Gli anni Novanta vengono ricordati da tutti come gli anni del cambiamento di vita radicale. La tecnologia inizia a insinuarsi nella vita di ogni essere umano, aprendo la strada a globalizzazione e commercio senza frontiere, cambiando le regole del mercato. Il ruolo dell’immagine e della pubblicità vengono studiati in maniera scientifica e viene, inoltre, ridefinita la politica mondiale con il crollo del muro di Berlino e lo scandalo tangentopoli in Italia.
Più precisamente, nel 1991, gli impianti stereo di tutto il mondo pompano la nuova perla pop di MJ, Black or White, i Guns N’ Roses fanno innamorare a passo di ballade milioni di giovani con Don’t Cry e Benigni pubblica il suo romanzo, poi diventato un film cult, dal nome Jonny Stecchino. Gli anni Novanta, però, rappresentano anche uno dei momenti più violenti e sanguinosi della storia, in seguito alla disgregazione della ex-Jugoslavia. Il grande stato balcanico nasce dalla dissoluzione dell’Impero austro-ungarico e viene tenuto in piedi, non senza contraddizioni, dalla autorevolezza di Tito e dall’interesse diffuso di USA e Russia.
Dopo la morte del maresciallo Tito, le difficoltà emerse nel tenere unite popolazioni completamente diverse sotto un’unica bandiera, diventano sempre più rilevanti fino alla dichiarazione d’indipendenza degli stati di Croazia e Slovenia nel 1991. Le tensioni sopite, quindi, esplodono in un conflitto etnico-religioso che vede contrapposti, a più round, rispettivamente: Serbia, Croazia, Albania, Bosnia e Kosovo. Il progetto di una Jugoslavia unita cade sotto i colpi di guerre fratricide ma lasciando un’eredità sportiva unica nel suo genere: la Stella Rossa di Belgrado, infatti, sarà l’ultima squadra Jugoslava, e dell’est in generale, a vincere una Coppa dei Campioni, proprio nel 1991.
L’amore per la bellezza
La Stella Rossa nasce nel 1945 di pari passo con la creazione dello stato di Jugoslavia. È indubbiamente, con il Partizan di Belgrado e la Dinamo Zagabria, la squadra più popolare in Jugoslavia, con una tifoseria caldissima, condita da infiltrazioni anti-comuniste e sentimenti religiosi che tendono alla Chiesa Ortodossa. La storia del dream-team Jugoslavo è una storia di pura attitudine balcanica, si va dalla tendenza agli eccessi dei propri giocatori fino ad arrivare agli scontri tra bande interne alla squadra stessa. Fino al 29 maggio del 1991, vi è solo un concetto lineare nella forma mentis della Stella Rossa: se necessario, sacrificare anche le vittorie sull’altare della bellezza.
L’amore sconfinato per il bel gioco, per i ghirigori naif dei suoi interpreti in campo, ha fatto racimolare, sia alla nazionale Jugoslava che alle sue squadre di club, una serie infinita di sconfitte illustri a livello mondiale ed europeo. Il palmarès, in negativo, vanta: sconfitte in due semifinali mondiali e in due finali europee – per quanto riguarda la nazionale – e in ben cinque semifinali europee per club. Le squadre balcaniche sono un vero e proprio mefistofelico laboratorio di talento sfortunato. In particolare nelle Stelle della Stella, l’hall of fame della squadra, spicca il nome di Dragan Džajić, talentuoso giocatore ma soprattutto abile dirigente societario in qualità anche di presidente. Proprio Dragan cambia le regole del gioco affidando le redini della squadra a mister Ljupko Petrović, un duro che non apprezzava minimamente l’idea di perdere per specchiarsi nella propria futile bellezza.
Nel segno della concretezza, Petrović impone il suo stile da duro, abbandonando l’amore per il bello ed abbracciando l’efficienza. La squadra ricorda in maniera indelebile i durissimi allenamenti fisici, abbinati a esercitazioni tattiche come gli indimenticabili 1 contro 1 a tutto campo. Il diktat era chiaro.
«Soccomberete all’interno del rettangolo di gioco,
non per l’estasi della bellezza, ma per il duro lavoro»
Sono tre i grandi protagonisti sul campo di quella indimenticabile e romantica squadra: Robert Prosinečki, il Genio Savićević e Darko Pančev. Un cast degno dei migliori film di guerra, un croato, un macedone e un montenegrino, a sottolineare che laboratorio etnico ed irripetibile fosse quel dream-team.
Robert Prosinečki arriva dalla Dinamo di Zagabria, vittima di un ostracismo calcistico perpetrato da Miroslav Blažević. Un classico biondone anni Novanta, con il 7 sulla schiena, capace di galoppare e sprintare il doppio degli altri andando a ricoprire parecchie decine di km a partita, e lo fa nonostante un piccolo particolare, non di poco conto: Robert fuma almeno tre pacchetti di sigarette al giorno, con aggiunta di buon whisky.
Alcune delle migliori giocate della sua carriera
Stessa sorte scampata anche per Dejan Savićević, montenegrino di nascita, che al Partizan non va perché considera i bianconeri di Belgrado troppo a modo per i suoi gusti. Savićević è un classico giocatore “pendolo”, al servizio della gioia, può restare nascosto per 89 minuti, per poi regalare magie con un tocco dei suoi.
Darko Pančev, il macedone che poi veste negli anni successivi la maglia dell’Inter con poche gioie, è il bomber della squadra. Viene strappato al Partizan di Belgrado dai dirigenti della Stella Rossa, con in regalo una pelliccia di visone da consegnare alla moglie. Pančev è la sublimazione degli altri due, non esiste Savićević senza Pančev, non esistono i goal della Stella senza il cobra macedone.
Prima Stella a destra, questo è il cammino
L’album ‘Capitan Uncino‘ di Edoardo Bennato, che contiene la più famosa canzone della sua discografia, ‘L’isola che non c’è‘, esce in Italia nel 1992, appena un anno dopo la fantastica cavalcata della Stella. Il cammino alla ricerca di questa isola felice rappresentata dalla Coppa dei Campioni, l’ultima prima degli orrori della guerra, inizia per la squadra di Belgrado contro gli svizzeri del Grasshoppers.
Savićević e compagni passano agevolmente il turno andando a vincere anche gli ottavi ed i quarti di finale contro, rispettivamente, Glasgow Rangers e Dinamo Dresda. Ed è proprio dopo i quarti che Džajić, allora presidente, farà approdare a Belgrado una stellina del calcio mondiale, un giocatore che è storia per Stella Rossa, Lazio ed Inter: Siniša Mihajlović.
Il giovane terzino si inserisce nel 4-1-4-1 disegnato da Petrović e diventa pedina fondamentale nel doppio scontro epico, in semifinale, contro la corazzata bavarese del Bayern Monaco. La Stella Rossa è costruita su una livrea fatta apposta per giocare in ripartenza, così, nell’andata della semifinale in Baviera, ribaltano il vantaggio temporaneo dei tedeschi, infliggendo un 2-1 letale e fulmineo con i soliti Pančev e Savićević.
A dispetto della vittoria d’andata, la semifinale di ritorno è un vero e proprio thriller. Al vantaggio di Siniša su calcio di punizione segue il ribaltamento della partita da parte del Bayern: un 2-1 letale che fa materializzare lo spettro dei supplementari. A pochi minuti dalla fine ecco la sliding-door che cambia il destino di un intero popolo: Wohlfarth colpisce un palo per il Bayern che poteva dire qualificazione diretta; pochi minuti dopo gli astri si allineano, gli Dei del calcio vogliono regalare un’ultima gioia ad un popolo che sarà martoriato da sangue e distruzione: Augenthaler, libero bavarese, gira in porta un cross di Mihajlović, il portiere, Raimond Aumann, si fa clamorosamente sorprendere dalla traiettoria, la palla finisce dentro e la Stella approda in finale.
Il 29 maggio 1991 si gioca la finale di Coppa dei Campioni, gli avversari della Stella Rossa sono i francesi dell’Olympique Marsiglia, che vedono tra le loro fila campioni come il futuro Pallone d’Oro Jean-Pierre Papin, Abedi Pelé e il figliol prodigo Dragan Stojković. La gara si disputa allo stadio San Nicola di Bari – santo patrono serbo –, di fronte a 30.000 jugoslavi accorsi da ogni stato della federazione in ogni modo possibile, dalle navi alle macchine per finire ai motorini.
La volontà dei biancorossi è chiara: lasciare il pallino del gioco ai francesi sperando nei rigori. Sono 120 minuti di sofferenza, nei quali da un momento all’altro il sogno potrebbe svanire, ma alla fine riescono nell’intento: si va ai tiri dagli 11 metri.
Dragan Stojković si rifiuta di tirare, i francesi sbagliano subito, poi entrano tutti, compreso l’ultimo, quello di Darko Pančev. La Stella Rossa è campione d’Europa, per la prima ed al momento ultima volta nella sua storia.
È un tripudio di emozioni, eppure anche in quel momento di gioia, iniziano le prime spaccature, si aprono le prime crepe etniche tra gli stessi giocatori. È facile, infatti, notare come i giocatori di origine serba e montenegrina durante i festeggiamenti facciano con la mano il simbolo del tre, che, nell’immaginario simbolico, rappresenta l’origine etnica dei serbi separati dal resto della Jugoslavia. I giocatori di origine croata mussulmana e i bosniaci mussulmani, al contrario, si distaccano dai compagni seppur ancora festeggiando. Anche nella vittoria si evidenziano i caratteri di un conflitto antropologico legato alle etnie e di un conflitto politico che vede separate, di lì a poco, Croazia e Slovenia dalla Jugoslavia.
Resta vivo, tra gli occhi lucidi e i cumuli di umanità rimasti, l’evento sportivo in sé, che rappresenta l’ultimo atto di gioia e fratellanza che attraversa popoli e confini sotto unici colori e un’unica bandiera: quella dello sport che unisce senza differenze di alcun genere, a dispetto della cattiveria e dell’orrore insito nell’animo umano.
Nel 1991 la Stella Rossa ha raggiunto la sua isola felice, la si può trovare ancora là, fiera di sé stessa, che si erge sulle macerie.
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