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Il calcio sta andando troppo veloce

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Niente è immutabile, ed è giusto che anche il calcio si evolva: pensare di rimanere ancorati al passato, chiudendosi a riccio nei confronti del cambiamento è errato, ma il cambiamento ha bisogno di tempo per imporsi, di periodi di transizione che permettano a tutti di trarne beneficio o semplicemente di abituarsi ad esso. Nel mondo del calcio non è stato così: ci siamo ritrovati in un ambiente dove non ci sentiamo del tutto a casa, dove c’è qualcosa fuori luogo. La radice del problema, che condiziona tutto ciò che ci circonda, compresa quella piccola porzione di mondo dedicata al calcio, è la velocità a cui ci muoviamo.


L’unica certezza è la necessità di continuare

Il mondo del calcio oggi si muove in direzione ostinata e contraria alle nostre necessità. Gli interessi economici alla base dell’attività sono enormi, e portano i tornei ad allargarsi e le partite ad aumentare. Sono così grandi che nemmeno un evento storico come la pandemia vissuta all’inizio di questo decennio è riuscito a porre un freno duraturo alle necessità del movimento calcistico internazionale, che ha il bisogno incessante di autosostenersi. Lo spettacolo deve andare avanti a tutti i costi, non ci sono dubbi. Ma qual è lo spettacolo a cui stiamo assistendo oggi?

Il primo problema, il più evidente forse, è il grado di preparazione per il singolo match: tantissimi allenatori in questo periodo hanno evidenziato come, avendo due giorni di tempo effettivi tra la disputa di una partita e l’altra, non vi sia alcuna possibilità per loro di preparare il piano gara in base all’avversario che andranno ad affrontare. Quasi tutto lo sforzo che i calciatori possono compiere nell’arco di tempo che gli resta è dedicato al recupero fisico e al mantenimento di un buon grado di atletismo. Il ruolo dell’allenatore risulta svilito, perché è ovvio che la sua incidenza sul gioco della squadra si riduce sensibilmente. Assistere dal di fuori a questo spettacolo è snervante, e lo è ancor di più dall’interno. Per l’allenatore è come avere a che fare con un corpo estraneo, come guidare una macchina che non gli appartiene. I risultati faticano ad arrivare, la continuità si perde e lo spettacolo indubbiamente ne risente.

Le difficoltà, però, non appartengono solo agli allenatori più giovani o meno bravi, ma colpiscono anche i più navigati, con alle spalle anni di esperienza e grandi palmarès. Già nel 2018 Guardiola denunciava le difficoltà incontrate nel giocare continuamente, in una Premier che già si avviava verso un format sempre più simile all’NBA: «Da agosto ad oggi abbiamo giocato tantissime partite con una sola settimana di pausa, avevamo bisogno di un po’ di riposo. Amiamo giocare a calcio, ma quando scendi in campo ogni tre giorni diventa tutto più complicato. Ora siamo riusciti a fare tre sessioni di allenamento consecutive, a volte una pausa fa bene a tutti». Fu eclatante il caso del Liverpool, ritrovatosi lo scorso anno a disputare quasi contemporaneamente la finale di Coppa del Mondo per Club e una partita di qualificazione di Coppa di Lega, costretto a schierare i giovani dell’Academy nella competizione interna. E proprio Klopp, qualche anno fa, ha denunciato il secondo problema che l’assenza di riposo tra una partita e l’altra può comportare, e cioè l’aumento considerevole del numero di infortuni in ogni squadra: «Giocare ogni tre giorni è un casino. Non abbiamo abbastanza tempo per recuperare. Il recupero non è solo riposo e cura di sé stessi, ma anche libertà di pensare a quello che vuoi e non a quello che devi fare. È una situazione che ci rende tesi, è tutto stressante, non aiuta giocare ogni tre giorni, gli infortuni sono dietro l’angolo, sempre. È tutto molto difficile». La mancanza nella cura degli aspetti tattici è solo un lato del problema, perché l’assenza di riposo ha un impatto fortissimo sui giocatori, non solo in relazione alla tenuta fisica, ma anche e soprattutto su quella mentale.

Sul lato puramente fisico, è facile notare come il numero di infortuni sia cresciuto a dismisura negli ultimi anni, obbligando le squadre a soluzioni sempre più fantasiose. Il lavoro di un allenatore è praticamente compromesso in partenza, perché le sue idee di gioco non riescono a svilupparsi per come sono state pensate, non si adattano ad altri tipi di giocatori, che si ritrovano a fare da tappabuchi in ruoli che non sentono propri. In questo contesto, con formazioni ibride in cui le ali sono costrette a fare i centravanti e i terzini a fare le ali, anche la qualità del prodotto – parola sbagliata per definire qualcosa che dovrebbe andare oltre il semplice intrattenimento – ne risente sensibilmente.

Gli infortuni fisici hanno inoltre un impatto anche sulla componente psicologica dei calciatori, come ha dichiarato Fernando Torres nella sua autobiografia: «La prima volta che ti succede pensi che sia una cosa normale, e vai avanti. La seconda volta ti fermi, ti prendi più cura di te stesso, e inizi a domandarti cosa stia succedendo. La terza ti blocchi, inizi a pensare che ci siano cause sottovalutate e lavori in maniera estenuante per assicurarti che non ti capiti ancora». Così, più gli infortuni aumentano, più i giocatori diventano fragili mentalmente. È un aspetto che non andrebbe sottovalutato, relegandolo come si fa di solito a un inconveniente marginale per personaggi – così vengono visti – fortunati a guadagnare molto più degli altri.

Tempo fa ai microfoni di Sky Sport UK, Kevin De Bruyne ha denunciato la cosa in questi termini: «Gioco senza sosta praticamente da due anni, ma nessuno ascolta i calciatori. Ho avuto in sostanza 8-9 giorni di ferie ma non sono andato da nessuna parte visto che mia moglie era incinta. Ho bisogno di riposo fisicamente e mentalmente, ma ripeto, nessuno ci ascolta. […] La gente dice che non dovrei lamentarmi perché guadagno bene, ma poi vedo tanti colleghi infortunarsi. Che senso ha?». Fa male dover ammettere che i calciatori, così come gli allenatori, vengono considerati sempre più spesso come figurine: la componente umana viene messa da parte da chi si trova all’esterno dell’ambiente. Tifosi e giornalisti nelle loro critiche scindono completamente il lato professionale da quello emotivo, tutto viene rielaborato nell’ottica dei risultati sportivi conseguiti, o addirittura in risultati metasportivi – da non sottovalutare, in questo senso, la piaga del fantacalcio.


Abbiamo la necessità di rallentare

La velocità a cui si muove il calcio è così elevata che qualcuno è costretto a lasciarlo andar via. L’esempio lampante di come questa frattura possa essere dolorosa ce lo ha dato nel 2021 Cesare Prandelli, con le sue dimissioni da allenatore della Fiorentina e il conseguente ritiro. Di per sé non sarebbe un evento clamoroso, ma le dichiarazioni che hanno accompagnato il gesto sono estremamente significative, anche perché in Italia è molto complesso trovare un personaggio sportivo che effettivamente dia risalto a quello che davvero pensa, piuttosto che alle solite frasi di circostanza che si ripetono continuamente come fossero risposte preimpostate in un videogioco. Le parole di Prandelli hanno messo a nudo la persona, discostandosi dal lato puramente sportivo, pur dandogli un peso importante.

L’ex Viola è riuscito a far capire, attraverso la sua lettera a cuore aperto, che non è possibile tracciare una linea netta tra personaggio e persona, non si possono calare gli uomini in contesti che non sono più pensati per loro: «In questo momento della mia vita mi trovo in un assurdo disagio che non mi permette di essere ciò che sono. Ho intrapreso questa nuova esperienza con gioia e amore, trascinato anche dall’entusiasmo della nuova proprietà. Ed è probabilmente il troppo amore per la città, per il ricordo dei bei momenti di sport che ci ho vissuto che sono stato cieco davanti ai primi segnali che qualcosa non andava, qualcosa non era esattamente al suo posto dentro di me. […] Probabilmente questo mondo di cui ho fatto parte per tutta la mia vita, non fa più per me e non mi ci riconosco più. Sicuramente sarò cambiato io e il mondo va più veloce di quanto pensassi. Per questo credo che adesso sia arrivato il momento di non farmi più trascinare da questa velocità e di fermarmi per ritrovare chi veramente sono».

La lettera di Prandelli racchiude perfettamente il disagio di centinaia e centinaia di sportivi, costretti a sostenere ritmi e pressioni diventate troppo grandi perché possano essere affrontate con tranquillità. Senza il bisogno di fare alcun nome, è facile ricordare di storie di calciatori attanagliati dalla depressione negli anni recenti, malattia spesso nascosta sotto le spoglie di lievi infortuni che pian piano si sono ingigantiti, allungando i tempi di recupero, incompatibili con i problemi fisici forniti come spiegazione alle assenze prolungate.

La lettera di Prandelli è il disagio di un settore, ma non solo: è il disagio percepito da un’intera parte di società, da uomini costretti ad affrontare sfide simili a quelle dei calciatori in proporzioni diverse. Nel suo saggio più conosciuto, ‘La Vita Liquida‘, Zygmunt Bauman denunciava già agli inizi del Ventunesimo Secolo la deriva che il mondo stava prendendo, teorizzando l’affermazione di una società che basa la sua sopravvivenza sul mutamento, sull’incertezza del futuro e sulla continua necessità di affermazione dell’individuo, che può solo continuare ad arrampicarsi senza riuscire a costruire qualcosa di duraturo, qualcosa per cui valga la pena impegnare davvero tutto sé stesso: «La vita liquida, come la società liquida, non è in grado di conservare la propria forma o di tenersi in rotta a lungo. Sospinta dall’orrore della scadenza, la società liquida deve modernizzarsi o soccombere. E chi la abita deve correre con tutte le proprie forze per restare nella stessa posizione». Gli individui come Cesare Prandelli, che non riescono o non vogliono sottostare al cento per cento alla logica a cui ci siamo troppo facilmente abituati, secondo Bauman sono costretti a soccombere, ad essere spinti ai margini di una società che deve continuare ad andare avanti senza dare troppo peso all’uomo in quanto tale, ma solo al ruolo che l’uomo è destinato ad occupare. E così è stato, con Prandelli che è stato presto abbandonato e dimenticato dal calcio.

Non sappiamo se sia possibile invertire la rotta, prendere qualche contromisura per rallentare, riprendere fiato e ripensare a un sistema calcio che sia più sostenibile, sia per coloro che lo vivono dall’interno sia per gli spettatori. La macchina continua a girare, ed è talmente imponente che servirebbe uno sforzo collettivo non indifferente per ostacolarla, ammesso che lo si voglia effettivamente fare. Non servirebbe una singola voce isolata, ma un grido che riecheggi dal basso, formato da tante voci: ci piace immaginarlo molto simile al ritornello di una canzone dei Radiohead, ‘The Tourist‘, che dovrebbe risuonare come un mantra per tutti noi: «Hey man, slow down, slow down. Idiot, slow down, slow down».


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