Robin Friday

Robin Friday, the man don’t give a fuck

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«Scegliete la vita. Scegliete un lavoro. Scegliete una carriera. Scegliete la famiglia. Scegliete un maxitelevisore del cazzo. Scegliete lavatrici, macchine, lettori CD e apriscatole elettrici. Scegliete la buona salute, il colesterolo basso e la polizza vita. Scegliete un mutuo a interessi fissi. Scegliete una prima casa. Scegliete gli amici», ed ecco che Mark Renton non sta più fuggendo dai bobbies di Glasgow, sta giocando a calcetto. In squadra ha gli altri personaggi di Trainspotting – Sick Boy, Begbie, Spud e Tommy –, sono vestiti in maniera scoordinata e quasi imbarazzante, e giocano contro un quintetto che ostenta una perfetta divisa gialloblù. Il gioco dei cinque “amici” è indisciplinato, son molto più interessati a picchiare che a vincere, e la partita è già una metafora del film, con Spud portiere imbranato e succube del suo ruolo e Tommy lasciato da solo a provarci seriamente. Renton continua il monologo: «alla fine scegliete di marcire, di tirare le cuoia in uno squallido ospizio ridotti a motivo di imbarazzo per gli stronzetti viziati ed egoisti che avete figliato per rimpiazzarvi. Scegliete un futuro. Scegliete la vita. Ma perché dovrei fare una cosa così? Io ho scelto di non scegliere la vita: ho scelto qualcos’altro. Le ragioni? Non ci sono ragioni. Chi ha bisogno di ragioni quando ha l’eroina?»

Le parole dell’opening di questa pellicola cult potrebbero sposarsi quasi alla perfezione anche per un film su Robin Friday. Lui scelse di non scegliere il futuro e una carriera, scelse di non avere ragioni. Scelse di non farsi pagare i milioni per crocifiggere il Liverpool ad Anfield con un tiro ad effetto dal fondo, o superare tutto il Manchester United in dribbling all’Old Trafford. Scelse, come Vinnie Jones con Gascoigne, di strizzare i testicoli a Bobby Moore quando ci giocò contro, il capitano che sollevò la Coppa del Mondo per l’Inghilterra nel ’66. Era arrabbiato perché non aveva potuto stringere la mano al suo idolo George Best, come sperava. Se Best è il quinto Beatles, Friday è il sesto di Trainspotting. Ma non è vero che non scelse la vita.



Quando si ritirò, a 25 anni, la massima serie in cui militò durante la sua carriera, equivaleva alla nostra Serie B, per un solo anno, quando Maurice Evans, l’allenatore del Reading, la squadra di cui viene tutt’ora considerato il giocatore più forte di sempre, lo chiama e gli dice: «Figliolo, se metti in ordine la tua vita tu puoi ancora arrivare dove vuoi nel calcio, anche in Nazionale». Lui gli risponde chiedendogli quanti anni ha, «41», e ancora lui di rimando, insolitamente serafico: «Bene, io ho più o meno la metà dei suoi anni ma ho già vissuto il doppio di lei».

Supererà lo scoglio delle Rock Star, il Club 27, fatale – tra gli altri – a Jim Morrison, Jimi Hendrix e Kurt Cobain, ma a 41 non ci arriverà. Tre giorni prima del Natale del 1990, lo ritrovano defunto nel piccolo appartamento concessogli dallo Stato, in quanto persona non abbiente. Aveva 38 anni. La causa è un attacco di cuore, molto probabilmente indotto da un’overdose di eroina. In eredità non lascia i soldi che avrebbe potuto fare se avesse scelto un’altra vita, ma una storia che è leggenda, senza essere leggenda. Le leggende sono finzioni innalzate su una base di realtà, lui su quel piedistallo non c’è mai salito. Ha abbassato i cieli della leggenda al grigio livello dei sobborghi operai di Londra, rendendo unici e speciali i pochi che erano nati abbastanza in periferia, rispetto al grande calcio e all’Inghilterra, per vederlo.

I suoi soprannomi postumi sono degli epiteti, glieli danno due aedi rock da milioni di fan. ‘The greatest footballer you never saw‘, ‘Il più grande calciatore che non avete mai visto‘, è il titolo di un libro che gli dedica nel 1997 Paul McGuigan, il bassista degli Oasis; ‘The man don’t give a fuck”, ‘L’Uomo se ne fotte‘, è l’acclamato singolo dei Super Furry Animals che nel 1996 lo vede in copertina.

Spiega Sick Boy a Mark, mentre per distrarsi dalle crisi d’astinenza cercano un soggetto da centrare con un fucile a pallettoni: «è certo un fenomeno di ogni stadio della vita… a un certo punto ce l’hai, poi lo perdi. E se ne è andato per sempre, in ogni stadio della vita. Georgie Best, ad esempio, ce lo aveva e lo ha perso. O David Bowie o Lou Reed».



Un’infanzia non difficile, un talento non comune, non ci sono ragioni per l’eroina

Robin Friday nasce assieme a Tony, suo fratello gemello, ad Acton, nell’ovest dell’immenso agglomerato di Londra, nel 1952. I suoi genitori sono ambedue di Acton, lì sono cresciuti e sono sempre vissuti. Lui, Alf, fa l’autista per una ditta che svolge un servizio di lavanderia, lei, Sheila, è una casalinga.

I gemelli sono splendidi, non litigano mai e si comportano a modo. Quando hanno 2 anni vengono portati alla loro prima partita, un match del Brentford – squadra in cui aveva militato il nonno materno prima della Seconda Guerra Mondiale –, a partire dai 4 giocano a pallone al parco col loro babbo ogni pomeriggio. All’inizio c’è solo una piccola differenza tra i due: Tony è sempre solare, Robin più introverso e legato alla madre. Poi dai 10 anni, le divergenze si fanno sempre più numerose ed evidenti: son due sportivi nati, hanno una grazia naturale in tutto ciò in cui si cimentano, ma Tony è solo bravo, Robin è superlativo. Mostra un talento eccezionale per il cricket, il pugilato e il tennis, ma è soprattutto con il pallone che strabilia. Fa delle cose impensabili per un bambino di 10 anni: lo mette dove vuole, lo fa danzare come se fosse una parte dei suoi piedi. Come Maradona, è in grado di palleggiare con un’arancia, alzarsela sino al collo, farsela scivolare addosso e riprenderla al volo, in perfetto equilibrio. La vita però purtroppo va oltre una sfera di cuoio o un’arancia che rotola.

Robin ha anche un talento precoce per l’autodistruzione. Lo si vede nelle piccole cose, che diventano presto grandi. Tony a scuola va benissimo, anche se la lascerà presto, a 16 anni, per andare a lavorare col padre. Robin invece la detesta, bigia in continuazione e se ne fugge via al parco. Gli studi li abbandonerà ancor prima del fratello, a 15 anni, per imparare a fare l’intonacatore.

Tra i 10 e i 13 anni fa il giro delle squadre della città. Prima il Crystal Palace, poi il Queen’s Park Rangers, infine il Chelsea, che con le sue giovanili lo porta pure come raccattapalle alla finale di FA Cup del 1967. Il giudizio però è unanime: il ragazzino è indisciplinato, in generale, e quel che è peggio, tatticamente. Non rispetta un’indicazione che sia una, vuol far sempre di testa sua. Un potenziale fenomeno che rimarrà tale, impossibile averci a che fare.

Così comincia a giocare in una specie di squadra del dopolavoro col padre e il fratello, che di lui dice che come portiere fosse persino più forte, spavaldo e agilissimo, ma che preferiva bucare la rete invece che proteggerla. Sembra che avesse pure una predisposizione fuori dalla norma per il disegno, inspiegabilmente abbandonata anche quella verso i 15 anni.

Verso quell’età, comincia a farsi di eroina, a bere pesantemente, a cercare la rissa ovunque vada. Coltiva anche interessi meno pericolosi: si appassiona di musica, danza e concerti. Frequenta tante ragazze. Il fratello lo descrive come un bravo ragazzo con dei brutti momenti e dei pessimi vizi. È soprattutto un teenager che si annoia e non trova nessun significato in ciò che lo circonda. Avrebbe tutto ciò che serve per essere felice, ma lui non è interessato. Lascia il lavoro come intonacatore per fare l’autista di camion, quindi il lavavetri. Secondo suo padre, semplicemente «è uno che se ne frega di tutto», è già ‘The man don’t give a fuck‘.

Diventa un ladruncolo, e beccato per l’ennesima volta, va in carcere a 16 anni, ma è asmatico e viene subito rilasciato. Viene però mandato per 14 mesi al Feltham Borstal, un riformatorio, dove approfitta della situazione per rafforzare il fisico con tanta palestra, e gli viene inoltre permesso di uscire per allenarsi e giocare con i ragazzi della squadra professionistica del Reading.

Uscito dal riformatorio, mette incinta la sua ragazza, Maxine Doughan. Hanno una figlia di nome Nicole, e lui responsabilmente la sposa. Hanno appena 17 anni. Il padre non vuole assistere al matrimonio, ma non per l’età dei ragazzi. Maxine è una meticcia, è una nera in un mondo ancora piccolo, gretto e provinciale. La City non è ancora il melting pot che elegge il primo sindaco musulmano di una capitale europea, anzi, è l’esatto contrario: l’unione avrebbe destato meno impressione solo in qualche stato del Sud degli Stati Uniti.

I numerosi amici di Robin, che in fondo, nonostante tutte le bizze e le ugge, è un compagnone, gli voltano le spalle. Finisce in carcere una seconda volta per rissa: in un pub aggrediscono lui e Maxine perché un bianco non può stare con una nera, e lui mette a soqquadro tutto. Il matrimonio non lo cambia: continua a uscire, a bere, a farsi di narcotici, ad andare a letto con altre donne. Torna però a intonacare muri: c’è una boccuccia da sfamare che dipende da lui.


L’ascesa senza inizio di una caduta senza fine

Friday si mette a lavorare con relativa dedizione. Non sarà mai un buon marito, si sposerà 3 volte e i matrimoni falliranno tutti, ma come padre prova a metterci almeno quel minimo di buona volontà che non ha mai avuto il cuore di rivolgere a tutte quelle attività in cui aveva stoffa.

Un amico manovale dell’edilizia gli racconta di una squadra di semiprofessionisti dove giocano tanti loro colleghi, il Walthamstow Avenue, in Isthmian League, più o meno l’equivalente della categoria italiana dell’Eccellenza. Come asfaltatore di terrazze prende circa 100 sterline alla settimana, il Walthamstow subito dopo il primo provino gliene offre 10, lui accetta e va avanti con ambedue le professioni, col pallone che oltre a permettergli di arrotondare, lo fa sfogare un po’.

Comincia a giocare con loro alla fine di marzo del ’71 ed è l’inizio di una scalata rapidissima ma travagliata, che si concluderà ancor più vertiginosamente di come era cominciata. Ovviamente segna a raffica e dopo una partita contro l’ambiziosissimo Hayes, squadra di un omonimo centro molto vicino alla natia, adoratissima Acton, i dirigenti del club si fanno avanti e gli offrono 30 sterline a settimana per difendere i loro colori. Lui accetta e nel dicembre dello stesso anno cambia casacca.

Continua a lavorare nei cantieri ma è un periodo sommariamente sereno: il sabato pomeriggio gioca, la sera beve, va a donne e si scazzotta, in settimana lavora, si allena e sta in famiglia. Il vizio del narcotico non muore mai, ma almeno la sua vita sembra aver raggiunto una relativa stabilità.

Non è però nato per essere felice e la sua stella capricciosa glielo ricorda una volta di più: mentre è al lavoro cade da un’impalcatura e precipita al suolo, svariati metri più in basso, esattamente su un pezzo di ferro sporgente, che gli si conficca nella schiena, a 2 cm dal cuore. Viene trasportato al vicino ospedale di St. Thomas: non rischia la vita, ma per rimettersi in piedi avrà bisogno di un recupero lungo, ammesso che riesca a riprendersi del tutto. Appena 3 mesi dopo torna a giocare come se niente fosse successo. Nato per autodistruggersi, forse, ma sicuramente non per lasciarsi abbattere da chicchessia, fosse anche la forza del destino. Quisque faber fortunae suae, ognuno è artefice della sua sorte, e se quella di Robin Friday è segnata dai vicoli ciechi è perché ha voluto infilarcisi lui; se lo costringono a sbatterci addosso, lui si fa crescere le ali e se ne vola via.

È il momento di sottolineare un’altra peculiarità dello stile di gioco di Robin Friday: odiava allenarsi, ma in campo correva come un matto e voleva vincere a tutti i costi. Jimmy Andrews, che sarà il suo allenatore al Cardiff, con cui farà ripetutamente le bizze, ammetterà senza problemi che era il prototipo del centravanti perfetto, tranquillamente accostabile ad Alan Shearer, tecnico e atletico. Alcool e droga non ne inficiavano la prestanza, l’apatia nei confronti delle vicende umane non ne intaccava l’agonismo. Addirittura capitò un po’ di volte che si presentò al match in hangover, dopo una notte di bagordi o un pomeriggio di pinte, se non addirittura ancora ubriaco, e lo stesso gli riuscì di segnare gol meravigliosi.



Ritorna per la FA Cup, dove eliminato il Bristol City, al turno successivo c’è il Reading e sono i Royals a passare al replay. Con loro Friday si era allenato ai tempi del riformatorio, è una vecchia conoscenza, il loro allenatore Charlie Hurley si convince che è l’uomo che può farli svoltare e lo acquista per 750 sterline nel gennaio del ’73: l’obiettivo è cercare la promozione in terza divisione. Hurley per un soffio supera un’altra squadra dell’hinterland di Londra, il Watford, che gioca proprio in terza. Robin Friday lascia l’Hayes dopo due stagioni con 46 gol e 7 espulsioni in 67 presenze.

Per l’annata 1973/1974 l’obiettivo promozione sembra compromesso all’arrivo dell’asso misconosciuto: nello score del Reading, appena 2 vittorie in 14 partite. Più che avanzare nella categoria successiva, la preoccupazione è di non retrocedere. A fine stagione è sesto, a pochi punti dall’obiettivo prefissato. Che miracolo gli è capitato? Il giocatore più forte che non avete mai visto a meno che non siate stati tifosi del Reading a metà degli anni ’70.

L’idea è di attenderlo per un mese o due, facendolo allenare con le riserve per fargli trovare il ritmo e l’intesa coi compagni, però lui straripa in vigore e talento, così arriva il suo esordio con i professionisti dopo appena due settimane, contro l’Exeter. Al mister che gli dà cotanta fiducia dopo le numerose bocciature, promette che il giorno precedente se ne starà «buono in casa, niente alcool e niente scazzottate», ma Hurley prontamente gli risponde: «Figliolo, posso sopportare una bugia ogni tanto… ma tre in una volta sola sono troppe!». Arriva la partita ed è un trionfo: il Reading vince 4-1 grazie a una sua doppietta e il quotidiano locale, il Reading Evening Post, definisce il suo debutto «sheer magic», «magia pura», e la sua prima rete «gloriosa», arrivata dopo aver raccolto il pallone sulla fascia sinistra, aver saltato 4 avversari e aver tirato da un capo all’altro dell’area di rigore.

Alla successiva che disputa, contro il Lincoln City, mette a segno un’altra doppietta, e a quella dopo ancora è protagonista in un 5-0 al Doncaster, aprendo le danze con una sua specialità, il gol dalla linea di fondo: arrivato infatti al limite del campo, di solito, dopo una serie di dribbling, era in grado di centrare la porta da un angolo apparentemente impossibile, grazie a degli eleganti e spietati tiri ad effetto, che andavano a morire nell’angolino più distante dalla zolla da cui aveva tirato, nonostante ci fosse il palo di mezzo. Clive Thomas, un arbitro internazionale chiamato a fischiare uno dei suoi match particolarmente importante per la promozione, commenta così una delle sue prodezze balistiche, una rovesciata dai 30 metri: «Non è possibile, ho visto giocare Cruijff e Pelè, e non ho mai visto un gol così bello!», e Friday con un sorriso replica: «Beh, amico, dovresti venire più spesso a vedermi giocare. Lo faccio tutte le settimane».


E per un momento fu davvero grandioso

La stagione si chiude in trionfo, ma Robin non è cambiato di una virgola, anzi. Prima lo pagavano la metà dello stipendio d’asfaltatore, adesso quasi il doppio, il che vuol dire molto più margine per i suoi vizi, oltre che molto più tempo. Agli allenamenti non si presenta, o arriva in ritardo per fare solo l’unica cosa che gli interessa: la partitella finale, che gioca come se fosse la finale di Coppa Campioni, o magari l’incontro per il titolo mondiale dei pesi massimi. I suoi interventi sono durissimi: durante una sessione spedisce in infermeria 3 compagni e Hurley è costretto a rabbonirlo: «Ragazzo, calmati, o sabato non avrò più nessuno da schierare». Alcuni compagni lo detestano, mentre i più lo sopportano perché è il fuoriclasse che li toglie regolarmente dalla bratta.

Quando non è in campo passa le giornate al pub, ad ubriacarsi e a combinarne di tutti i colori. Colleziona quasi più espulsioni dai pub di Reading che dal campo: il Caversham’s Crown lo bandisce vita natural durante per aver orinato tra i tavoli e averci ballato subito dopo, il Boar’s Head lo caccia fuori a forza in 10 occasioni diverse, mentre una volta al Churchill’s, un night club dove va quando gli altri locali sono chiusi o lo hanno respinto, si presenta con un lungo cappotto scuro, si fionda nella sala da ballo e se ne libera: sotto è completamente nudo. L’altro night club che frequenta, il più rispettabile Sindlesham Mill, deve invece allontanarlo ogni qualvolta nella dance room si esibisce in ‘the elephant‘: un ballo di sua invenzione durante il quale si tira fuori le tasche vuote dai jeans e poi lascia spuntare il pene dalla cerniera a mo’ di proboscide. L’elevazione del concetto di ‘elefante nella stanza’ al suo massimo e più infimo livello.

Sembra tuttavia che sia capace di autocontrollo: almeno agli inizi al Reading non beve mai nelle 48 ore che precedono il match. Per riempire il tempo allora si fa di LSD e mette dischi rock ad alto volume tutto il tempo, anche alle 3 di notte, spingendo vari affittuari a sciogliere i contratti di locazione con lui. Santo Hurley, nel provare a redimerlo, lo fa allocare nell’edificio del custode del Reading, al piano di sotto. Presumibilmente i giorni più difficili per il pover’uomo che, ottantenne, era sopravvissuto alla pandemia di Spagnola, alla Grande Depressione e a due Guerre Mondali.

Con Robin Friday però, dopo il crescendo rossiniano della primavera ’74, il Reading si potrebbe presentare con baldanza e grandi speranze alla IV° Division 1974/1975, se solo sapesse dov’è. Con l’estate se ne perdono completamente le tracce. Finisce la preparazione, e ancora nulla, disperso, sparito, volatizzato. Si presenta alla prima amichevole, è molto più magro, con una barba lunghissima e incolta, capelli sciolti sino al fondoschiena, con un sacchetto di plastica con dentro un paio di scarpini e un altro di mutande. Gioca un’ottima partita e risolve l’arcano: aveva passato gli ultimi mesi in una comunità di hippie in Cornovaglia.

La prima stagione intera da professionista è come Mary Poppins: straordinaria da ogni punto di vista. Come tutto il resto nella vita di Robin. Dal punto di vista meramente atletico, sopravanza tutti i compagni di squadra, nonostante la totale mancanza di preparazione. Tecnicamente, più che il pesce grosso nel piccolo lago, è un delfino in una pozzanghera. Il principale cantore delle sue gesta, il Reading Evening Post, usualmente benigno nei suoi confronti, è però costretto a evidenziarne i limiti, soprattutto disciplinari: «Friday ha rischiato la vita e la capoccia per realizzare un gol veramente memorabile, sdraiandosi in volo a meno di mezzo metro dal suolo. A onor del vero, 3 minuti dopo si è fatto espellere».

Dopo una manciata di giornate è il leader della classifica cannonieri con 9 gol, e di quella espulsioni con 3 cartellini. In un match soffre di un violentissimo attacco d’asma e per precauzione i medici lo tengono fuori per un mese. Chiude la stagione da miglior marcatore e assist man della squadra, ma tutte quelle assenze pesano tantissimo: il Reading si classifica settimo, ad appena 5 punti dalla promozione. C’è comunque modo di sorridere: in una delle ultime partite, Friday segna nei minuti finali uno dei suoi gol dalla linea di fondo, scavalca la rete che separa il rettangolo verde dalle gradinate e bacia un poliziotto in bocca, il quale non batte ciglio. Ovazioni tripudianti del pubblico. Per giustificarsi dirà: «Mi faceva pena, così solo e infreddolito… volevo riscaldarlo un po’!». Anche se negli spogliatoi mugugna: «Non avrei mai dovuto farlo, odio così tanto i poliziotti». Anche lui può conoscere il pentimento.

Sheffield e soprattutto Arsenal mandano più volte degli osservatori, ponderano con attenzione il suo acquisto ma non se ne fa nulla. Più avanti sono QPR e West Ham ad andare a un passo dal prenderlo e portarlo in vetta, ci rifletteranno a lungo e più volte, ma in ultimo per i loro calcoli si rivela sempre un soggetto troppo problematico.

Si riparte dal Reading anche per la stagione 1975/1976. L’inizio di campionato è travolgente, 5 vittorie in 5 partite con Friday capocannoniere del campionato, che prende l’abitudine di fare un giro di campo tra gli osanna e gli olè dopo ogni gol. Alla quinta si fa espellere e il Reading comincia a perdere colpi, è evidente che la squadra dipenda da lui. Al termine dell’annata arriva finalmente la promozione, soprattutto grazie ai suoi 21 gol.

È un buon momento per risposarsi. Divorzia definitivamente da Maxine, da cui era separato da tempo, e in camicia tigrata e scarpe in pelle di serpente si ripresenta all’altare, invitando 200 persone che invece che alle danze alla fine della cerimonia si danno alla rissa da saloon, probabilmente dando vita alla più grande zuffa tra britanni nella capitale, dai tempi del saccheggio operato dalla Regina Boudicca. Liza Deimel, la novella sposa, una neolaureata di Reading, la prende con filosofia: «È stato l’evento più buffo della mia vita». La Southern Television riprende le nozze prima che sconfinino nel grottesco, ma fa in tempo a inquadrare Friday mentre si rolla una canna. Più che Trainspotting, la scena sembra un parallelo comico con Scarface, precisamente la sequenza con in sottofondo Push It To The Limit, che vede Tony Montana al vertice della sua rapidissima carriera che impalma Michelle Pfeiffer e subito dopo va ad accudire la tigre che ha piazzato in giardino. La completa felicità un attimo prima che tutto cominci ad andare a rotoli.



È certo un fenomeno di ogni stadio della vita… Robin Friday ce lo aveva e lo ha perso

Nelle parole di Hurley, Friday «deve aver festeggiato quella promozione tutta l’estate». Infatti nessuno lo vede più per mesi, allergico come sempre ai ritiri precampionato. «È allora che ha deragliato e si è perso».

Si presenta completamente fuori forma e insanamente dimagrito. Stavolta non ce la fa a primeggiare per smalto e atletismo, nelle prime apparizioni è troppo indietro per combinare qualcosa. Tuttavia ci si mette di buzzo buono per recuperare e in fretta torna a quella gagliarda vigoria che assieme al suo talento cristallino lo renderebbe la punta perfetta, se solo mettesse la testa a posto. L’asma però non gli perdona il forcing a cui si è costretto e perde in tono e ritmo. Segna consecutivamente in due partite vinte e ne gioca una terza, poi deve saltarne due, ufficialmente per influenza. Al ritorno non è più lo stesso giocatore. Spiega Hurley: «Era come se da un momento all’altro fosse diventato più lento di un metro al secondo e non più così bravo ad accarezzare il pallone».

In poco tempo si rimette più o meno in sosta e diventa una versione ancor più irregolare di sé stesso, in certi match è fenomenale e in altri ectoplasmatico. Per Hurley è sempre più difficile nascondere agli osservatori il suo problema di tossicodipendenza, e così il West Ham, che sembrava davvero ad un passo, non conclude l’acquisto. Alla fine è costretto a metterlo in lista trasferimenti e a dargli un ultimatum rinviato per troppo tempo: «La squadra ha bisogno di te ma l’ho dovuto fare per rispetto del club: non posso tenerti finché ti fai. Devi riprendere il controllo delle tue azioni».

Pochi giorni dopo il Reading sta perdendo 4-0, Friday viene sostituito e una dozzina di osservatori escono dallo stadio. È ancora sui taccuini di mezza Londra che conta, e oltre. Per fortuna non vanno ad osservare anche le azioni post partita: furioso e deluso per la sua prestazione, si dirige negli spogliatoi degli avversari e ci defeca dentro. È una delle tante gocce larghe quanto una pinta che fanno traboccare il vaso.



Il manager del Cardiff, Jimmy Andrews, fa un’offerta da 28 mila sterline, metà di quanto proposto l’anno precedente. Stavolta il Reading accetta, non ne può più del suo campione mezzo matto. Friday non apprezza molto la destinazione, ma Hurley gli comunica che se non accetta lo mette fuori rosa, ed è quindi costretto a dire di sì al club gallese. Si presenta subito bene, arriva a Cardiff senza aver pagato il biglietto del treno, motivo per il quale, durante il suo primo giorno nella nuova squadra-città, l’allenatore deve andare in commissariato a pagargli la cauzione. Nonostante ciò, Andrews è ancora persuaso che acquistarlo per sole 28 mila sterline sia stato un vero e proprio furto. Con il tecnico ci sarà un rapporto piuttosto complesso, e non si riuscirà mai a sviluppare l’alchimia che si era venuta a creare con Hurley.

Il suo esordio coi Bluebirds, appena due giorni dopo, non è meno incredibile: si gioca contro il Fulham di Bobby Moore e George Best. In teoria. In pratica, Best, al contrario di quanto annunciato, non è della partita. Friday ci teneva tantissimo a incontrare il suo idolo e per ripicca, come già messo per iscritto, strizza i testicoli a Sir Bobby, leggenda del calcio inglese tanto quanto Best ma agli antipodi per stile di vita. Al di là del gesto violento e volgare, quasi che volesse ridicolizzare una volta per tutte quel modo pulito e convenzionale d’intendere il pallone e l’esistenza, disputa una partita stratosferica, umiliando il suo marcatore, proprio Moore, ormai in età avanzata e prossimo ad andarsene negli States per svernare nella bambagia. Finisce 3-0 per i gallesi, con doppietta di Robin Friday, Andrews non resiste e alza la cornetta, dall’altro capo del filo c’è Hurley: «Charlie, li ha fatti impazzire tutti per 90 minuti. Friday è stato fantastico. Mi hai venduto un fenomeno, Charlie», la risposta è un triste consiglio da amico: «Jimmy, ce l’hai solo da 3 giorni! Ne riparliamo tra tre mesi».

Friday gioca per un anno e mezzo al Cardiff, gli ultimi mesi della sua carriera da calciatore. Viene ricordato come uno dei più forti nella storia del club, nonostante l’impegno a mezzo servizio. Non sempre quando gioca è determinante, è un perenne lancio della moneta: testa, fa saltare il banco coi suoi numeri; croce, si lascia marcire a bordo campo, imprecando contro i compagni, gli avversari, gli uomini e il denaro.

Non è chiaro se Andrews sia stato troppo indulgente o troppo burbero nei suoi confronti, in ogni caso non sa gestirlo. Va a Londra tutti i weekend perché la sua casa nella City gli manca troppo. Dopo un po’ quelli del Cardiff lo vedono solo il giorno della partita: arriva, gioca e se ne va, senza nemmeno farsi la doccia, ci si vede il prossimo sabato. Implora Hurley di riportarlo al Reading, è disposto a rigare – più o meno – dritto, non ne può più di quel «piccolo bastardo» di Andrews. Lui lo farebbe – più o meno – volentieri, ma non ha disposizione le sterline necessarie per ricomprarlo.

Le sue intemperanze si fanno più violente. Al Reading le sue trovate erano perlopiù semplicemente assurde, o degli scherzi esagerati: una volta in trasferta entrò a notte fonda nell’albergo che ospitava la squadra completamente nudo e portando a spasso un cigno, un’altra il pullman che li trasportava si fermò affianco a un cimitero, lui rubò una lapide e la pose nel sedile affianco al presidente che dormiva nel retro del mezzo. Al Cardiff, invece, è una tetra figura rabbiosa e inquieta: il Cardiff perde 3-0 la finale di Welsh Cup, l’unica possibilità per Robin Friday di vincere un titolo per quanto minore, e quella notte, sempre in trasferta, sveglia l’intero hotel perché nella sala biliardo in mutande e fuori di sé sta lanciando le palle da snorkel contro le mura; durante una sessione d’allenamento a un compagno che ha riso di lui per un’accidentale pallonata in testa sferra un pugno così forte da costringerlo a portare il collare per due settimane.

Quella 1977/1978 è la sua ultima stagione, ma in realtà non arriva nemmeno a Natale. Al solito salta il ritiro, solo che stavolta è quasi giustificato: soffre di dissenteria e ha perso dieci chili. Sostiene di avere anche l’epatite, ma gli esami smentiscono. Fisicamente e psicologicamente sembra ormai irrecuperabile. Nel suo debutto stagionale contro il Brighton, si fa espellere per un calcio in faccia a Mark Lawrenson, futura colonna della difesa del Liverpool.

Il Cardiff è ultimo in classifica e non può sopportarne le bizze. Il divorzio si consuma in un mese, così come quello da Liza, la seconda moglie, da cui ha avuto una seconda figlia, Annabelle. Cursum Perficio.



I tifosi del Reading lanciano una petizione per riportarlo in rosa, 3.000 firme, ed è allora che avviene lo scambio con Maurice Evans, che gli offre il contratto. Ma Friday è «stufo di gente che gli dica cosa deve fare», come si lascia sfuggire ai giornalisti locali. Probabilmente è sempre stato stufo di tutto.

L’anno dopo si allena col Brentford, la squadra del nonno, la prima che ha ammirato allo stadio, la più vicina a casa, si rimette in forma, è pronto a firmare e ad esordire, ma da un momento all’altro cambia idea. L’anno dopo si risposa e ridivorzia per la terza volta, torna a vivere dai suoi, finisce in carcere per aver impersonato un poliziotto indossandone la divisa e aver, in quei panni, confiscato della droga. Quindi nel 1990, la fine.

Il finale di Trainspotting è aperto ma tutto sommato incoraggiante. Mark si lascia i suoi amici e il passato da drogato alle spalle, in maniera netta e quasi brutale, senza rimpianti, ma sorridendo. Non è chiaro se ce la farà. Mentre sta scappando, ci lascia con un altro monologo: «Allora perché l’ho fatto? Potrei dare un milione di risposte tutte false. La verità è che sono cattivo, ma questo cambierà, io cambierò, è l’ultima volta che faccio cose come questa. Metto la testa a posto, vado avanti, rigo dritto, scelgo la vita. Già adesso non vedo l’ora, diventerò esattamente come voi: il lavoro, la famiglia, il maxitelevisore del cazzo, la lavatrice, la macchina, il CD e l’apriscatole elettrico, buona salute, colesterolo basso, polizza vita, mutuo, prima casa, moda casual, valigie, salotto di tre pezzi, fai da te, telequiz, schifezze nella pancia, figli, a spasso nel parco, orario d’ufficio, bravo a golf, l’auto lavata, tanti maglioni, Natale in famiglia, pensione privata, esenzione fiscale, tirando avanti lontano dai guai, in attesa del giorno in cui morirai».

Ecco, la storia di Robin Friday è tutta lì, tra i due monologhi. La vita l’ha sì scelta, ma a modo suo. Ha rifiutato tutte le convenzioni, anche quella del drogato senza speranza. Se avesse voluto, si sarebbe smarcato anche da quel demone. Lui però scelse di non avere ragioni. Chi ha bisogno di ragioni, se sei ‘The man don’t give a fuck‘?

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