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Irlanda, quando il calcio è una questione politica

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Una storia di nebbia fitta e freddo intenso che gela i volti di chi, in piena notte, cerca riparo dalle bombe tra le strade di Derry o Belfast. Il buio e il silenzio vengono squarciati dall’odore acre del fumo e dalla luce delle sigarette, che servono ad ammazzare l’attesa del prossimo scoppio violento. Lacrime, sangue e paura hanno avvolto, per quasi 30 anni, l’Irlanda – considerata in senso largo del termine – e i cuori di migliaia di civili inermi, di bambini a cui è stato negato il diritto, sacrosanto, di giocare a calcio, di rincorrere un pallone sgualcito. Al 16 di Burren Way, nel distretto di Castlereagh nell’East Belfast, non si gioca più a pallone, non si impara a dribblare schivando i calci come faceva negli anni Cinquanta il più grande di tutti, George Best. Da quelle parti adesso si impara a tenere in mano una pistola, si impara a far detonare bombe volte a uccidere, a incutere timore. Durante il trentennio 1968-1998 la città di Belfast, la sera, si trasforma in un teatro di guerra, una guerra denominata ‘a bassa intensità’, per evitare di chiamarla guerra civile.



Il conflitto trova le sue radici in questioni religiose. Nel 1922, in seguito alla guerra anglo-irlandese, l’Irlanda del Nord, separata dalla Repubblica D’Irlanda – meglio conosciuta con il nome Eire – viene divisa in sei contee sotto il controllo del governo inglese. All’interno di queste contee i cittadini cattolici, ancora legati all’Eire, vengono fortemente discriminati: viene negata loro la possibilità di trovare lavoro, accedere alle case popolari e di assumere cariche pubbliche, anche in città come Derry che sono a maggioranza cattolica.

Proprio la città di Derry, in questa narrazione, assume un’importanza notevole. Lì il movimento cattolico prende la consapevolezza di dover agire per garantirsi un futuro, e nel 1969 avvengono i primi scontri tra unionisti – protestanti vicini al Regno Unito – e i repubblicani cattolici. La città viene ghettizzata dopo il Bloody Sunday del 1972, impresso nei ricordi di tutti per il successo dell’omonima canzone degli U2.

In seguito ai disordini di quel giorno del ’72, l’intervento britannico, cruento e brutale, inasprisce ancora di più gli animi provocando diversi morti tra la folla. Questo bollettino di guerra, che fa contare più di 1.800 morti civili in 30 anni, viene chiuso ufficialmente nel 1998, con il ripristino del parlamento nordirlandese bilanciato, nella composizione, tra cattolici e protestanti.

A Derry si erge ancora oggi un monumento che recita: «You are now entering free Derry», a testimonianza di una guerra tra fratelli, una guerra ingiusta in cui anche il calcio ha svolto e svolge la sua parte.


Da Belfast a Glasgow

Lo sport in generale e il calcio in particolare, sublimano l’essenza dell’essere umano nell’agonismo e nel rispetto tra avversarsi, ma in Irlanda del Nord, terra di mezzo e linea di confine, questo paradigma non funziona. Il calcio a queste latitudini è un pretesto per mettere in campo la politica, nel senso letterale del termine, usando lo sport come mezzo di espressione e grimaldello di violenza.

In particolare è interessante vedere come le curve dei club calcistici siano sempre e comunque politicizzate. Belfast non fa eccezione, anzi, i match tra Linfield – estremamente vicini agli ambienti protestanti – e Belfast Celtic – chiamati così in onore dei Celtic di Glasgow, fondati da cattolici irlandesi – sono stati per anni, fino al 1949, delle vere e proprie guerre. Proprio nel ’49 va in scena l’ultimo atto della rivalità con un deludente 1 a 1 sul campo e un devastante bollettino di guerra fuori. Dalla mancata squalifica del Linfield scaturisce la scelta dei Celtic di abbandonare il calcio e consecutivamente la politica, lasciando la sua eredità fortemente scozzese-cattolica, a squadre come Cliftonville e Glentoran. Nel frattempo il Celtic Park, stadio dei Celtic e simbolo cattolico, viene definitivamente demolito.

La demolizione potrebbe trarre in inganno e sembrare un gesto simbolico di rottura con il passato, ma non è così. Proprio negli anni Settanta, precisamente dopo il Bloody Sunday del ’72, gli scontri tra il redivivo e protestante Linfield e Cliftonville o Glentoran diventano sempre più duri. La storia di personaggi come Michael Atson, Terry Nicholl e Bobby Sands è emblematica, e per capire bene come il germe della guerra e dell’odio si sia insediato nei cuori e nelle menti di tutti, anche dei bambini, è importante ricordare la triste storia di calcio e dolore proprio di quest’ultimo.

Il ragazzotto cresciuto a Rathcoole, periferia di Belfast, è uno dei simboli della resistenza cattolica in Nord Irlanda, una volta carcerato ha difeso strenuamente i diritti dei cattolici ad essere trattati come detenuti normali. Bobby ha ispirato generazioni di combattenti cattolici, morendo in carcere nel 1981, a causa di uno sciopero della fame. A Sands piaceva da matti il calcio, nella Stella Maris, sua squadretta giovanile, giocava come mezzala, una mezzala di bassa qualità ma ruvida abbastanza da rendere il passaggio del centrocampo un problema. Dopo l’inizio degli scontri in Irlanda, però, Bobby viene sempre più emarginato a causa della sua origine cattolica, costringendolo ad abbandonare il calcio, ad abbandonare i suoi sogni che aveva condiviso con ragazzi protestanti che gli erano amici ma che diventano nemici subito dopo il ’72, dopo lo scoppio dei troubles. Ragazzi protestanti come Atson o Nichool, nella Stella Maris, giocavano fianco a fianco con Sands, ignari che avrebbero dovuto combatterci poco dopo con delle armi. In Irlanda del Nord, quel poco di umanità rimasta era stata intaccata, anche il mezzo di socializzazione universale più conosciuto al mondo, il calcio, era diventato inefficiente.


James McClean, oltre il Venerdì Santo

Dopo la fine degli scontri, in seguito all’accordo chiamato del ‘Venerdì Santo‘, che ha pacificato le parti nel 1998, viene ristabilito il Parlamento nordirlandese e la palla ricomincia a viaggiare su campi verdi. Le macerie lasciano spazio al sole che filtra tra la nebbia e le urla dei bambini, che riprendono ad imitare il grande Best per le strade. C’è però una città che ancora non ha digerito tutto, una città ancora una volta fondamentale per la narrazione irlandese: Derry.

La squadra di calcio di Derry sceglie volontariamente di non partecipare al campionato nordirlandese, iscrivendosi a quello della Repubblica d’Irlanda. Ancora una volta la città cattolica è protagonista di contraddizioni, di stoico coraggio celtico, dando anche i natali ad un ragazzo che tutt’oggi porta fiero nelle vene il sangue irlandese dei suoi avi: James McClean.

Cresciuto a Derry, James come tutti i ragazzi nordirlandesi, sogna nel segno del più grande, nel segno di George Best. Gioca come ala, ha buone qualità e dal Derry fa il grande salto in Premier. Il Sunderland, il Wigan, il WBA ed infine lo Stoke, sono le squadre dove ha militato il ragazzo di Derry, ma non sono questi gli avvenimenti più iconici della sua carriera. Al di là delle sue qualità sul campo da calcio, James viene ricordato per aver cambiato la sua nazionalità da nordirlandese a irlandese dell’Eire, dando seguito al suo senso di attaccamento e di avversione contro la corona inglese e la protestante Irlanda del Nord.

C’è un evento in particolare che segna la sua carriera, un’amichevole negli USA ai tempi della sua militanza nel West Bromwich Albion. L’amichevole si gioca in Sud Carolina nel giugno 2015, al Blackbaund Stadium. Il Charleston, squadra della seconda categoria statunitense, affronta il WBA. Nel momento degli inni, nel momento in cui risuonano le note di God save the Queen, inno nazionale inglese, avviene l’impensabile, la catarsi di un atto anarchico in pieno stile guerra civile: James si rifiuta di cantare l’inno e volta le spalle alla bandiera inglese.

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Da quell’afoso giugno americano, McClean si rifiuta a più riprese di vestire nel mese di novembre il Poppy, una coccarda in ricordo dei militari inglesi caduti in guerra. Il condottiero di Derry in seguito a queste manifestazioni nazionaliste ha subito spesso ritorsioni e minacce che però non ne hanno minato la fermezza nel voler difendere le sue origini. In merito al gesto di boicottare l’inno McClean pronuncia il suo manifesto di vita: «Sono orgoglioso del luogo da cui vengo e non posso fare qualcosa che sento come sbagliata. Nella vita, se sei un uomo, devi lottare per quello in cui credi».

Questa dichiarazione fa parte di quelle micro-storie che compongono la costellazione della guerra civile nordirlandese. Un insieme di piccole storie fatte di uomini coraggiosi, di combattenti senza scrupoli, di bambini a cui è stata negata l’infanzia e di calcio. La nebbia adesso si è schiarita, ma è ancora facilmente leggibile la frase «You are now entering free Derry». Questo simbolo non è mai stato cancellato, per ricordare al mondo quanto possa fare male una guerra fra fratelli.

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