«Il calabrone non ha la struttura fisica per volare, ma lui non lo sa, e vola lo stesso» è una citazione basata su una leggenda metropolitana nata nel Novecento e divenuta molto popolare negli ultimi anni. Sicuramente l’avrete già sentita mille volte, ma se c’è un calciatore a cui davvero calza a pennello, quello è certamente Simone Perrotta.
Potrebbe essere il riassunto perfetto della sua carriera. Non un fuoriclasse, non un artista del pallone: eppure sempre lì, decisivo, sorprendente. Non aveva un piede vellutato, né un dribbling capace di far alzare in piedi uno stadio. Aveva però un’ostinazione agonistica e una corsa instancabile, peculiare, con quelle ginocchia alte che lo facevano sembrare sgraziato ma che gli permettevano di divorare campo, rubare palloni, servire assist e segnare. Nato mediano, finirà trequartista: un percorso ribaltato, quasi ironico, rispetto a tanti colleghi. La sua è la storia di un ragazzo normale che ha saputo scrivere pagine da grandissimo protagonista.
Forgiato dalla gavetta
Nato in Inghilterra, ad Ashton-under-Lyne, si trasferisce da bambino in Calabria, a Cerisano. Cresce calcisticamente nel settore giovanile Reggina, fino all’esordio in Serie B nel 1995. Ha appena 18 anni quando segna il suo primo gol tra i professionisti: non un predestinato, ma uno che ogni volta dimostrava di meritarsi quel posto. Per tre anni diventa l’anima della squadra, fino a quando, nell’estate del 1998, arriva la chiamata che cambia tutto, quella la Juventus.
È un salto nel vuoto. Dalla provincia calabrese al pianeta bianconero, dove gli spogliatoi sono abitati da mostri sacri. Un ragazzo normale in mezzo agli dei. Perrotta gioca poco – 15 presenze complessive tra campionato e coppe – ma si toglie soddisfazioni che molti non vivranno mai: una rete in Coppa Italia al Bologna, l’esordio in Champions League, la vittoria della Coppa Intertoto. Un inizio che sembra una promessa, ma che si rivela presto un vicolo cieco: Carlo Ancelotti, arrivato al posto di Marcello Lippi, non lo vede.
La Juve lo cede al Bari, e lì, lontano dai riflettori, Perrotta trova sé stesso. Corre, pressa, lotta, costruisce. È la colonna operaia di un centrocampo che non ha bisogno di stelle ma di affidabilità. In Puglia diventa uno dei giocatori più continui della Serie A, un uomo di cui ti puoi sempre fidarti.
Dopo tre stagioni con i Galletti, arriva il Chievo. Ed è lì che la sua carriera prende una piega inattesa: Verona diventa il laboratorio di una delle favole più incredibili del nostro calcio. Il cosiddetto “Chievo dei miracoli” vola in Champions League, e Perrotta è uno dei motori silenziosi di quella macchina perfetta, il collante che tiene insieme la squadra. Al fianco di Eugenio Corini, forma una coppia ideale.
La metamorfosi del calabrone
La Roma se ne accorge e lo porta in giallorosso. È il 2004, uno dei peggiori anni della storia recente romanista. L’allenatore Cesare Prandelli deve rinunciare dopo poche settimane per motivi familiari: gli succedono, in rapida successione, Rudi Völler, Luigi Delneri e Bruno Conti. I tifosi lo ricorderanno come “l’anno dei quattro allenatori”, con la squadra in piena crisi fino al 22 maggio 2005, quando un gol di Antonio Cassano contro l’Atalanta regala la salvezza matematica.
Il primo anno è durissimo per Simone: la squadra non gira, le cessioni estive di Emerson e Samuel hanno lasciato un vuoto enorme e i tifosi non perdonano. Diventa uno dei capri espiatori principali, bersagliato da fischi assordanti. Lui stesso racconterà anni dopo: «Se c’era una contestazione, la mia macchina ballava».
La svolta arriva con Luciano Spalletti. Nel ritiro del secondo anno, Perrotta chiede la cessione, ma il tecnico lo ferma, vuole rilanciarlo. È l’inizio della trasformazione.
Spalletti inventa per lui un nuovo ruolo: trequartista nel 4-2-3-1. Non il classico fantasista con il tocco morbido, ma un incursore continuo, capace di segnare, assistere e soprattutto aprire spazi con le sue corse. Con Totti a guidare l’orchestra, Perrotta diventa l’uomo che suona lo spartito invisibile, quello che nessuno nota ma che dà ritmo a tutta la sinfonia.
Nella Roma dei “quattro tenori” – Totti, Mancini, Taddei e Perrotta – è il meno appariscente, ma senza di lui la musica non è la stessa. La squadra infila 11 vittorie consecutive, record storico, e Perrotta contribuisce con 4 reti. In quella stagione saranno poi 8 i gol complessivi, adornati da 2 assist.
L’anno successivo farà ancora meglio: 13 reti e 6 assist, numeri da attaccante. Di queste reti, le più importanti arrivano nella finale di Coppa Italia vinta contro l’Inter, sia all’andata all’Olimpico (6-2) che al ritorno al Meazza (2-1), nell’ultimo atto conclusivo della competizione con questo formato. È l’apice di una stagione straordinaria, la consacrazione di un calciatore che ha fatto della normalità un’arma eccezionale.
Contro i nerazzurri vince anche la Supercoppa italiana 2007, pur senza entrare in campo, poiché viene espulso per proteste dalla panchina. Si rifà qualche mese dopo, aggiungendo al palmarès un’altra Coppa Italia, ancora una volta contro l’Inter e ancora una volta con un suo gol in finale.
Negli anni seguenti continua a essere uomo decisivo. Con Claudio Ranieri in panchina, nella stagione 2009/2010, sfiora uno storico scudetto, chiudendo al secondo posto, all’ultima giornata, dietro l’Inter del Triplete di José Mourinho.
Con il passare del tempo lo spazio diminuisce, ma resta punto di riferimento nello spogliatoio fino al 2013, quando a 35 anni, dopo nove lunghe e intense stagioni giallorosse, decide di ritirarsi dal calcio giocato. Con i capitolini ha collezionato 325 presenze, 49 gol e 24 assist tra tutte le competizioni, diventando una delle colonne della sua epoca. Dal 2000 a oggi, soltanto Totti e De Rossi hanno collezionato più gettoni di Simone Perrotta con la maglia giallorossa.
Il volo più alto
Dopo il primo anno spallettiano a Roma, Marcello Lippi lo convoca per il Mondiale tedesco del 2006. Una spedizione trionfale, che vedrà in Perrotta un protagonista fondamentale. Nel corso del torneo il calabrese viene schierato mezz’ala, trequartista, esterno destro ed esterno sinistro, mettendo in luce tutta la sua duttilità e dimostrandosi indispensabile per l’equilibrio di quella squadra. Dalla prima del girone contro il Ghana alla finale contro la Francia, gioca tutte le partite da titolare.
Quando scorrono le immagini di Berlino 2006, tra i vari Totti, Pirlo, Cannavaro e Buffon, c’è anche lui: Simone Perrotta, l’uomo che non doveva volare ma che è arrivato a toccare il cielo con un dito.
Forse il calcio non lo ricorderà mai come un artista. Non entrerà nel pantheon dei numeri dieci, né nei racconti romantici dei fuoriclasse, ma il suo posto è in un’altra galleria, più rara e altrettanto preziosa: quella degli indispensabili. Perrotta è stato la dimostrazione che nel calcio, come nella vita, non serve brillare per essere decisivi. Serve esserci, sempre. Con corsa, sacrificio, e quella normalità ostinata che lo ha reso eccezionale.
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