Carlos Henrique Raposo

Carlos Henrique Raposo, il più grande truffatore della storia del calcio

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«Dove non arriva la pelle di leone bisogna cucirsi sopra quella di volpe», con queste parole Lisandro – uno storico militare spartano – difendeva i discendenti di Eracle che condussero le guerre con l’inganno, e con la stessa noi partiamo per raccontare la storia di Carlos Henrique Raposo, una delle più curiose e affascinanti nel mondo del calcio.

Raposo – che in portoghese significa appunto volpe –, è stato “calciatore” brasiliano nato a Rio Pardo il 2 aprile del 1963 – capirete più avanti perché calciatore è messo tra virgolette. Soprannominato Kaiser – non tanto per le sue doti qualitative, quanto piuttosto per una vaga somiglianza fisica con il noto centrale tedesco Beckenbauer –, nel corso della sua carriera, a suo modo, è passato alla storia del mondo del pallone.



Già da piccolo Raposo ha qualcosa di diverso da tutti gli altri. Sembra questo l’incipit perfetto per raccontare la storia di uno dei tanti fenomeni carioca che hanno lasciato il segno nelle memorie degli appassionati, ma la verità è un’altra. Carlos è un bambino che, come vuole l’infanzia della maggior parte dei piccoli brasiliani, trascorre il tempo rincorrendo un pallone, che però i suoi piedi, non proprio fatati, faticano a controllare e a trattare come fanno i suoi più talentuosi coetanei.

La sua passione era lo studio, ma la madre lo obbligava a giocare per aiutare la famiglia dal punto di vista economico. All’età di dieci anni è infatti nelle giovanili del Botafogo e guadagnava più di tutta la sua famiglia, senza però vedere un centesimo di quei soldi. Veniva sfruttato fino al punto che la madre vendette il suo cartellino al primo procuratore disponibile, il quale impose su di lui clausole molto elevate, che costrinsero Raposo a passare da una squadra all’altra per rendergli la percentuale.

La sua carriera all’età di vent’anni sembra finita prima ancora di nascere, ma Raposo trova la sua ispirazione al di fuori del campo e inizia a frequentare gli stessi locali di Rio de Janeiro frequentati dai più forti campioni dell’epoca – Romario, Bebeto, Careca, giusto per citare alcuni dei nomi più noti –, che diventano compagni di serate e si trasformano in un’occasione da cogliere al volo per Carlos, che inizia a frequentarli da vicino grazie al suo modo di fare da bonaccione e a una strepitosa arte affabulatoria, che gli permette di farsi amare da tutti fin da subito. Grazie a queste amicizie, firmò il primo contratto da professionista, guarda caso, al Botafogo, squadra allora ricca di numerose leggende del pallone.

Quello che però ha reso leggendaria la sua storia è quello che succedeva dopo esser stato acquistato da una squadra. Fino a quando infatti Carlos Henrique Raposo doveva firmare un contratto, bastava la sua arte oratoria e un paio di contatti giusti con qualche sponsor e tutto filava liscio, ma, quando effettivamente doveva dimostrare di valere quello che giornalisti e compagni promettevano di lui, sfoderava il suo asso della manica: «Chiedevo a un mio compagno di scontrarsi con me in area di rigore e poi dicevo che mi faceva male un muscolo e stavo 20 giorni fermo. Quando le cose sono diventate più difficili mi sono fatto amico un dentista che mi faceva finti certificati medici che attestavano che avevo problemi fisici. Tiravo avanti così».

Queste le sue parole, che testimoniano come Raposo sia veramente un personaggio anomalo e allo stesso tempo affascinante per questo mondo. Chiaramente le durate dei suoi contratti sono spesso state caratterizzata da una certa brevità, solitamente sei mesi, un lasso di tempo che al Kaiser non serviva per mostrare le sue doti sul campo, quanto invece per stringere le amicizie necessarie per sopravvivere e continuare la sua strategia. Fingeva di parlare diverse lingue e si atteggiava per apparire agli occhi dei compagni come il più amato e ben voluto, organizzando molte feste anche durante i ritiri negli alberghi.

Questo suo modo di fare gli consentiva di garantirsi le raccomandazioni necessarie dei suoi compagni e di qualche giornalista, il quale tramite qualche “bustarella” sfornava articoli che lo portavano alla ribalta come uno dei migliori attaccanti – sì, perché questo è il “ruolo” che da sempre è stato appiccicato al brasiliano – in circolazione.

Sono molte le squadre coinvolte nella sua carriera dopo gli inizi già citati al Botafogo: Puebla in Messico, Flamengo, Vasco, Fluminense – squadra per la quale non firmò mai un vero contratto ma andava in giro a regalare maglie spacciandosi per un titolare – e America di Rio in Brasile. Altre due inoltre, meritano di essere citate a parte perché coinvolte in due episodi che hanno del clamoroso e che definiscono molto bene la figura di Carlos Henrique Raposo.


La prima è il Bangu, squadra locale di Rio de Janeiro, che segna il ritorno del giocatore in patria dopo le varie esperienze in giro per il mondo, e l’episodio in questione coinvolge il più grande gestore di scommesse clandestine del Brasile di allora, l’uomo più pericoloso del Paese, nonché presidente del Bangu, Castor de Andrade. Durante una partita, tramite un walkie-talkie, il boss ordinò spazientito all’allenatore del club di far scendere in campo Raposo, il quale, non sapendo che fare, durante il riscaldamento, sentitosi insultato da alcuni tifosi locali, scavalcò la rete che li divideva e scatenò una rissa, facendosi espellere dunque ancora prima di entrare in campo. A fine partita affrontò l’ira del presidente del Bangu e riuscì a girare la storia a suo favore come sempre, con una delle sue comiche quanto geniali uscite: «Presidente, Dio mi ha dato due padri: il primo l’ho perso, il secondo è lei. Quando ho sentito i tifosi insultarla, non ho capito più niente. Fra una settimana me ne vado, non si preoccupi». Risultato? Contratto rinnovato per altri sei mesi.

La seconda squadra a meritarsi un trattamento di riguardo nella carriera del Kaiser riguarda la sua unica esperienza in Europa, ai corsi dell’Ajaccio. In Francia, come racconta lo stesso Raposo, divenne ben presto l’idolo dei tifosi, e il giorno della presentazione, per evitare si accorgessero delle sue pessime doti con il pallone, si avvolse nella bandiera della Corsica e regalò un mazzo di rose alla moglie del presidente, buttando tutti i palloni in tribuna per non doversi allenare davanti a uno stadio pieno di tifosi pronti ad accoglierlo e che sarebbero ovviamente stati delusi dalle sue pessime doti con il pallone tra i piedi.

Carlos Henrique Raposo ha passato una vita a inseguire il sogno di essere qualcuno che forse non meritava di essere, ma proprio questo aspetto lo ha consacrato al grande pubblico come un “vero” campione d’altri tempi.

Di solito, come narra il proverbio, «quando la volpe non arriva all’uva dice che è acerba», ma Raposo, in un modo o nell’altro, quell’apparentemente irraggiungibile grappolo d’uva è riuscito a prenderselo.

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