Palacio

Rodrigo Palacio, questo scudetto non s’ha da fare

I Personaggi PSS Slider

Esiste un’insormontabile differenza fra sport di squadra e sport individuali. Ed il calcio, fra i primi, è forse quello più crudele. Un contesto dove mediocri gregari possono collezionare infiniti trofei, e acclamati fenomeni chiudere la carriera con la bacheca tristemente vuota. Il calcio è quello sport dove paradossalmente, e a discapito della semantica, sono i secondi a guadagnarsi il titolo di “campioni”; perché i percorsi individuali non possono prescindere dai contesti, dai compagni, dai momenti storici del club di riferimento. E Rodrigo Palacio, un campione lo è stato, ma per citare Roberto Scarpini, storica voce di Inter TV, Don Rodrigo, non riuscirà mai a traslare la sua classe, il suo senso tattico e la sua indiscutibile superiorità tecnica in un trofeo con l’Inter. La promessa di tagliare la sua inconfondibile treccia, una volta vinto il campionato, è rimasta infranta.



È il 2012 quando l’Inter si assicura le prestazioni dell’argentino, acquistandolo dal Genoa. In rossoblù Rodrigo, come ovunque gli è capitato in carriera, è divenuto in poco tempo il giocatore simbolo per la tifoseria. Ci riesce in particolar modo nella stagione che precede quella del suo trasferimento a Milano, dove realizza 21 goal in 34 presenze. In totale sono 38 reti in 100 apparizioni, spalmate in tre stagioni con il Grifone, a convincere i nerazzurri a puntare su di lui.

È una fase di transizione molto delicata per l’Inter, che ha chiuso la stagione 2011/2012 senza aver alzato nemmeno un trofeo, cosa che non accadeva da quasi un decennio. Con l’addio di Eto’o e le dimissioni di Leonardo, l’arrivo di Claudio Ranieri e gli acquisti di Mauro Zárate e Diego Forlán non sono sufficienti a mantenere i milanesi sui livelli abituali. Se quella stagione ha rappresentato la fine di un ciclo, quella successiva, dunque, deve necessariamente coincidere con l’apertura di un nuovo ciclo. La squadra è affidata ad Andrea Stramaccioni, giovane tecnico romano, che ha fatto vedere ottime cose nelle giovanili, vincendo la NextGen Series – antenato della Youth League. Gli eroi del Triplete iniziano a divenire più marginali, se non prossimi al ritiro.

La porta è affidata a Samir Handanovič, fra le lacrime d’addio di Júlio César; in difesa sono Andrea Ranocchia e Juan Jesus ad avere sulle spalle l’eredità dei vari Lúcio, Samuel, Materazzi e Córdoba.

Dalla cintola in su, anche a causa del grave infortunio di Diego Milito contro il Cluj, a febbraio, solo Cambiasso e Zanetti giocheranno con grande continuità fra i senatori. E con Ricky Álvarez, Fredy Guarín, Antonio Cassano e così via, si costituisce una nuova guardia ampiamente non all’altezza della precedente.

Alla fine della stagione l’Inter arriverà nona e il numero degli infortunati sarà da record, eppure le prestazioni del Trenza Palacio saranno un faro nel buio.

A dire il vero l’Inter inizia anche bene quel campionato, con la squadra al completo. Su tutte, la vittoria in casa della Juventus, la prima subita dai bianconeri allo Stadium, dove Palacio siglerà il goal del 3-1, imbeccato da Nagatomo. Nel 4-3-3 di Stramaccioni, si sviluppa una buona sintonia con Milito e Cassano.

Siamo in una fase della carriera dell’argentino estremamente prolifica e più votata al ruolo di centravanti in senso classico. Saranno 22 in 39 partite totali i goal di Palacio in quella stagione, prima che la strage di infortuni colpisse anche lui. A quel punto fu davvero impossibile per l’Inter, il cui attacco era retto da Rocchi e Livaja, evitare di scivolare addirittura sotto al Catania, costringendosi a partire addirittura dai turni estivi di Coppa Italia.

Questa caduta verticale trova ampia spiegazione nella perdita dell’argentino, autentico trascinatore nella fase centrale della stagione. Egli partecipa, ad esempio, alla rimonta contro il Tottenham, negli ottavi di Europa League, che per poco non dà la qualificazione ai nerazzurri; vince da solo un match tiratissimo a Genova, contro la Sampdoria, con una fuga in solitaria memorabile; e come se non bastasse, nella sfida casalinga contro il Verona di Coppa Italia, assume l’iconica posizione di portiere, regalando persino una parata plastica ai posteri. In un momento così difficile, Palacio è ancora una volta l’idolo indiscusso della tifoseria di riferimento, stavolta più esigente e più ferita delle precedenti, ma che già inizia a intravedere le doti umane, il sacrificio e la dedizione che esulano, e completano, quanto l’argentino mostra in campo.



Nella stagione 2013/2014 l’Inter riparte da Walter Mazzarri. L’allenatore toscano criticherà aspramente il lascito del suo predecessore, lamentando la necessità di dover ripartire dalle basi. È in questa stagione che i tifosi nerazzurri possono ammirare la migliore versione di Rodrigo Palacio. Il 3-5-2 di Mazzarri lo costringe a mutare, in parte, il suo modo di giocare. È una fase ibrida della sua carriera, in cui Rodrigo riesce a mantenere medie realizzative mai più registrate, ma inizia a mostrare le caratteristiche che lo contraddistingueranno nelle stagioni successive, al punto che nell’Inter faticherà terribilmente a riadattarsi a moduli differenti, divenendo sempre più marginale nelle rotazioni.

L’idea iniziale di Mazzarri è quella di affiancare all’argentino Ishak Belfodil, relegando a Palacio il ruolo di punta effettiva, con l’algerino a sostegno come mezza punta. Con questa disposizione tattica, a divenire fondamentali sono gli esterni, Jonathan e Yuto Nagatomo, in particolare il primo, mai visto su livelli così apprezzabili. Il centrocampo è retto per l’ultima volta da Esteban Cambiasso, affiancato da Fredy Guarín e Mateo Kovačić. La squadra sembra avere delle geometrie ben calibrate, e inizia molto bene in campionato.

Il gioco si sviluppa da esterno a esterno, nel tentativo di liberare Palacio al tiro, fondamentale dunque nella prima parte di stagione come punto di riferimento offensivo nella manovra. Tuttavia essa ha il difetto di essere abbastanza monotona e limitata da un tasso tecnico ancora inferiore agli standard della squadra nerazzurra. A cedere per primi, sono la difesa, dove Ranocchia, Juan Jesus e soprattutto Campagnaro hanno un crollo verticale nella qualità delle prestazioni; e l’attacco dove, come spesso accaduto in quegli anni, Belfodil si rivelerà un fiasco totale, e sarà ceduto nel mercato invernale. Con Milito ormai alla sua ultima, annunciata stagione con questa maglia, è finalmente Mauro Icardi a conquistarsi la maglia da titolare, ed è in questo preciso momento che inizia la seconda parte della carriera di Palacio, fisiologicamente relegato a seconda punta, in un calcio che ormai non può più sostenere la compresenza di due centravanti puri in campo. Con un animale d’area di rigore come compagno di reparto, Rodrigo arretra la sua posizione, e sviluppa con il giovane connazionale un’intesa immediata, che permette all’attacco nerazzurro di guadagnare una sua estetica.

Mauro gioca di sponda, Palacio riceve, allarga il gioco; prende la posizione laterale, liberando a Kovačić lo spazio per imbucare il compagno di reparto. Scherza con gli avversari sulla linea laterale per guadagnare tempo, rimesse o punizioni nelle situazioni di vantaggio. Sviluppa, o meglio dimostra, un’intelligenza tattica e una saggezza calcistica che gli garantiscono una percezione di signorilità, in grado di incanalare il rispetto persino delle tifoserie avversarie. Palacio è, in un’epoca in cui è ancora un tabù provare a vincere un campionato con un modulo di questo tipo, un esemplare prototipo di regista offensivo.

E a suggellare questa sua infinita qualità, della sua esperienza in nerazzurro resta soprattutto l’iconica immagine di un derby deciso a cinque minuti dalla fine con un goal di tacco. Quell’anno l’Inter tornerà in Europa League, in una stagione spartiacque fra presente e passato, come quell’Inter-Lazio 4-1, decisa proprio da una doppietta di Palacio e da un goal di Icardi, la nuova generazione di trascinatori argentini, che vede l’addio di Walter Samuel, Esteban Cambiasso, Diego Milito e il capitano Javier Zanetti, in un giorno che verrà appunto ricordato come ‘l’addio degli argentini‘.




Sebbene l’Inter, per storia e tradizione, abbia sempre l’obbligo di non escludere aprioristicamente l’idea che quanto fatto in estate sia funzionale alla ricerca della vittoria finale, ai nastri di partenza della stagione 2014/2015 sembra ormai chiaro che la Juventus, almeno in Italia, faccia un altro sport. Ad essere ancora più preoccupante, è però che squadre come Roma e Napoli, sono allo stesso modo più attrezzate quantomeno per provare a infastidire i bianconeri. Come per ogni grande giocatore che accetti di restare in una squadra destinata a lottare per obiettivi differenti, nonostante farebbe comodo un po’ a qualsiasi top club europeo, l’idea che Palacio meriti di vincere lo scudetto con la maglia nerazzurra è condivisa, ma terribilmente lontana. E quella stagione è emblematica di come il traguardo sembri distanziarsi anno dopo anno.

Mazzarri viene esonerato a causa di un livello di gioco impresentabile, e l’Inter viene riaffidata a Roberto Mancini, dopo sei stagioni dall’arrivo di José Mourinho. Per Rodrigo quell’anno non sarà molto diverso dal precedente, dove l’intesa con Icardi persiste, come la sua propensione a spaziare per tutta la trequarti avversaria, sacrificando ulteriormente la sua vena realizzativa. Gli arrivi a gennaio di Shaqiri e Podolski permettono a Mancini di proporre un 4-2-3-1 che non penalizza particolarmente el Trenza, per il momento, in quanto può conservare il suo ruolo di mezza punta e il suo modo di giocare. Purtroppo però i nuovi acquisti non rendono come auspicato, e la viva idea che si fosse di fronte a una rinascita calcistica, che avrebbe dato i suoi rigogliosi frutti nella stagione successiva, deve essere abbandonata di fronte all’evidenza dell’ennesimo fallimento sul mercato.

La stagione 2015/2016 è difficilmente spiegabile. Mancini stavolta può costruire la sua squadra già dall’estate, in modo che sia funzionale al suo 4-3-3. La prima rivoluzione è in difesa, dove Ranocchia e Juan Jesus, esaurita la pazienza di società e ambiente, vengono sostituiti dall’esperto Miranda e da Jeison Murillo. A centrocampo viene confermato Gary Medel, supportato da Felipe Melo e Geoffrey Kondogbia, ma soprattutto da Marcelo Brozović, che inizia a prendersi in mano le chiavi del centrocampo nerazzurro, dopo qualche attrito iniziale. Nel complesso la gestione del reparto sarà caotica, quanto deludente, ma mai come l’attacco, dove si verificano inspiegabili rivoluzioni a stagione in corso. Palacio soffre inevitabilmente la nuova disposizione tattica, dato che per Mancini è più logico schierare Perišić e Ljajić sugli esterni, servendosi di Icardi come punta di riferimento e soprattutto di Jovetić come falso nueve. E le cose, non ce ne voglia Palacio, funzionarono così bene da permettere all’Inter di laurearsi campione d’inverno. Quando però riprende il campionato, inspiegabilmente Ljajić, trascinatore della prima parte di stagione, viene sempre più marginalizzato, destino che dopo poco sarà riservato anche a Jovetić.

Palacio ritrova dunque la titolarità, anche se in una posizione molto più esterna di quanto usuale, come succederà per Éder, entrambi posizionati ai lati di Icardi. Con l’italo-brasiliano mai veramente convincente, fra i due attaccanti argentini qualcosa si rompe. Palacio fatica ad adattarsi alla nuova posizione di esterno, dove Ivan Perišić è senza dubbio il giocatore più indicato e continuo. In sostanza è difficile, nella seconda parte di stagione, trovare due partite di fila in cui Mancini schiera lo stesso terzetto d’attacco, e l’Inter ne risente, scivolando in zona Europa League, e ne risente lo stesso Palacio, che in quel campionato segnerà appena due goal.



Rodrigo è ormai un giocatore meno esplosivo che in passato, meno votato al goal e meno rapido. Il suo gioco è più ragionato e meno verticale. Con i cambi tattici dovuti agli avvicendamenti sulla panchina nerazzurra, questa sua nuova impostazione tecnica venne forse confusa, a ragione o a torto, con i germi del declino, e sia de Boer che Stefano Pioli, nella stagione 2016/2017, non lo hanno mai considerato come un titolare. Con umiltà Palacio ha continuato a garantire quello che sapeva fare meglio: entrare per difendere il pallone e innervosire l’avversario nelle situazioni di vantaggio. In quella stagione disastrata sfumò definitivamente il sogno dello scudetto. Ormai Rodrigo non era più funzionale alla squadra, apparentemente nella fase calante della sua carriera, e la riduzione del gap con la Juventus continuava ad essere un miraggio.

Palacio è costretto a lasciare Milano con la treccia ben ancorata alla nuca. Ci vorranno altre quattro stagioni prima che l’Inter riesca ad alzare al cielo l’agognato scudetto, mentre Palacio si riprende titolarità e deferenza trasferendosi al Bologna, divenendone capitano, e ovviamente, giocatore simbolo. Quattro anni in cui per Palacio sarebbe stato inconcepibile provare a riconquistare le gerarchie nerazzurre: questo scudetto non s’ha da fare, eppure, soprattutto fra il 2017 e il 2019, quando Spalletti gettava le basi per i trionfi di Antonio Conte, se le cose si mettevano male, si poteva ancora sentire qualche tifoso borbottare «ma non ci avrebbe fatto comodo adesso Palacio?»


Leggi anche: La generazione Icardi, tra dispiacere e nostalgia