Diego Armando Maradona. Qualsiasi appassionato di calcio non può restare impassibile sentendo pronunciare queste tre parole, che evocano una vera e propria leggenda dello sport. Se poi la persona in questione è un tifoso del Napoli o un argentino, i suoi occhi inizieranno di certo a brillare, essendo Diego amato alla stregua di una figura religiosa, ed avendo ora assunto ancor di più una dimensione eterea, dopo la perdita di quella terrena il 25 novembre 2020. Ma come ha fatto questo calciatore a raggiungere un tale status, unico nel suo genere? Cerchiamo di partire dall’inizio, ricostruendo da dove Maradona e il Napoli arrivano, prima di formare questo legame indissolubile.
Chi era Maradona prima di Napoli?
Diego Armando Maradona nasce il 30 ottobre 1960 a Lanús, in Argentina, a pochi chilometri da Buenos Aires. A sedici anni gioca già tra i professionisti con la maglia dell’Argentinos Juniors e si mette in mostra nel Mondiale Under-20 disputato in Giappone nel 1979, vinto dalla Nazionale argentina di César Luis Menotti, che l’anno prima era stato aspramente criticato dalla stampa per aver escluso Maradona, all’epoca non ancora diciottenne, dal Mondiale casalingo per le Nazionali maggiori. Da quel momento, tutto il mondo inizia a parlare di questo calciatore soprannominato el Pibe de Oro (il Ragazzo d’Oro), conteso da vari club europei. Nella stagione 1981/1982 approda al Boca Juniors, e dopo una sola annata decide di fare il grande salto nel calcio europeo – lasciando l’Argentina a 21 anni con già all’attivo 206 partite e 144 reti. È il Barcellona di Udo Lattek la prima squadra del Vecchio Continente ad assicurarsi le sue prestazioni.
Prima di debuttare in Europa, gioca il Mondiale spagnolo del 1982, dove gli italiani gli procurano la prima grande delusione della sua carriera, battendo la Selección nella seconda fase a gironi del torneo, ed eliminandola dallo stesso. In particolare, la prestazione di Claudio Gentile è rimasta nella memoria di tutti come esempio di perfetta marcatura a uomo.
Nella fase iniziale della sua avventura in terra spagnola alterna alti e bassi, dovuti soprattutto a diverse problematiche fisiche, ma per la seconda stagione le premesse sono ottime, anche perché arriva sulla panchina blaugrana proprio el Flaco Menotti. Maradona appare effettivamente in grande spolvero, ma alla quarta giornata di campionato, contro l’Athletic Bilbao, subisce lo stop più pesante della sua carriera: un infortunio alla caviglia sinistra causato da un’entrata criminale di Andoni Goikoetxea, da quel momento in poi soprannominato ‘Il Macellaio di Bilbao‘.
Ci vorranno mesi per rivedere in campo l’argentino, un attesa ripagata dagli 11 gol in 16 presenze messi a referto nel 1984, fino alla finale di Copa del Rey, in cui il Barça affronta proprio l’Athletic. La Coppa la portano a casa i baschi, e dopo l’ennesima partita di interventi al limite del consentito, Maradona fa esplodere un’enorme rissa tra le due squadre. Quella sarà anche l’ultima partita del numero dieci con la maglia del Barcellona, che non è più così sicuro di voler puntare su di lui.
Il presidente del Napoli Corrado Ferlaino coltiva la pazza idea di portarlo all’ombra del Vesuvio. Forse non ci sperava tanto nemmeno lui, ma l’impossibile accadde.
Dov’era il Napoli prima di Maradona?
La squadra azzurra, prima dell’avvento di Diego, vantava una storia importante, anche se non propriamente vincente: custodiva in bacheca due Coppe Italia – una delle quali vinta mentre militava in Serie B, prima e finora unica squadra a riuscirci – e negli anni Settanta si trovava stabilmente ai vertici del calcio italiano, anche se realmente in lotta per lo scudetto solo in un’occasione, nel 1974/1975, quando chiuse al secondo posto a due punti dalla Juve.
Anche nel 1981 i tifosi ci avevano creduto, ma a cinque giornate dalla fine arrivò un inatteso tracollo interno con un Perugia già retrocesso – a decidere la partita, finita 0-1, fu l’autorete del difensore azzurro Moreno Ferrario – e il Napoli dovette accontentarsi di un terzo posto alle spalle di Juventus e Roma.
L’arrivo di Diego
L’ultimo campionato era stato molto deludente, con il Napoli che chiuse all’undicesimo posto. Gli azzurri erano ancora una squadra poco competitiva, ma nel giorno della presentazione di Maradona allo Stadio San Paolo, il 5 luglio 1984, che qualcosa sarebbe cambiato fu subito chiaro. Sarebbe stata solo una questione di tempo, ma con lui il Napoli sarebbe finalmente arrivato ai livelli delle grandi squadre del Nord, che dominavano il calcio italiano. Era una fusione perfetta: il talento ribelle e non sempre compreso, si sarebbe caricato sulle spalle un popolo che aveva voglia di rivalsa.
La prima vittoria arriva solo alla quarta giornata contro il Como, contemporaneamente al primo gol su azione del Pibe de Oro. Ciononostante, le sue giocate, il modo di condurre la palla e il fatto che gli avversari non riescano a fermarlo senza abbatterlo, fanno nascere a Napoli una vera e propria Diego-mania.
In lui i napoletani vedono l’uomo del riscatto che aspettano da tanto tempo. Un riscatto non solo calcistico, ma quello di un popolo da sempre oppresso: l’arretratezza economica del Sud Italia rispetto al Nord si rifletteva anche nel calcio, dove soltanto il Cagliari, tra le squadre meridionali, aveva compiuto l’impresa di vincere lo scudetto.
Bisognerà attendere il girone di ritorno per i primi due veri acuti della squadra: un 4-0 alla Lazio, con tripletta di Maradona, e un 3-1 all’Inter. Gli azzurri, guidati da Rino Marchesi, finiscono il campionato con un anonimo ottavo posto, che costituisce un netto miglioramento rispetto alla stagione precedente, ma che ovviamente non può essere considerato un punto d’arrivo, dato che in squadra c’è un calciatore fenomenale con cui si può e si deve puntare in alto, anche perché a fine stagione arriva la beffa delle beffe: a vincere il campionato sono gli eterni rivali dell’Hellas Verona, che ora possono fregiarsi di una scudetto in bacheca, a differenza dei napoletani.
In quel momento tutti sono tenuti a dare qualcosa in più. I giocatori in campo gettano il cuore oltre l’ostacolo, trascinati da un compagno di squadra che fa magie. Adesso, però, tocca alla società. Dopo un anno di transizione, bisogna aumentare il tasso tecnico e formare una squadra competitiva: il Napoli ha l’obbligo di provare a vincere lo scudetto nella stagione successiva.
Un Napoli finalmente competitivo
Il presidente Ferlaino non si fa trovare impreparato: preleva da una Lazio appena retrocessa il centravanti Bruno Giordano, dotato sia di grande forza fisica che di una tecnica invidiabile – tanto da essere definito da Maradona «il più sudamericano tra i giocatori italiani» –, e per la porta mette a segno il colpo Claudio Garella, proveniente proprio dal Verona campione d’Italia. Garella è ancora oggi ricordato con affetto dai tifosi napoletani, per il suo stile inconfondibile e poco ortodosso, in particolar modo per alcune parate effettuate con i piedi.
La squadra viene affidata a Ottavio Bianchi, proveniente dal Como. Non sempre il suo modo di fare calcio viene apprezzato, ma lui è solito rispondere a chi lo accusa di fare catenaccio sostenendo che, avendo Maradona in squadra, basta che gli altri si sacrifichino.
Nel campionato 1985/1986 il Napoli non si dimostra ancora maturo per il raggiungimento dei suoi obiettivi, ma c’è uno squillo, un acuto che col senno di poi possiamo interpretare come il preludio al mini-ciclo vincente che avrebbero aperto gli azzurri: un gol alla Juventus su punizione a due in area di rigore che sembra contraddire le leggi della fisica, e che fa scontrare il malcapitato Stefano Tacconi con il palo, nell’inutile tentativo di effettuare la parata. È il 3 novembre 1985 e al San Paolo ci sono circa 80.000 spettatori, compresa un’intera generazione di giovanissimi tifosi azzurri, che mai hanno visto il Napoli battere la Juventus in campionato: l’ultimo successo risaliva infatti a 12 anni prima – ottobre 1973.
Finì 1-0: la Juventus, fino a quel momento a punteggio pieno con soli tre gol subiti, incassa la prima sconfitta in campionato. Ciò però non le impedisce di vincere lo scudetto: il Napoli dovette accontentarsi del terzo posto, alle spalle anche della Roma di Sven-Göran Eriksson.
Diego sul tetto del mondo
Nell’estate del 1986, Maradona parte con la sua Argentina per i Mondiali in Messico, dove riesce a trascinare una squadra che presenta pochi giocatori di alto livello fino alle fasi finali del torneo. Nei quarti di finale contro l’Inghilterra vanno in scena i cinque minuti che hanno cambiato la storia del calcio: al 51′ segna un gol con la mano che viene convalidato e che passerà alla storia come la Mano de Dios; quattro minuti dopo scarta mezza squadra avversaria, depositando alle spalle di Peter Shilton quello che verrà definito il gol del secolo.
Il gol del secolo, arricchito dal commento di Víctor Hugo Morales
Dopo un’altra splendida prestazione, ancora con doppietta, contro il Belgio, Maradona ha appena la possibilità di respirare nella finale contro la Germania Ovest, braccato dai difensori teutonici. Un respiro che risulterà però fatale, perché si traduce in un lancio per Burruchaga che, davanti a Schumacher, non sbaglia e mette a segno il 3-2 finale. L’Argentina è campione del mondo.
Per la maggior parte dei calciatori, vincere un Mondiale è il punto più alto che si possa raggiungere: si tratta della massima aspirazione per chiunque inizi a praticare questo sport. Era il sogno fin da bambino anche per Diego, ma a lui non bastava: voleva vincere anche a Napoli. Voleva regalare al popolo partenopeo un trionfo simile a quello che aveva appena regalato alla sua Argentina. Rifiutò infatti ogni tipo di proposta arrivata dopo quel Mondiale da assoluto mattatore, con in testa quell’unica missione.
Il segnale della presenza del Napoli tra le big si era manifestato con quella famosa punizione, e tra la gente di Napoli era aumentata ancora di più la convinzione che Maradona sarebbe stato l’uomo della provvidenza, colui che avrebbe portato il Napoli sul tetto d’Italia.
Per la prima volta campioni
Nel tentativo di trasformare questa squadra solo competitiva in una veramente vincente, Ferlaino porta a Napoli l’attaccante Andrea Carnevale e il centrocampista Fernando De Napoli. Il vero colpo di mercato però, sottovalutato quanto geniale, è l’arrivo a ottobre del regista Francesco Romano, ragazzo che militava in Serie B nella Triestina, ma capace di mettere ordine in una squadra dal tasso tecnico impressionante. L’operazione porta la firma di Pierpaolo Marino, direttore sportivo che vent’anni dopo avrebbe fatto le fortune anche del Napoli di De Laurentiis, portando all’ombra del Vesuvio giocatori come il Pocho Lavezzi e Marek Hamšík.
Ottavio Bianchi spese parole di grande elogio per Romano, spiegando come fosse il giocatore che mancava per mettere in campo la sua idea di calcio. Da quel momento, il Napoli inizia finalmente a convincere gli appassionati, compresi i detrattori dell’allenatore bresciano, trasformandosi in una vera macchina da guerra.
Anche questa volta il Napoli riesce a battere la Juventus nel mese di novembre, ma per la prima volta dopo 28 anni riesce a farlo a Torino, reagendo nell’ultimo quarto d’ora con tre gol – Ferrario, Giordano, Volpecina – all’iniziale vantaggio firmato da Laudrup. Gli azzurri salgono così in testa alla classifica, a discapito proprio dei bianconeri. Vengono agganciati soltanto dall’Inter sul finire del girone d’andata, ma la sconfitta della Beneamata a Verona consegna il titolo di campione d’inverno a Maradona e compagni.
L’unica piccola frenata dei partenopei arriva nel mese di marzo, con una sola vittoria – a Bergamo – nelle prime quattro partite del mese, in cui arriva anche una sconfitta nello scontro diretto con l’Inter. Il 29 marzo il Napoli si rilancia battendo di nuovo la Juventus, questa volta per 2-1, con gol decisivo proprio di Ciccio Romano. Un mese dopo è la volta del Milan, che viene piegato con lo stesso risultato: la sblocca Carnevale, poi Maradona mette a segno quello che forse è il suo gol più bello tra quelli segnati in Serie A. L’argentino riceve un lancio di Giordano e con una sensibilità tecnica impressionante stoppa la palla, scarta il portiere e deposita in rete. Il Milan accorcia le distanze con Virdis, ma è il Napoli a portare a casa i due punti. L’Inter intanto perde terreno e i campani vedono finalmente il sogno realizzarsi.
Una rete in tre tocchi geniali che solo Lui poteva fare
La matematica certezza della vittoria del campionato arriva il 10 maggio 1987, con il pareggio al San Paolo contro la Fiorentina per 1-1. Al vantaggio azzurro di Carnevale, la Viola risponde con un gol su calcio di punizione. A realizzarlo è un ragazzino di vent’anni che risponde al nome di Roberto Baggio. Sembra quasi che il destino si sia divertito a incrociare in qualche modo due carriere straordinarie, che hanno segnato la storia del calcio italiano e non solo.
A fine partita può finalmente scoppiare la festa: la Fiorentina è matematicamente salva, mentre il Napoli è per la prima volta campione d’Italia. Ciò che tutto il popolo partenopeo riteneva impossibile è diventato realtà. Napoli è sul tetto d’Italia. È un momento che in città attendono da sempre, tanto che all’entrata del cimitero, nel tipico spirito goliardico napoletano, compare la scritta «Che vi siete persi».
La stagione, però, non è ancora finita. Ci sono da giocare le fasi finali della Coppa Italia, competizione con un format molto diverso da quello attuale, che prevedeva anche una fase a gironi, durante la quale il Napoli aveva vinto tutte le partite.
Fu così anche nella seconda parte del torneo: il Napoli le vinse tutte, compresa la doppia sfida con l’Atalanta in finale, arrivando a 13 vittorie su 13, un record che non è mai stato battuto e difficilmente lo sarà dato il cambio di format. La difesa, in cui figuravano gli esperti Moreno Ferrario e Giuseppe Bruscolotti – detto Palo ‘e fierro per la sua grande forza fisica – e un giovanissimo Ciro Ferrara, subì soltanto 5 gol, dopo essere stata anche tra le meno battute in campionato – 21 gol subiti in 30 partite.
Il Napoli riuscì così a conquistare il double, impresa che fino a quel momento era riuscita soltanto al Grande Torino e alla Juventus – negli anni Duemila si sarebbero poi aggiunte a questo ristretto gruppo la Lazio e l’Inter.
Il Napoli continua a vincere
Nell’estate del 1987 arriva a Napoli il centravanti Antônio Careca, che aumenta ancora il potenziale offensivo della squadra. Il Napoli di quel campionato sembra essere avversario soltanto di sé stesso, perché per la prima volta nella sua storia parte con i gradi di campione d’Italia e di squadra da battere. Gli azzurri si rivelano una macchina da gol ed è da segnalare la vittoria contro l’Ascoli per 1-3 a gennaio 1988: al vantaggio dei marchigiani rispondono, nell’ordine, Maradona, Giordano e Careca. Dalle loro iniziali nasce il nome con cui il trio verrà ricordato: MaGiCa.
Nelle ultime giornate, però, avviene l’imponderabile: gli azzurri ottengono un solo punto in cinque partite, permettendo al Milan di Sacchi di conquistare la vetta al fotofinish. Varie dietrologie vengono tirate in ballo e ci fu persino una rivolta contro Ottavio Bianchi, che però rimase sulla panchina del Napoli. Certo, dall’altra parte c’era un Milan che non sbagliava un colpo e uscì dal San Paolo tra gli applausi dei tifosi avversari, ma quello degli azzurri fu un vero e proprio harakiri che a distanza di anni nessuno è riuscito a spiegare.
Nel 1988 arriva a Napoli il centrocampista brasiliano Alemão, ma il campionato 1988/1989 è dominato dall’Inter dei record di Giovanni Trapattoni. Il Napoli riesce però a trovare un senso alla sua stagione in Coppa UEFA: dopo aver superato PAOK, Lokomotiv Lipsia e Bordeaux, si ritrova a giocare i quarti contro la Juventus di Dino Zoff. A Torino finisce 2-0 per i bianconeri, ma al ritorno i partenopei rimontano e trovano il gol qualificazione nei supplementari con Alessandro Renica.
In semifinale, il Napoli supera il primo Bayern Monaco di Jupp Heynckes, battendolo 2-0 in casa e pareggiando 2-2 in Baviera. Nella gara in terra tedesca, però, più che la partita quello che rimarrà maggiormente impresso nelle memorie collettive sarà il riscaldamento pre-partita di Maradona, che diverte il pubblico palleggiando a tempo di musica sulle note di ‘Live is Life‘ degli Opus.
Nella doppia finale contro lo Stoccarda di Arie Haan, il Napoli vince 2-1 l’andata al San Paolo – in gol i soliti Maradona e Careca, che risposero al momentaneo vantaggio teutonico firmato dal tedesco di origini campane Maurizio Gaudino – e poi pareggia 3-3 il ritorno al Neckarstadion, in Germania – reti di Alemão, Ciro Ferrara e ancora Careca –, portando a casa il primo e finora unico trofeo europeo della propria storia. È ancora festa grande.
Il campionato 1989/1990, con Albertino Bigon sulla panchina azzurra, presenta un Napoli imbattibile in casa, dove mette a segno 14 vittorie e 1 pareggio contro la Sampdoria, ma con qualche difficoltà di troppo in trasferta.
A proposito di trasferte, in quella di Bergamo, storicamente ostica per gli azzurri, Alemão viene colpito da una monetina lanciata dagli spalti. Il centrocampista brasiliano esce dal campo e la gara termina sullo 0-0, ma dopo il ricorso degli azzurri viene assegnato, tra mille polemiche, lo 0-2 a tavolino. Tre settimane dopo, a seguito delle vittorie contro Bari e Bologna, il Napoli batte anche la Lazio grazie al gol di Marco Baroni e conquista il secondo scudetto della propria storia.
Tanto è stato detto sulla vittoria di quel campionato e sull’importanza, nel momento decisivo, della monetina di Alemão, anche se, a conti fatti, con il pareggio a Bergamo, il Napoli avrebbe comunque vinto il titolo, dati i due punti di vantaggio sul Milan nella classifica finale.
Con il senno di poi, però, si può dire che il Napoli pagò a carissimo prezzo la vittoria del campionato 1989/1990. Per tutta la stagione circolavano voci di malumori e di mal di pancia per Maradona e in tanti iniziarono a pensare che fosse entrato nel tunnel della droga.
Notti magiche
Nell’estate del 1990 si verifica quello che forse è il vero punto di non ritorno della storia di Maradona a Napoli: il Mondiale giocato in Italia, quello delle Notti magiche che i tifosi della Nazionale azzurra non dimenticheranno mai nonostante il mancato lieto fine.
In semifinale, l’Argentina del Pibe de Oro affronta un’Italia lanciatissima, che crede nella possibilità di vincere il Mondiale casalingo, trascinata dai gol di Totò Schillaci. Il luogo della sfida è proprio lo Stadio San Paolo di Napoli, la patria di Diego Armando Maradona.
Qui le testimonianze sono spesso discordanti. C’è chi è disposto a giurare che la quasi totalità dei tifosi presenti sugli spalti sostenesse la Nazionale albiceleste del loro idolo Maradona, e chi invece ricorda uno striscione che recitava: «Diego, ti amiamo ma il nostro cuore è azzurro» e il conseguente tifo per l’Italia.
Forse, come sempre, la realtà sta nel mezzo: la maggior parte tifavano per gli Azzurri, ma c’era senza ombra di dubbio una frangia di tifosi napoletani da sempre in cattivi rapporti con il resto dell’Italia e fin troppo affezionati a Maradona per voltargli le spalle in quella partita.
Dopo l’eliminazione dei padroni di casa – dovuta certamente di più all’uscita a vuoto di Zenga che non al pubblico del San Paolo –, gran parte dell’Olimpico di Roma avrebbe poi tifato la Germania per la finale, e fu così che Maradona rispose ai fischi assordati durante l’inno argentino insultando gli italiani con le famose parole «hijos de puta».
L’ultimo atto di Maradona a Napoli
A settembre arrivò la roboante vittoria per 5-1 ai danni della Juventus, che valse la Supercoppa Italiana, la prima della storia del club, ma fu il canto del cigno del Napoli di Maradona e forse dell’intera carriera del Pibe de Oro.
Dopo essersi completamente unito con la città, Maradona finì con l’essere inghiottito dalle pressioni e dalla sua stessa condizione di Re di Napoli. I problemi con la cocaina aumentavano e Diego non riuscì più a essere il fenomeno che tutti conoscevano, tanto che in quel campionato non segnò neanche un gol su azione.
Poi accadde tutto all’improvviso: dopo un Napoli-Bari, Diego risultò positivo ai controlli anti-doping. Non ci fu un addio davanti a uno stadio gremito di tifosi: Maradona ha giocato la sua ultima partita con il Napoli senza che nessuno, neanche lui, lo sapesse.
Fu un 4-1 allo Stadio Luigi Ferraris contro la Sampdoria, in cui segnò su rigore l’ultimo dei suoi 115 gol in maglia partenopea, in una partita che, unita a quella dell’andata – finita con lo stesso risultato – e alla rimonta subita in Coppa Italia, segnò un vero e proprio passaggio di consegne: la Sampdoria di Vialli e Mancini sarebbe stata la nuova favola del calcio italiano, che a fine stagione avrebbe vinto il suo primo e finora unico scudetto.
La squalifica sarebbe durata fino al 30 giugno 1992 e la FIFA forzò la cessione del calciatore, il quale prese pochi giorni dopo un volo di sola andata per Buenos Aires. I tifosi furono così costretti a risvegliarsi bruscamente da questo sogno durato quasi sette anni, e dopo pochi giorni tutti si chiesero se questa bellissima favola l’avessero vissuta davvero.
Il declino di Maradona e del Napoli dopo la separazione
A testimonianza di come quello fra Maradona e Napoli fosse un legame indissolubile, la separazione fu il preludio di un lento ma inesorabile declino per entrambi. Maradona, nonostante avesse soltanto trent’anni, non riuscì mai a ripetere le imprese compiute all’ombra del Vesuvio, regalando soltanto sprazzi del suo talento ai tifosi di Siviglia e Newell’s Old Boys prima del nostalgico ritorno al Boca Juniors.
Il Napoli, dal canto suo, restò soltanto una squadra di media classifica per tutta la prima parte degli anni Novanta. L’ultima grande illusione del popolo partenopeo fu l’edizione 1996/1997 della Coppa Italia, in cui il Napoli arrivò persino a vincere la finale d’andata contro il Vicenza per 1-0 con gol di Fabio Pecchia. Al Romeo Menti, però, i biancorossi portarono la partita ai supplementari e poi piegarono il Napoli con due gol negli ultimi due minuti del secondo tempo supplementare, quando tutti pensavano che sarebbero serviti i rigori, per il 3-0 finale.
La sconfitta con il Vicenza fu una doccia gelata. Fu qualcosa in più di una finale persa: coincise con l’amara presa di coscienza da parte di tutto il popolo partenopeo che il Napoli non era più una grande squadra, che sarebbero iniziati anni molto difficili, e nessuno avrebbe potuto dire se gli azzurri sarebbero tornati ad alzare un trofeo senza Diego. Si dovranno attendere altri quindici anni, con in mezzo persino un fallimento e due anni nell’allora Serie C1, per sollevare un’altra Coppa Italia, con il trionfo dei ragazzi di Walter Mazzarri nel 2012. Seguirà poi un decennio in cui il Napoli continuerà a portare a casa trofei, nello specifico altre due Coppe Italia e una Supercoppa Italiana, ma in campionato dovrà “accontentarsi” del secondo posto come miglior risultato, raggiunto addirittura quattro volte, sempre dietro alla Juventus vincitrice di nove scudetti consecutivi.
Sarà soltanto nel 2023, a 33 anni di distanza dall’ultimo trionfo in campionato, che lo scudetto tornerà all’ombra del Vesuvio. Nel Napoli di Luciano Spalletti, però, certamente non troviamo nessun “nuovo Maradona”. Al contrario, gli azzurri hanno dalla loro parte un collettivo che, guidato dal tecnico di Certaldo, ha formato un ingranaggio perfetto, vincendo contro ogni pronostico iniziale.
Dio è morto
Nonostante le controversie al momento dell’addio, il legame tra Diego e la città non si è interrotto mai. Allo stesso tempo, non si è mai davvero interrotto nemmeno quello tra il dieci argentino e i vizi della vita: durante e soprattutto dopo la sua carriera ha avuto diversi problemi di salute. L’abuso di cibo, alcol e sostanze stupefacenti – su tutte la cocaina, della quale è stato dipendente dal 1982 al 2004 – ne hanno progressivamente peggiorato le condizioni, motivo per il quale ha dovuto affrontare diversi ricoveri ospedalieri, operazioni e processi di disintossicazione nei primi due decenni del Duemila.
Nel novembre del 2020 è costretto ad una delicata operazione al cervello. La paura scompare quando, dopo pochi giorni, viene giudicato fuori pericolo, tanto da suscitare l’illusione che lui potesse davvero essere immortale, un’illusione durata poche settimane: Dio è morto – come ha titolato anche L’Équipe il giorno dopo. Un’edema polmonare acuto se lo è portato via, in circostanze non chiarissime.
Mentre in Argentina venivano dichiarati tre giorni di lutto nazionale, a Napoli era come se tutti avessero perso un caro amico, uno a cui si vuole bene, e non poteva essere altrimenti date le gioie che Diego aveva portato ai napoletani. Era un uomo del popolo riuscito nell’impresa di divenire il Re della città e il condottiero che li aveva guidati alla vittoria, che aveva reso possibile ciò che tutti ritenevano improbabile.
Da quando Diego non c’è più, la forma di questo rapporto viscerale tra Napoli e la sua figura ha assunto la forma più pura, quella di un’adorazione religiosa a tutti gli effetti. Maradona è diventato veramente D10S – gioco di parole con il suo numero di maglia, che ovviamente era già stato ritirato da tempo dalla società azzurra.
Sembra quasi uno scherzo del destino che il Napoli sia tornato a vincere il campionato poco dopo la sua scomparsa, tra l’altro nella stessa annata in cui l’Argentina è finalmente tornata sul tetto del mondo, trascinata da un Lionel Messi le cui prestazioni hanno ricordato proprio quelle di Diego a Messico ’86. Data questa dimensione che ha assunto Maradona tanto a Napoli quanto in Argentina, in molti sono pronti a giurare su un suo intervento divino.
Sebbene siano tornate a trionfare in modi completamente diversi, però, il grande merito di entrambe le compagini è stato proprio quello di non dare spazio a nessun tipo di nostalgia e fare in modo che i tifosi si godessero un meraviglioso presente, in cui comunque Diego continua a vegliare. Quel che è certo, al di là degli aspetti mistici, è che la vittoria del Napoli è avvenuta nel tempio a lui dedicato, lo stadio che lui più di chiunque altro ha illuminato nel passato e che adesso porta il suo nome, ennesimo aspettato che rende immortale il legame tra la città campana e il suo eterno idolo.
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