Detto fra noi, se si pensa alle bellezze dell’Inghilterra, Manchester non è la prima località che viene in mente. Nata come insediamento celtico, la città visse il suo periodo di maggior splendore durante la Rivoluzione Industriale, che la rese uno dei principali poli industriali del Regno Unito. Se la città è conosciutissima a livello globale, però, non lo si deve alle sue industrie, ma ad altri due fattori, uno di questi è senz’altro la musica. A partire dagli anni ’60 del XX secolo Manchester è sempre stata culla per alcune delle band che hanno maggiormente segnato il panorama musicale, fra le tante vale la pena di citare gli Oasis, gli Stone Roses, i Joy Division – diventati i New Order in seguito alla morte del cantante Ian Curtis – e soprattutto gli Smiths.
Gli Smiths sono stati il gruppo simbolo di un determinato periodo della storia d’Inghilterra, in cui milioni di giovani, falcidiati dalla crisi economica e dalla disoccupazione dilagante del thatcherismo, hanno trovato conforto nei testi del cantante Morrissey e nelle melodie composte dal chitarrista Johnny Marr. Lo stesso Marr, nel suo piccolo, aiuta a capire quale sia l’altra ragione per cui Manchester sia così famosa, il calcio. Il chitarrista infatti è un accesissimo tifoso del Manchester City, squadra meno blasonata della città e da sempre contrapposta al più noto Manchester United. Negli ultimi anni però, grazie alla proprietà dello sceicco Mansour, i ruoli sembrano essersi invertiti con il Manchester City che è passato dallo status di noisy neighbours – vicini rumorosi, come li aveva altezzosamente chiamati Sir Alex Ferguson – ad essere la squadra di riferimento della città, al punto di avere alla sua guida una delle personalità più di spicco del calcio mondiale, ovvero Pep Guardiola, alla guida dei Citizens dal giugno 2016.
Guardiola ha rappresentato per il calcio quello che gli Smiths hanno rappresentato per la musica, una rivoluzione totale che ha lasciato il segno, e quindi perché non raccontare l’esperienza del catalano a Manchester tramite le canzoni di chi quella città l’ha cantata?
L’inizio – This Charming Man
Il brano è stato il primo grande successo degli Smiths, che lo eseguirono per la prima volta nella trasmissione culto di John Peel nel settembre del 1983 e che poi vendette 600.000 copie diventando disco di platino. Questa canzone, il cui titolo significa ‘Questo uomo affascinante‘, parla di un ragazzo emarginato che viene completamente rapito dal fascino di quest’uomo incontrato sul suo cammino, un contesto che calza a pennello per descrivere la presentazione di Guardiola alla guida del Manchester City.
In un pomeriggio dei primi di luglio, al di fuori della struttura di allenamento dei Citizens, davanti ad una folla sicuramente inusuale per dimensioni se si pensa che si sta trattando di una semplice presentazione, Pep Guardiola pronuncia le sue prime parole da allenatore del Manchester City. Essendo questo un evento ufficiale, vengono pronunciate le classiche frasi di circostanza trite e ritrite, ma guardando il contesto che le circonda, con i tifosi perfettamente consapevoli di non avere di fronte a loro un allenatore qualunque, sembra davvero di assistere all’inizio di un qualcosa che potrebbe essere veramente importante.
I giocatori – Reel Around The Fountain
It’s time the tale were told
È venuto il tempo di raccontare la storia
Of how you took a child
Di come hai preso un bambino
And you made him old
E lo hai fatto invecchiare
Prima canzone del primo album del gruppo – chiamato semplicemente ‘The Smiths‘ – che addirittura ricevette delle, infondate, accuse di pedofilia da membri della stampa specializzata. Queste prime tre righe calzano a pennello per descrivere uno dei pregi principali del Guardiola allenatore, ovvero la crescita dei giovani talenti. Di esempi se ne possono fare molteplici, del Barcellona che vinse tutto – e più volte – alcuni perni della squadra erano talenti della Masìa blaugrana che furono lanciati proprio da Guardiola, come Sergio Busquets e Pedro, oppure di quando durante il suo ultimo anno al Bayern Monaco dopo un Klassiker terminato 0-0 catechizzò Joshua Kimmich in mezzo al campo del Westfalenstadion.
Kimmich affermerà che in quel momento Guardiola si complimentò con lui per la partita disputata, anche se non si direbbe
Ovviamente questo saper valorizzare i giocatori giovani è un fattore peculiare dell’operato di Guardiola al Manchester City. Il primo nome che viene in mente è quello di Phil Foden, prodotto del settore giovanile dei Citizens, che ha debuttato nella stagione 2017/2018 e che al momento è uno dei migliori giocatori di tutta la rosa, di cui Guardiola ha pubblicamente detto «è il giocatore più talentuoso che abbia mai allenato alla sua età». Ma se c’è un giocatore che in particolare ha giovato dell’arrivo del catalano a Manchester, quello è Raheem Sterling. Il nativo di Kingston si è sempre distinto per un talento incredibile che però non riusciva ad essere pienamente sfruttato, in primis da Sterling stesso, a cui vanno aggiunte le costanti polemiche che i tabloid inglesi hanno sollevato nei suoi riguardi – la più assurda resta quella in cui il Sun lo criticò perché, nonostante il suo importante stipendio, era solito acquistare da Primark. Guardiola è riuscito a indirizzare il talento di Sterling nella retta via, rendendolo un giocatore da almeno 20 gol stagionali. Sterling funge anche da esempio perfetto per spiegare la mentalità di Guardiola ovvero che «il talento non è un dono fine a sé ma un processo, e non sta all’inizio, ma al termine della formazione e dell’allenamento».
I rivali – The Boy With The Thorn In His Side
Il pezzo è uno dei più famosi del quartetto ed è contenuto in quello che per molti è il capolavoro della band, ovvero ‘The Queen is dead‘. Nel brano, stando al cantante e autore Morrissey: «La spina raffigura l’industria della musica e tutte quelle persone che non hanno mai creduto in qualsiasi cosa dicessi, che hanno cercato di sbarazzarsi di me e non hanno mai voluto suonare il disco». Per quanto riguarda il protagonista di questo articolo, la spina nel fianco non è una casa discografica ma un allenatore tedesco, Jürgen Klopp.
Inizialmente, con l’approdo di Guardiola in Premier League, sembrava che lo scontro principale sarebbe stato con José Mourinho, che fino a quel momento era considerato il principale rivale del catalano, non solo per le antiche ruggini del passato quando i due sedevano sulle panchine di Barcellona e Real Madrid, ma anche perché l’estate del 2016 coincise con l’arrivo di Mou sulla panchina dei rivali di sempre del Manchester United. L’esperienza del portoghese con i Red Devils sappiamo però che si è conclusa bruscamente con l’esonero a fine 2018, e anche nella successiva esperienza al Tottenham la sua squadra non si è nemmeno mai avvicinata ad una continuità di risultati come quella del Manchester City di Guardiola, ed è qui che entra in scena il Liverpool di Klopp.
Escludendo il campionato 2016/2017, in cui ad uscirne vincitore fu il Chelsea allenato da Antonio Conte, il titolo di campione d’Inghilterra è sempre stata una questione fra loro due, creando così una rivalità che probabilmente verrà ricordata come quella che ha caratterizzato questa epoca calcistica. La particolarità più interessante è vedere come Klopp e Guardiola differiscano in qualsiasi aspetto che riguardi sia le rispettive idee di calcio sia le proprie personalità, comunque suggellate da un profondo rispetto reciproco.
Il culmine di questa rivalità lo abbiamo probabilmente già vissuto, ed è ovviamente la Premier League del 2018/2019 in cui il Manchester City conquistò il suo sesto titolo di campione d’Inghilterra. Quella stagione verrà ricordata come una delle più assurde nella storia della competizione, sia per l’insensato ruolino di marcia delle due squadre – finirono rispettivamente a 98 e 97 punti – che per gli episodi che si verificarono all’interno di essa. Come l’intervento di John Stones sulla linea che per undici millimetri salvò il risultato nello scontro diretto poi vinto dal City – e fu l’unica sconfitta del Liverpool in tutto il campionato –, oppure la sassata da venticinque metri di Vincent Kompany che decise la partita contro il Leicester, la cui particolarità sta nel fatto che Guardiola avesse gridato al belga di non tirare – effettivamente, fra le tante qualità di Kompany, il tiro da fuori non c’è mai stato – per poi vedere la palla infilarsi all’incrocio dei pali, consegnando di fatto al City il titolo.
Un urlo entrato immediatamente nella storia dei Citizens
Gli arbitri – Heaven Knows I’m Miserable Now
Negli anni recenti il Manchester City ha spesso subito decisioni arbitrali sfortunate, a prescindere dal fatto che fossero corrette o meno, cosa che ha scatenato spesso e volentieri le ire del proprio allenatore. L’esempio eclatante è la cancellazione, tramite VAR, del gol segnato al 93′ da Sterling durante i quarti di finale di Champions contro il Tottenham – dopo che lo stesso VAR aveva richiamato l’arbitro Çakir per il terzo gol degli Spurs, con il turco che convalidò la rete –, anche se forse la partita più significativa dal punto di vista della reazione del catalano è stata quella contro il Liverpool ad Anfield Road nel novembre del 2019, il cui l’arbitraggio di Oliver ha causato grandi polemiche.
Questa foto non canta, ma grida «In my life, why do I smile at people who I’d much rather kick in the eye?»
La Champions League – Please, Please, Please, Let Me Get What I Want
Cerimonia dei Football Writers Award 2019, sul palco salgono a parlare Klopp e Guardiola, ed emergono tutte le già accennate differenze caratteriali fra i due. Klopp con il microfono in mano è padrone della situazione, e con il pragmatismo che contraddistingue il suo popolo conclude il suo intervento. Dopo una breve introduzione è il turno di Guardiola, il catalano ogni tanto incespica, sembra essere divorato da una sorta di ansia che abbiamo imparato a conoscere nel corso degli anni, non distoglie quasi mai lo sguardo dal leggio e quando lo fa i suoi occhi sembrano delle schegge impazzite, cercano di posarsi su ogni centimetro della sala per evitare di incrociare lo sguardo dei presenti. Nonostante il suo intervento sia pieno di battute e strappi ben più di un sorriso, è inevitabile avvertire il disagio che prova Guardiola in queste circostanze formali. Il momento clou, che è anche quello che conclude il suo intervento, è quando – parlando del rivale Klopp – posa lo sguardo alla sua destra, dove c’è lei, la Champions League, adornata dalle tipiche coccarde della squadra vincitrice, e sono del rosso acceso del Liverpool che a Madrid ha vinto la sua sesta Champions. Guardiola poi scherza sul fatto che potrebbero scambiarsi i trofei vinti visto che, con il campionato conquistato al fotofinish, il City rovinò il sogno dei Reds di tornare campioni d’Inghilterra 29 anni dopo l’ultima volta.
L’astinenza del Liverpool come ben sappiamo è terminata nella stagione successiva, la 2019/2020, dopo aver demolito le avversarie in campionato, mentre le speranze di consacrazione europea per il City si sono infrante una sera d’agosto a Lisbona, in cui l’Olympique Lione ha strappato a sorpresa il pass per la semifinale.
La Champions League rappresenta il motivo per cui Guardiola è stato scelto come manager del Manchester City, inutile girarci intorno. Per quanti successi nazionali abbia raccolto il catalano dal suo arrivo in Inghilterra, è sempre mancato un qualcosa per uscirne trionfatore anche in Europa, dove per tre edizioni consecutive la squadra è stata addirittura eliminata ai quarti di finale, nonostante ogni anno si presenti ai nastri di partenza come una delle principali favorite per la vittoria. Questa competizione sta diventando – anzi, forse già lo è – una vera e propria chimera per Guardiola, ormai dalla notte di Wembley in cui il suo Barcellona strapazzò 3-1 il Manchester United sono passati più di dieci anni, un digiuno interminabile per un allenatore del suo calibro.
Nel corso della sua esperienza al Manchester City, nella principale competizione europea, il cammino è stato spesso segnato da prestazioni non all’altezza, come gli ottavi di finale del 2017 contro il Monaco, alternate da serie di sfortunati eventi come il rocambolesco ritorno dei quarti di finali 2019 contro il Tottenham, in cui il City fu eliminato per un gol di Fernando Llorente che ha suscitato molte polemiche, e con un gol annullato a Raheem Sterling a tempo scaduto che avrebbe spedito i ragazzi di Guardiola in semifinale. Senz’altro l’epilogo più amaro è stato però quello della stagione 2020/2021, in cui il City ha centrato la sua prima finale di Champions League dopo un cammino da schiacciasassi, nel quale ha eliminato Borussia Mönchengladbach, Borussia Dortmund e, soprattutto, il Paris Saint-Germain in semifinale. La finale tutta inglese contro il Chelsea, vinta dai Blues di Londra per 1-0 grazie al gol di Kai Havertz, ha visto opinionisti e tifosi puntare il dito nei confronti di Guardiola, reo di aver commesso l’errore di overthinking, ovvero di aver sovrainterpretato l’approccio alla partita inserendo Sterling punta in un sistema ormai collaudato con il falso nueve e di aver arretrato il raggio d’azione di Gündoğan – autore di 17 gol stagionali – oltre a varie decisioni di formazione come la titolarità di Zinchenko al posto di João Cancelo.
Il City parte senz’altro con i favori del pronostico nella maggior parte delle gare che ogni anno affronta in Champions League, ma in questo gioco che collega musica e calcio, ci piace immaginarcelo così l’allenatore catalano nelle trasferte europee: in volo, che si isola dagli altri per un po’ e che in cuffia metta play a quella che più che una canzone è una vera e propria preghiera, che non dura nemmeno due minuti, ma che in quel «So for once in my life, let me get what I want» concentra tutto il suo spasmodico desiderio di ritornare Re d’Europa.
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