Guardiola

Pep Guardiola non smette mai di evolversi

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Il Manchester City che nell’annata 2023/2024 ha conquistato la sua quarta Premier League consecutiva – cosa mai successa in precedenza nella storia del massimo campionato inglese – non è la miglior versione dei Citizen sotto Pep Guardiola, né la più vincente. È infatti caduta ai rigori per mano del Real Madrid in Champions League e ha perso la riedizione della finale di FA Cup della scorsa stagione contro gli odiati cugini del Manchester United. Quello che però oggi proveremo a fare è capire come questo City si sia evoluto dalle sue versioni precedenti e quale sia il modello più recente del calcio di Guardiola, sempre interessante da analizzare a prescindere dai – comunque storici – risultati.


Costruzione, controllo e rivoluzione dei ruoli

A non essere assolutamente cambiato è ciò che Guardiola chiede a Ederson, e al suo vicario Stefan Ortega. Il portiere nel calcio di Guardiola è un regista difensivo a tutti gli effetti, con doti di impostazione paragonabili a quelle di un giocatore di movimento. Non si tratta certo di un’esclusiva del calcio di Guardiola, ormai, l’ossessiva ricerca della costruzione dal basso per eludere il pressing avversario. A strabiliare, però, è come i movimenti della difesa del City siano codificati al punto da non dare mai l’impressione che il reparto arretrato sia sotto pressione.

L’elemento più innovativo e peculiare di questo City è la totale sparizione del concetto stesso di terzino. Con le partenze di João Cancelo e Oleksandr Zinchenko, evidentemente motivate da ragioni più tattiche che tecniche, Guardiola non ha mai cercato sul mercato un sostituto naturale che colmasse questa perdita. Il difensore centrale diviene così un ruolo cruciale. Il catalano non ha bisogno di corridori dal fisico possente o eleganti e longilinei esterni bassi poco attenti in fase difensiva – grossomodo l’identikit dei tipici terzini oggi in circolazione, almeno nelle difese a quattro, sempre meno statiche a essere onesti. Guardiola ha impresso alla sua squadra una pazienza quasi antitetica all’idea stessa di calcio, se inteso in modo tradizionale. Il calcio è dramma, è frenesia: non per Guardiola. L’obiettivo del City è innanzitutto recuperare palla in modo rapido e pulito, attraverso marcature e raddoppi sistematici, per poi stanare l’avversario con un giro palla dinamico e povero di errori.

Il Manchester City è sempre in controllo della partita. Anche quando gioca male, anche quando perde perché i movimenti della difesa non sono corretti e viene infilata in contropiede, o il pressing avversario funziona e la palla finisce più spesso in rimessa laterale che sui piedi dei compagni, il City domina il gioco. E quando hai una capacità del genere, puoi sbagliare una partita, forse anche due, ma in un intero campionato sei praticamente imbattibile. E forse questo è uno dei motivi che hanno reso gli Sky Blues più efficiente in patria che in Europa: il Manchester City è un maratoneta, non un centometrista.

Ad ogni modo, Guardiola ha rivoluzionato anche il concetto di centrale classico. Sulla carta propone una difesa a tre, che prevede Rúben Dias o Manuel Akanji al centro, adibiti alle corse all’indietro, all’anticipo e alla prima impostazione, più bloccati e canonici nel loro gioco rispetto ai loro compagni. Kyle Walker è una pedina ibrida, che con la sua velocità ed esperienza garantisce al City un recupero efficace ogni volta che gli avversari riescono a lanciare in profondità un loro giocatore nella sua zona. Nathan Aké o lo stesso Akanji occupano il ruolo di braccetto difensivo a lato del centrale, coprendo una posizione più avanzata rispetto ai due compagni di reparto, addirittura, soprattutto quando in campo c’è Akanji, al fianco di Rodri, in posizione centrale e sopravanzata rispetto a Dias.

Il quasi omonimo Joško Gvardiol merita un discorso a sé. L’evoluzione personale del giocatore è indiscutibile, ma quella del City in ragione della sua presenza è molto più affascinante. Gvardiol potrebbe essere il primo di una nuova generazione di terzini che rivoluzionerà questo ruolo. Il croato gioca largo, ma è pronto a stringersi in marcatura e ad accentrarsi in fase offensiva per liberare spazio sull’esterno e garantire una sponda centrale difficile da gestire per gli avversari. Mentre Stones nella stagione scorsa veniva schierato da centrocampista già dalla formazione iniziale, con Gvardiol il City crea una linea di quattro sulla trequarti in appoggio alla punta, coperta da una sorta di rombo stabilmente piazzato fra le due trequarti. Non c’è bisogno che Gvardiol vada sul fondo o dia appoggio sull’esterno, per il City l’obiettivo è portare al cross i suoi esterni offensivi. È il concetto stesso di sovrapposizione a uscirne rivoluzionato.



Dalla cintola in su

Il giocatore più importante della squadra rimane Rodri, specialmente dopo la partenza di İlkay Gündoğan. Lo spagnolo è il metronomo di questa squadra, ma anche il regista più completo del panorama calcistico mondiale, sia per tecnica che per fisicità, con una percentuale di realizzazione delle sue giocate inverosimile. Assieme a Kevin De Bruyne e Bernardo Silva forma uno dei centrocampi più forti al mondo, sempre che si possa parlare di centrocampo ormai, dato che il portoghese agisce praticamente in modo speculare a Gvardiol, sebbene con compiti estremamente differenti, giocando spesso in una posizione più larga e arretrata rispetto al passato, mentre il belga copre una porzione di campo più avanzata, spesso funzionale a cercare direttamente i piedi del centravanti o la porta. In fase di costruzione è anche possibile osservare una classica linea a tre, il cui scopo principale è congelare il possesso palla in una rete di passaggi inestricabile, ma nell’arco dei novanta minuti il classico 4-3-3 è un lontano ricordo. Giusto menzionare inoltre il fatto che, con De Bruyne fuori per gran parte della stagione, è stato Mateo Kovačić ad affiancare Rodri e a spingere Bernardo Silva a giocare più avanti. Il croato ha trovato spazio anche al momento del ritorno in campo del belga, che veniva preferito spesso a Grealish in zona più avanzata.

Gli esterni alti invece svolgono due compiti principali: andare sul fondo per crossare in mezzo, spesso con palloni bassi che partono dal limite dell’aria, dopo le imbucate dei centrocampisti, e accentrarsi per garantire all’esterno opposto uno scarico a botta sicura sul lato opposto. Questo ruolo di norma viene coperto da Jack Grealish e da Phil Foden, il cui scopo, soprattutto per il primo, è anche quello di saltare l’uomo e garantire superiorità numerica: dare uno strappo improvviso all’ossessivo giro palla. Ma il local boy merita una parentesi a parte, che prescinde dai dettami tattici.

Non è infatti più possibile ingabbiare Foden in ruoli e compiti specifici. Questo ragazzo ha raggiunto livelli da fenomeno, che gli permettono di invidiare davvero poco a chiunque in questo momento solchi i campi del calcio professionistico europeo. Foden non è semplicemente un fantasista, un trequartista o un esterno, è quel giocatore che ha come principale lavoro quello di mostrare gara dopo gara di essere un fuoriclasse. Se poi a plasmare il tuo calcio è Pep Guardiola, allora hai tutte le carte in regola per dominare questo sport. Foden è in grado di piazzare una palla sotto l’incrocio con la stessa semplicità con cui imbuca precisamente sul piede di un compagno una palla visionaria. Diviene un giocatore sempre più completo a ogni partita.

L’altro fuoriclasse tra i fuoriclasse è chiaramente Erling Haaland, che in questo intricato discorso tattico è quasi una falla. Una punta possente, a una prima occhiata vecchio stile. La verità è che Haaland sarà anche sgraziato, ma partecipa alla manovra più di quanto gli si voglia riconoscere. Anche assumendo che il City abbia scelto, anacronisticamente rispetto a tutte le sue altre decisioni, una punta classica rispetto a qualche altra trovata inimmaginabile, non toglie che abbia optato per il terminale più prolifico e forte del calcio globale.

Infine, una menzione particolare la merita anche Jérémy Doku, potenzialmente un giocatore devastante. Non è un titolare fisso, e non lo è perché, quando è in campo, il suo modo di giocare compromette l’armonia tattica della squadra di Pep. Ma quando viene chiamato in causa, ad esempio se la squadra è in svantaggio, i compagni iniziano a cercarlo con sistematicità, poiché la sua rapidità e la sua capacità di dribbling garantiscono una variante strategica che nessun altro in rosa può assicurare. Cosa che probabilmente rende Doku più utile di quanto sarebbe stato l’altrettanto fenomenale Cole Palmer restando a Manchester: un giocatore autore di una stagione monumentale al Chelsea, ma che avrebbe un po’ pestato i piedi a chi nel City ci è effettivamente rimasto. Ad esempio Julián Álvarez, che con la sua duttilità può sia affiancare Haaland che sostituirlo, chiaramente comportando, nel secondo caso, una variazione tattica non indifferente.


Guardiola ha dei rivali?

Niente è perfetto, nemmeno questo City, nemmeno Pep Guardiola. C’è voluto un quindicennio prima che il tecnico ex Barcellona tornasse ad alzare la Champions League dopo quella vinta nel 2009, lasciando inspiegabilmente nella sua bacheca soltanto due Coppe dei Campioni conquistate da allenatore per tanti, troppi anni. I paragoni che spesso si sentono con il più vincente – in questo senso – Carlo Ancelotti lasciano però il tempo che trovano, data la differenza di età e di anni di carriera. Sebbene Ancelotti sia oggettivamente un allenatore adatto più di Guardiola a vincere competizioni a eliminazione diretta, fra vent’anni potrebbero potenzialmente servire due mani per contare le Champions vinte da Guardiola: è giusto aspettare il proseguo della sua carriera prima di sentenziare sotto questo punto di vista.

Per quanto riguarda i paragoni interni alla Premier, invece, fa un po’ sorridere il dualismo con Jürgen Klopp, con il quale ha sicuramente dato vita a delle battaglie in testa memorabili, ma che ha praticamente sempre vinto. Guardiola ha cannibalizzato la Premier League per tutto il periodo in cui il tedesco ha allenato i Reds, permettendogli di vincerne soltanto una in quasi un decennio nonostante il lavoro stupefacente dell’ex Dortmund.

Guardiola sta rivoluzionando questo sport dalle fondamenta, e lo fa di continuo. Non possiamo che metterci comodi e aspettare un altro anno e un’altra stagione per scoprire, una volta di più, cosa il genio catalano vorrà inventarsi, mentre prosegue la propria collezione di allori che lo porteranno inevitabilmente a diventare l’allenatore più vincente della storia di questo sport.

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