 e 1980/1981, e quattro campionati, con una sola enorme lacuna, la FA Cup, persa da finalista contro gli altri Reds, i Diavoli di Manchester, nonostante proprio Jimmy peschi un momentaneo pareggio con un controllo tra l’arte circense e quella manieristica.
Jimmy Case ha inguantato i piedini per onorare il Tempio del calcio
Il contatto solo sfiorato con il trofeo più antico rimarrà una delle delusioni più cocenti di una carriera colma di gloria, assieme a quello mancato con i Three Lions: giovane e titolarissimo del club più forte d’Europa, incredibilmente, non riuscirà a registrare una sola presenza con l’Inghilterra, nonostante nel 1978 non riesca a centrare la qualificazione al Mondiale per il secondo anno consecutivo.
Veri eredi dei Normanni, i semi-invincibili di Paisley non fanno tabula rasa esclusivamente con gli avversari di turno, ma mettono a soqquadro anche le stanze di tutti gli alberghi in cui vengono ospitati per le trasferte, come se fosse un giocondo ma selvaggio rituale propiziatorio, al termine del quale i più avvinazzati e incontenibili si riversano nei pub del luogo per farsi offrire svariate pinte dagli immancabili e sempre generosi supporter. Le spedizioni alle osterie sono capeggiate, in sfregio alle coronarie di Paisley, proprio da quelli che dopo la cessione di Kevin Keegan all’Amburgo sono i giocatori più forti e rispettati: Jimmy Case e Ray Kennedy.
Il manager ha un’attitudine da padre burbero ma comprensivo, in fondo sa che non vanno oltre qualche bravata, e che nella formula per i loro successi alla rigidità degli schemi va miscelata qualche goccia di luppolo ed esuberanza. Gli incessanti atteggiamenti da turbolenti liceali in gita finiscono però per logorargli i nervi, e quando i due, nella primavera del 1980, vengono denunciati per aggressione per una rissa scoppiata in un bar durante una trasferta nel nord del Galles, in cui sembra tuttavia non avessero tutti i torti, Paisley capisce che deve sacrificarne almeno uno. L’occasione propizia gliela fornisce l’esplosione di Sammy Lee nel medesimo ruolo, altro figlio di Liverpool dal buon piede e dalla grande corsa, che relega Case al ruolo di sacrificabile comprimario.
Jimmy viene costretto ad andarsene al Brigthon per la consistente cifra di 450.000 sterline e l’assai tosto e promettente difensore Mark Lawrenson, che marcherà 281 presenze in riva al Merseyside.
From the Liver Bird to the Seagull
Può la cicala che sapeva lavorare come una formica liberare il suo dolce canto lontano dal suo rosso nido? Accorda gli strumenti, trova ritmi più distanti dalle fanfare dei trionfi e più vicine alle ballate, e riprende a far danzare tutti: di gioia i suoi tifosi, di disperazione i terzini tarantolati.
I Seagull si apprestano a terminare il periodo d’oro della loro storia, che li ha visti perlopiù al di sotto persino della seconda divisione: Jimmy Case, condottiero carico di allori e medaglie, vi arriva come una rockstar. Lo fanno subito capitano, e si rivela degno del compito: guida tecnica e morale, domina la fascia con l’impegno e la sontuosità per cui si era fatto osannare ad Anfield, ottenendo però che nessuno gli faccia troppe pressioni su quello che fa oltrepassata la soglia dello spogliatoio. Finché corre, segna e fa segnare, perché angustiare l’unico campione in rosa?
I suoi compagni però, per quanto sia ispirante, non possono reggerne il passo, e il 1982/1983 vede il club retrocedere, ultimissimo; in un’annata altrimenti disastrosa, Jimmy Case conduce quello che de facto è un club “di Serie B” in finale di FA Cup, di nuovo contro il Manchester United.
Lui è più indemoniato dei diavoli: sul suo assist arriva il sorprendente 1-0, piazza l’angolo da cui arriva all’87’ il definitivo 2-2, e da un suo lancio a un minuto dalla fine dei supplementari sfiorano gol, vittoria e un celeste Parnaso. Il replay li trascina invece agli inferi con uno spietato 4-0.
Tutto il percorso del Brighton in quella FA Cup, con un Case nelle vesti di trascinatore assoluto
Jimmy Case sino al marzo ‘85 prova vanamente a ricondurre il suo secondo club in massima divisione, poi approda al Southampton, appena giunto secondo in Premier Division. Lì dopo appena qualche mese è nuovamente capitano, e si diverte a fare da guida ad altri due che a modo loro sono stati dei matti responsabili: Matthew Le Tissier e Alan Shearer.
Nonostante si inoltri sempre di più oltre i trenta, di stagione in stagione le sue partite non perdono nulla in intensità o i suoi passaggi in lucidità, per cui ancora agli albori degli anni Novanta risulta tra i migliori centrocampisti in assoluto della lega. Una sconfitta ai supplementari contro il “suo” Liverpool in semifinale di FA Cup nell’86 gli impedisce per un soffio di essere il primo a disputare la finale della competizione con tre squadre diverse, segno evidente che gli Dei del pallone lo volevano a tutti i costi relegato nel novero dei dannati piuttosto che nel Pantheon dei Saints vincenti.
Nel giugno del ’91 il neo allenatore Ian Branfoot decide che è troppo vecchio per continuare a competere a quei livelli, e acrimoniosamente lo regala al Bournemouth di Sam Allardyce, in third divison: la decisione gli verrà rinfacciata dai tifosi per tutti i due anni e mezzo in cui siederà al The Dell.
Mentre oggi è più frequente che le vecchie leggende del professionismo si ostinino a giocare, anche in leghe minori, sin oltre i quarant’anni, Jimmy Case stupisce una volta di più quando decide e riesce a stupire anche lontano dalle luci della ribalta, ad esempio conducendo il Brighton da allenatore-giocatore in un suo ritorno sulla Manica. Sarà la sua ultima impresa prima del ritiro definitivo, annunciato il 10 novembre 1995.
Nel corso della sua carriera gli allenatori che lo hanno avuto sotto la propria guida non hanno mai compreso come umiltà e sfacciataggine potessero convivere nella sua persona, come potesse essere assieme il primo dei professionisti e dei compagni di bevute. Sarebbe forse bastato canticchiarsi il finale di una famosa nenia:
Speaking words of wisdom, let it be.
Let it be, let it be.
There will be an answer, let it be.
Let it be, let it be,
Whisper words of wisdom, let it be.
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