Nikolai Dmitrievič Kondratiev e Roman Arkadyevich Abramovič sono due russi che hanno conosciuto diverse estremità della stella sovietica: il primo è stato un economista che ne ha osservato il sorgere da troppo vicino, restandone folgorato, mentre il secondo, cinico affarista, sulle ombre del vorticoso tramonto dell’URSS, ha forgiato una fortuna faraonica.
L’uno avrebbe potuto suggerire spiegazioni, e l’altro ancor oggi potrebbe, sulla mancata presenza dell’Italia al mondiale da “loro” ospitato, più lucide e credibili di quelle offerte dall’ex commissario tecnico e dall’ex presidente della Federazione, entrambi piuttosto risoluti nell’accusarsi a vicenda per la debacle.
Un’ascesa vertiginosa
Kondratiev fu uno dei propugnatori delle riforme socialiste varate tra il 1917 e il 1928, quando divenne inviso a Stalin, che lo fece incarcerare nel 1930 e fucilare nel 1938. Teorizzò le Onde K – o di Kondratiev, per l’appunto –, ovvero la necessità dei sistemi economici capitalistici di susseguirsi in cicli: ogni periodo di crescita necessita di essere preceduto e seguito da uno di crisi, e viceversa. L’applicazione di tale principio trova riscontro in differenti contesti, tra cui il declinare dell’Impero pallonaro: la Serie A.
Pallonaro sia in quanto inerente a una sfera da pigliare a pedate, che nell’accezione, dedotta dal vernacolo romano, di millantatore: un colosso solo apparente, abilissimo nel mascherare crepe e piedi d’argilla dietro scarpini e lustrini.
Dalla stagione 1989/1990, trionfale premessa alla rassegna iridata in casa, al 1998/1999, quando si è disputata l’ultima Coppa delle Coppe, le squadre italiane si imposero in 13 delle 30 edizioni delle tre principali competizioni europee, e colsero 11 secondi posti, dimostrandosi capaci di raggiungere l’ultimo atto nei due terzi dei tornei disputati. Hanno sollevato la Coppa UEFA, la manifestazione tra queste che più di ogni altra evidenziava il confronto tra i paesi nel complesso piuttosto che tra le singole compagini, 7 volte su 10, con una sola finale senza di loro e ben quattro di esse contraddistinte da “derby” tricolori. Sono i numeri di una supremazia continentale, un ricalco calciofilo dell’Impero Romano, scaturito, esattamente come il dominio dei Cesari, tanto da una ferrea organizzazione tattica, quanto dalla sfrenata ambizione di uomini già ricchi e potenti e dal dilagare della cupidigia; similmente, i medesimi vizi che hanno favorito l’ascesa, eccessivamente eradicatisi nella prosperità, hanno accelerato la discesa nella miseria.
Malaffare e malcostume, carburatori di trofei
Le principali rivali della Serie A odierna sono le massime divisioni di Inghilterra, Germania e Spagna. La crescita delle prime due, Premiership e Bundesliga, è dovuta a politiche volte a favorire competitività, spirito imprenditoriale e regolarità dei bilanci, mentre la Liga iberica deve le sue fortune all’occhio privilegiato che da oltre un ventennio riserva ai suoi giovani, assicurandosi un costante ricambio di qualità tra i giocatori; decisamente agli opposti di tali modelli virtuosi, gli elementi chiave dei ripetuti successi italiani degli anni ’90 sono stati malaffare e malcostume.
Calisto Tanzi, Sergio Cragnotti, Mario Cecchi Gori oltre ad essere protagonisti di tre tra i più grandi crack finanziari nella storia repubblicana erano, rispettivamente, i proprietari di Parma, Lazio e Fiorentina, tre club sfruttati per coprire gli spaventosi buchi di Parmalat, Cirio e Gruppo Cecchi Gori.
Con investimenti nel calcio di centinaia di miliardi di lire queste figure miravano a creare una suadente illusione attorno alle loro compagnie malate, tale che nessuno potesse sospettare delle crisi di liquidità che le stringevano; dietro i numerosi e consistenti flussi di denaro del calcio mercato ne celavano altri suscettibili dell’indesiderata attenzione di azionisti, stampa e fiamme gialle. Mercati forzatamente sontuosi rivestivano le rose di campioni provenienti da tutto il mondo.
È inquietante quanto si assomiglino le parabole dei tre club: a un cambio di proprietà a inizio anni ’90 è sempre seguito un periodo di successi, culminato in un disastro finanziario.
Considerando che Silvio Berlusconi ha acquisito il Milan nell’estate del 1985 ed è entrato in politica solo nel 1993, quando le sue imprese erano – per ammissione dei suoi collaboratori più stretti, in primis Fedele Confalonieri – a un passo dalla bancarotta, non è assurdo ipotizzare che l’ex premier intendesse servirsene per fini analoghi ai famigerati imprenditori sopramenzionati; addirittura, è più plausibile che sia “sceso in campo” per salvare – anche – la compagine rossonera, uno degli asset principali del suo colossale patrimonio, piuttosto che l’abbia comprata col deliberato scopo di utilizzarla come ascensore per la sua scalata a Palazzo Chigi, come viene frequentemente teorizzato.
La generosa attitudine del Cavaliere verso il Diavolo spiega molto anche dell’altro male che ha reso grande la Serie A, l’abuso del mecenatismo.
Il calcio è uno sport naturalmente legato al mecenatismo, operato da uomini molto facoltosi per ragioni di prestigio, interessi reconditi o financo per passione.
L’Italia è un paese dove questa propensione da sempre viene esasperata. Esemplari le figura di Achille Lauro e Lamberto Mazza.
Lauro, celebre e ardimentoso armatore, è il controverso sindaco di Napoli cui viene imputato l’inizio del sacco edilizio nel capoluogo campano; maestro riconosciuto del voto di scambio, per meglio calamitarsi il popolo acquistò la squadra della città nel 1952, e regalò subito ai tifosi l’ariete Hesse Jeppson per 105 milioni di lire, una cifra sufficientemente alta da far soprannominare il neo centravanti del Ciuccio “Il Banco di Napoli”. Restò il proprietario sino al 1969 ma gli riuscì di conservare la poltrona da deputato – fu eletto 4 volte alla Camera e una al Senato – sino al 1979, ormai ultranovantenne.
Mazza, presidente del gigante degli elettrodomestici Zanussi e dell’Udinese, nel giugno 1983 annunciò l’acquisto del funambolo Zico, nonostante il costo di sei miliardi di lire, due in più di quanti ce ne fossero nelle casse del club friulano. La Zanussi, nonostante i 4.500 dei suoi 30.000 dipendenti che rischiavano la cassa integrazione e le proteste di giornali e sindacati, avrebbe coperto l’esborso. Nessuno scese in piazza per lamentarsene, in compenso quando la FIGC provò ad annullare l’operazione per presunte scorrettezze nella trattativa, migliaia di tifosi si riversarono nella Via XX Settembre di Udine allo slogan “O Zico o l’Austria”, minacciando la scissione dall’Italia matrigna.
Questo per sottolineare come la prosperità della Serie A non derivasse tanto da una maggiore presenza di ricconi disposti a spendervi i loro più o meno illeciti guadagni rispetto al resto d’Europa, quanto da una cultura dominante che non solo tollerava spese esorbitanti per il dio pallone, ma arrivava persino a incentivarle.
Tra il diavolo e l’acqua santa
L’Impero pallonaro non poggiava esclusivamente sul marcio di carte truffaldine e populismo mascherato, ma anche su elementi più virtuosi e durevoli.
La lunga tradizione portava in dote, allora come oggi, tecnici preparati e competenti; per Italia ‘90 gli stadi vennero ristrutturati, suscitando il plauso generale – sciaguratamente, le migliorie apportate divennero obsolete nell’arco di pochi anni –; quel ventennio vide un inaudito rifiorire di fuoriclasse targati azzurro, come se il fato, come con la Firenze foraggiata dai Medici, avesse voluto favorire in ogni modo l’estro laddove già si trovava l’oro.
Vi è un ultimo fattore da considerare: tra il 1970 e il 1980, il calcio nello Stivale aveva mostrato di essere in difficoltà. Il bottino internazionale racimolato ammontava a due soli trofei, una UEFA e una Coppa delle Coppe, mentre gli Europei in casa del 1980 erano stati un insuccesso sportivo e di pubblico. Ciò conferma i paralleli con le teorie di Kondratiev: la crescita era stata preceduta da una crisi.
I club erano poco competitivi valicato il San Bernardo, a causa del divieto di tesserare giocatori stranieri posto nel 1966 alle compagini italiane. Nel 1980 le frontiere vennero riaperte e fu permesso di mettere a contratto uno straniero per squadra. In appena due anni il limite fu alzato prima a due e poi a tre, prima di rimanere stabile per molto tempo.
Grazie a questo provvedimento gli undici del Bel Paese divennero formidabili: avendo solo pochi spazi per assi esotici, i dirigenti si assicuravano che quelli ingaggiati fossero in grado di fare la differenza.
In quegli anni molte squadre pur piene di assi italiani venivano ricordate sopratutto per i fuoriclasse stranieri, abbinati a schemi italianissimi: il Milan degli olandesi, l’Inter dei tedeschi, il Napoli di Maradona, ecc.
Il calcio globale, rubli e petrodollari
La stagione 2002/2003 viene considerato il culmine dell’egemonia calcistica italiana. Nella finale di Champions League, a maggio inoltrato, la principale competizione per club, si affrontano infatti due illustri rappresentanti del Bel Paese, Milan e Juventus. Dal giugno successivo cambierà tutto a causa di Roman Abramovič.
È un magnate russo di cui si sa poco o nulla quando viene annunciato il suo acquisto del club inglese del Chelsea per sessanta milioni di sterline. In seguito emergeranno ombre sul suo conto, tali da far sospettare che sia stato un importante ausilio per Putin sulla strada per il Cremlino, ricevendone in cambio consistenti vantaggi, e che il Chelsea sia una specie di assicurazione sulla vita, sufficientemente vistosa da tutelarlo nel caso in cui il potentissimo alleato decidesse di sbarazzarsi di lui.
Forse è proprio la maggior forza diplomatica della Gran Bretagna e la sua ostilità alla Russia a far preferire una squadra inglese a una italiana all’enigmatico Roman. Quello che conta è che ha rivelato all’intero orbe quanto fosse glamour la Premier League. Al suo approdo nel football in quella lega vi erano solo due squadre con proprietà non inglesi, il Fulham del proprietario egiziano di Harrods, Mohamed Al-Fayed, e il Portsmouth dello speculatore serbo Milan Mandarić. Nel 2018, tre lustri dopo, sono solo quattro i club ad essere del tutto in mano britannica, e anche la serie cadetta, la Championship, è rapidamente diventata terra di conquista per Paperoni d’oltremare, tra cui gli italiani stessi, come i Pozzo o Cellino.
Perché è glamour? I ricavi provenienti dai diritti televisivi sono ripartiti con equità, rendendo il campionato equilibrato e divertente da seguire; gli investimenti in infrastrutture come stadi, alberghi e giovanili hanno tempistiche burocratiche piuttosto brevi; il principale operator per le pay per view, Sky – sostanzialmente i Murdoch – ha il focus dei suoi interessi in Inghilterra.
Si è così creata una spirale positiva: soldi e investimenti chiamano investimenti e soldi. Il Sunderland ultimo in classifica nel 2016/2017 ha percepito 93 milioni di sterline di diritti televisivi, circa 100 milioni di euro, all’incirca quanti ne ha percepiti la Juventus Campione della Serie A nel medesimo periodo.
Per fronteggiare la globalizzazione i club spagnoli sono stati capaci di trovare linfa vitale dalle politiche pro giovani, mentre i due club principali, Barcellona e Real Madrid, hanno potuto contare su una vastissima base azionaria popolare, un modello di conduzione societaria che nello Stivale non ha mai avuto molta fortuna; i tedeschi hanno puntato su un’organizzazione manageriale delle loro risorse alquanto professionale e pure loro sulla crescita dei vivai, ritrovandosi nell’arco di un quindicennio con società economicamente solide e rose colme di arrembanti speranze, orgogliose di esibirsi in stadi polifunzionali di nuova generazione.
In tutte e tre queste nazioni l’esplorazione delle proficue possibilità offerte dal marketing alle latitudini italiane è stata percepita con grave ritardo; mentre sulle sponde del Tamigi, del Reno e del Manzanarre le federazioni calcistiche riescono a imporre la loro volontà sui club, la FIGC è schiava delle loro beghe.
A queste condizioni è molto difficile attirare i capitali stranieri, e infatti sino al febbraio 2011, quando il finanziere James Pallotta ha comprato la Roma, l’ultimo proprietà estera nella massima divisione corrispondeva alla fugace esperienza col Vicenza nel ’97 dei britannici dell’Enic.
A passi sbilenchi verso il futuro
I presidenti nel Bel Paese sono stati a lungo del tutto refrattari a coraggiose manovre di ampio respiro, le quali, a scapito di duri sacrifici per i singoli nel breve, avrebbero enormi vantaggi per tutti nel lungo periodo. Si tratta di uomini d’affari navigati, ma la loro concezione del business calcistico è antiquata, figlia dell’economia artigiana, legata al secondario, su cui hanno costruito le loro fortune.
Non è un caso che l’unica big che si è allineata agli standard europei, la Juventus, spadroneggi in campionato da anni.
Il particolarismo sormonta gli interessi della collettività: nonostante sia stato assodato che l’allargamento da diciotto a venti squadre – con la riduzione delle retrocessioni da quattro a tre – ha causato una perdita di competitività e fascino, rendendo le squadre meno preparate per gli scontri europei e facendo perdere terreno sulla lotta per i diritti TV, non è mai stata discussa una riduzione, perché tale nuovo sistema permette ai club di medio livello di vivacchiare nella massima divisione senza dover compiere particolari sforzi per mantenere la serie.
Quando il 7 giugno 2017 l’asta per i diritti televisivi del triennio 2018/2019-2020/2021, da cui la Lega di Serie A si aspettava di sfondare il muro del miliardo di ricavi a stagione, è andata praticamente deserta, a causa di un gioco al ribasso di Sky che contava di fare incetta di tutti i pacchetti televisivi proposti per “appena” 440 milioni, l’intero sistema calcio italiano è stato a un passo dal collasso.
Per il triennio precedente, il 2015–2017, quei diritti erano valsi 943 milioni per campionato. Se la Lega fosse stata costretta a piegarsi al piano del network dei Murdoch, molte società avrebbero dovuto far fronte al ridimensionamento, allo spettro del fallimento, o a entrambi.
Il successivo 13 giugno, dopo oltre un anno di montagne russe dovute all’inserimento nelle trattative degli spagnoli di Mediapro, che prima hanno vinto la seconda asta svoltasi il 5 febbraio del medesimo anno, e poi sono stati costretti a infrangere l’accordo, si è arrivati a un’intesa per 973 milioni.
Due giorni dopo scoppiava lo scandalo corruzione del nuovo stadio della Roma, suscitando la rabbia del presidente Pallotta, che certo avrebbe dei problemi a tratteggiare come “glamour” la sua esperienza in Serie A.