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Il calcio sta andando troppo veloce

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Il calcio è cambiato, innanzitutto dal punto di vista tattico: il gioco si fa sempre più veloce, e sempre più incentrato sulla verticalità e sulla tenuta di ritmi asfissianti da parte dei suoi interpreti. La grande novità del decennio, il Guardiolismo, pur lasciando un’impronta importante, ha ridotto sensibilmente il suo impatto, nonostante nei salotti televisivi imperversino dibattiti anacronistici e superficiali, volti solo ad alzare polveroni e a gettare fumo negli occhi del pubblico. Al suo posto si è diffuso soprattutto un tipo di gioco ad altissima intensità, distruttivo più che costruttivo, che ha nel Gegenpressing la valvola di sfogo perfetta.

Il calcio è cambiato, complici le disparità economiche sempre più forti: il settore sta subendo una polarizzazione, incentrata sulla crescita amazoniana di pochissimi club; le disuguaglianze che registriamo sempre più spesso all’interno della società si ripercuotono in maniera minore anche nel mondo sportivo. La SuperLega, che tanti presidenti di tanti grandi club avrebbero voluto – da Florentino Pérez ad Andrea Agnelli –, è il modo in cui queste disuguaglianze provano a manifestarsi sempre più insistentemente, e in misura preoccupante, in un sistema che sembra essersi spostato verso il proprio limite, al punto di non ritorno.

Niente è immutabile, ed è giusto che anche il calcio si evolva: pensare di rimanere ancorati al passato, chiudendosi a riccio nei confronti del cambiamento è chiaramente errato, ma il cambiamento ha bisogno di tempo per imporsi, di periodi di transizione che permettano a tutti di trarne beneficio o semplicemente di abituarsi ad esso. Nel mondo dello sport, e del calcio in generale, non è stato così: ci siamo ritrovati catapultati a rotta di collo in un ambiente dove non ci sentiamo del tutto a casa, dove c’è qualcosa fuori luogo. La radice del problema, che condiziona tutto ciò che ci circonda, compresa quella piccola porzione di mondo fatta di sport, è la velocità a cui ci muoviamo.



Da qualche giorno le casse collegate al mio PC trasmettono in loop ‘Everything Now‘, l’ultima fatica in ordine cronologico degli Arcade Fire. L’opera ha come leitmotiv la vacuità di un presente sempre più frenetico, di comportamenti sempre più dissociati e inerziali, di gesti compiuti compulsivamente col solo obiettivo di ripetersi. ‘Signs of Life‘ è il manifesto perfetto per un lavoro del genere, con il suo ritmo ossessivo, incalzante, ripetitivo fino allo sfinimento; con quel battito di mani incessante e costruito, privo di qualsiasi spontaneità.

Oggi, la spirale in cui ci ha condotto la pandemia legata al COVID-19 rende questo album quanto mai attuale: ad un anno dall’inizio del caos, il mondo non ha rallentato la sua andatura come avevamo sperato, anzi, si è mosso in direzione ostinata e contraria alle nostre necessità, eliminando quasi tutte le valvole di sfogo. A galla rimangono solo le “attività essenziali”, che hanno assunto ai nostri occhi una priorità maggiore, proprio perché le uniche rimaste a tenerci occupati. Questo discorso vale anche e soprattutto per il calcio. È stata la prima attività a riprendere a pieno regime, già da maggio 2020 per alcune delle leghe europee, e da allora è l’unica a non essersi mai fermata, eccezion fatta per la quindicina di giorni trascorsa tra agosto e settembre. Gli interessi economici alla base dell’attività sono così grandi che nemmeno un evento storico di questa portata è riuscito a porre un freno duraturo alle necessità del movimento calcistico internazionale, che ha il bisogno incessante di autosostenersi. E così gli stadi hanno riaperto, anche se vuoti; i campionati di tutto il mondo sono ricominciati all’insegna delle incertezze, tra casi di contagi di massa e partite perse a tavolino trasmesse in diretta internazionale – su tutte Juventus-Napoli. L’unica certezza è la necessità di continuare, pena il collasso di un settore che fattura tre miliardi di euro l’anno con la sola Serie A. Lo spettacolo deve andare avanti, non ci sono dubbi. Ma qual è lo spettacolo a cui stiamo assistendo oggi?

Attualmente sembra di star prendendo parte all’ombra dei tempi che furono. Certamente la visione di una partita di calcio resta un evento emozionante, anche e soprattutto in situazioni precarie; per molti di noi ha significato uno dei pochi momenti di svago e di piacere rimasti in un periodo altrimenti morto, e ha aiutato a passare del tempo prezioso, proprio quando il tempo stesso sembrava allungarsi all’infinito. Il calcio, sotto questo punto di vista, è stato una delle pochissime valvole di sfogo per le persone, e molto probabilmente ha aiutato la comunità. Dall’altra parte, però, non si può non tener conto del fatto che la modalità con cui lo sport è stato riproposto negli ultimi mesi abbia rappresentato un passo indietro per il futuro del movimento. Le partite, riproposte ogni tre giorni, hanno accentuato l’incidenza di diversi problemi già sorti gli anni passati in diversi campionati, soprattutto in Premier League.



Il primo problema, il più evidente forse, è il grado di preparazione per il singolo match: tantissimi allenatori in questo periodo hanno evidenziato come, avendo due giorni di tempo effettivi tra la disputa di una partita e l’altra, non vi sia alcuna possibilità per loro di preparare il piano gara in base all’avversario che andranno ad affrontare. Quasi tutto l’effort che i calciatori possono compiere nell’arco di tempo che gli resta è dedicato al recupero fisico e al mantenimento di un buon grado di atletismo. Il ruolo dell’allenatore risulta svilito, perché è ovvio che la sua incidenza sul gioco della squadra si riduce sensibilmente. In casi estremi gli allenatori non hanno potuto nemmeno preparare adeguatamente la stagione: basti pensare ai casi di Liverani al Parma e Di Francesco al Cagliari, arrivati a cavallo di due stagioni così vicine da non permettere alcun tipo di precampionato. Viene chiamato ad allenare qualcuno che difficilmente riuscirà ad instaurare un certo rapporto con i giocatori, anche sotto il profilo puramente umano, oltre che dal punto di vista prettamente tattico. Assistere dal di fuori a questo spettacolo è snervante, e lo è ancor di più dall’interno. Per l’allenatore è come avere a che fare con un corpo estraneo, come guidare una macchina che non gli appartiene. I risultati faticano ad arrivare, la continuità si perde – lo si può notare anche considerando che nessuna squadra di Serie A, esclusa l’Inter dopo l’uscita dall’Europa, sia riuscita ad ottenere filotti importanti di risultati positivi, come invece accadeva gli anni precedenti – e lo spettacolo indubbiamente ne risente.

Le difficoltà, però, non appartengono solo ad allenatori catapultati su una nuova panchina in un momento storico difficile, ma colpiscono anche i più navigati, con anni di esperienza alle spalle e un palmarès di un certo spessore. Già nel 2018 Guardiola denunciava le difficoltà incontrate nel giocare continuamente, in una Premier che già si avviava verso un format sempre più simile all’NBA: «Da agosto ad oggi abbiamo giocato tantissime partite con una sola settimana di pausa, avevamo bisogno di un po’ di riposo. Amiamo giocare a calcio, ma quando scendi in campo ogni tre giorni diventa tutto più complicato. Ora siamo riusciti a fare tre sessioni di allenamento consecutive, a volte una pausa fa bene a tutti». Fu eclatante il caso del Liverpool, ritrovatosi lo scorso anno a disputare quasi contemporaneamente la finale di Coppa del Mondo per Club e una partita di qualificazione di Coppa di Lega, costretto a schierare i giovani dell’Academy nella competizione interna. Proprio Klopp, in questa stagione, ha denunciato il secondo problema che l’assenza di riposo tra una partita e l’altra può comportare, e cioè l’aumento considerevole del numero di infortuni in ogni squadra: «Giocare ogni tre giorni è un casino. Non abbiamo abbastanza tempo per recuperare. Il recupero non è solo riposo e cura di sé stessi, ma anche libertà di pensare a quello che vuoi e non a quello che devi fare. È una situazione che ci rende tesi, è tutto stressante, non aiuta giocare ogni tre giorni, gli infortuni sono dietro l’angolo, sempre. È tutto molto difficile». La mancanza nella cura degli aspetti tattici è solo un lato del problema, perché l’assenza di riposo ha un impatto fortissimo sui giocatori, non solo in relazione alla tenuta fisica, ma anche e soprattutto su quella mentale.

Sul lato puramente fisico, è facile notare come il numero di infortuni sia cresciuto a dismisura negli ultimi mesi: basta prendere come esempio le rose di Milan e Napoli, che sulla carta sembrano avere una certa profondità, per rendersi conto di come nemmeno avere una panchina lunga possa sopperire adeguatamente al perpetuarsi di infortuni molteplici e di lunga durata. Il Napoli ha dovuto affrontare due mesi di campionato e coppa senza un centravanti titolare di un certo spessore, e a un certo punto Gattuso è arrivato al punto di dover schierare Lozano prima punta, in assenza di alternative. Il lavoro di un allenatore non può che essere compromesso in partenza, perché le sue idee di gioco non riescono a svilupparsi per come sono state pensate, non si adattano alla perfezione ad altri tipi di giocatore, che si ritrovano a fare da tappabuchi in ruoli che non sentono propri. Lo stesso è accaduto per il Milan, che nella partita dell’anno si è ritrovato ad affrontare lo United con Castillejo centravanti. In questo contesto, con formazioni ibride in cui le ali sono costrette a fare i centravanti e i terzini a fare le ali, anche la qualità del prodotto – parola sbagliata per definire qualcosa che dovrebbe andare oltre il semplice intrattenimento – ne risente sensibilmente.

Gli infortuni fisici hanno anche un impatto sulla componente psicologica dei calciatori, come ha dichiarato Torres nella sua autobiografia: «La prima volta che ti succede pensi che sia una cosa normale, e vai avanti. La seconda volta ti fermi, ti prendi più cura di te stesso, ed inizi a domandarti cosa stia succedendo. La terza ti blocchi, inizi a pensare che ci siano cause sottovalutate e lavori in maniera estenuante per assicurarti che non ti capiti ancora». Così, più gli infortuni aumentano, più i giocatori diventano fragili mentalmente. È un aspetto che non andrebbe sottovalutato, relegandolo come si fa di solito a un inconveniente marginale per personaggi – così vengono visti – fortunati a guadagnare molto più degli altri. Tempo fa ai microfoni di Sky Sport UK, Kevin De Bruyne ha denunciato la cosa in questi termini: «Gioco senza sosta praticamente da due anni, ma nessuno ascolta i calciatori. Ho avuto in sostanza 8-9 giorni di ferie ma non sono andato da nessuna parte visto che mia moglie era incinta. Ho bisogno di riposo fisicamente e mentalmente, ma ripeto, nessuno ci ascolta. […] La gente dice che non dovrei lamentarmi perché guadagno bene, ma poi vedo tanti colleghi infortunarsi. Che senso ha?». Fa male dover ammettere che i calciatori, così come gli allenatori, vengono considerati sempre più spesso come figurine: la componente umana viene messa da parte da chi si trova all’esterno dell’ambiente. Tifosi e giornalisti nelle loro critiche scindono completamente il lato professionale da quello emotivo, tutto viene rielaborato nell’ottica dei risultati sportivi conseguiti, o addirittura in risultati metasportivi, ad esempio in ottica fantacalcio.



L’esempio lampante di come questa frattura possa essere dolorosa sono state le dimissioni di Cesare Prandelli da allenatore della Fiorentina. Di per sé non sarebbe un evento clamoroso, ma le dichiarazioni che hanno accompagnato il gesto hanno avuto un impatto importante su moltissimi appassionati di sport. Era da molto tempo che le parole di un personaggio sportivo non colpivano in questo modo, probabilmente perché diventa sempre più difficile trovare persone che effettivamente diano risalto a quello che davvero pensano, piuttosto che alle solite frasi di circostanza che si ripetono continuamente come fossero risposte preimpostate in un videogioco. Le parole di Prandelli hanno messo a nudo la persona, discostandosi dal lato puramente sportivo pur dandogli un peso importante. L’ex Viola è riuscito a far capire, attraverso la sua lettera a cuore aperto, che non è possibile tracciare una linea netta tra personaggio e persona, non si possono calare gli uomini in contesti che non sono più pensati per loro: «In questo momento della mia vita mi trovo in un assurdo disagio che non mi permette di essere ciò che sono. Ho intrapreso questa nuova esperienza con gioia e amore, trascinato anche dall’entusiasmo della nuova proprietà. Ed è probabilmente il troppo amore per la città, per il ricordo dei bei momenti di sport che ci ho vissuto che sono stato cieco davanti ai primi segnali che qualcosa non andava, qualcosa non era esattamente al suo posto dentro di me. […] Probabilmente questo mondo di cui ho fatto parte per tutta la mia vita, non fa più per me e non mi ci riconosco più. Sicuramente sarò cambiato io e il mondo va più veloce di quanto pensassi. Per questo credo che adesso sia arrivato il momento di non farmi più trascinare da questa velocità e di fermarmi per ritrovare chi veramente sono».

La lettera di Prandelli racchiude perfettamente il disagio di decine e decine di calciatori, costretti a sostenere ritmi e pressioni diventate troppo grandi perché possano essere affrontate con tranquillità. Senza il bisogno di fare alcun nome, è facile ricordarsi di storie di calciatori attanagliati dalla depressione negli anni recenti, malattia spesso nascosta sotto le spoglie di lievi infortuni che pian piano si sono ingigantiti, allungando i tempi di recupero, incompatibili con i problemi fisici forniti come spiegazione alle assenze prolungate. La lettera di Prandelli è il disagio di un settore, ma non solo: è il disagio percepito da un’intera parte di società, da uomini costretti ad affrontare sfide simili a quelle dei calciatori in proporzioni diverse. Nel suo saggio più conosciuto, ‘La Vita Liquida‘, Zygmunt Bauman denunciava già agli inizi del Ventunesimo Secolo la deriva che il mondo stava prendendo, teorizzando l’affermazione di una società che basa la sua sopravvivenza sul mutamento, sull’incertezza del futuro e sulla continua necessità di affermazione dell’individuo, che può solo continuare ad arrampicarsi senza riuscire a costruire qualcosa di duraturo, qualcosa per cui valga la pena impegnare davvero tutto sé stesso: «La vita liquida, come la società liquida, non è in grado di conservare la propria forma o di tenersi in rotta a lungo. Sospinta dall’orrore della scadenza, la società liquida deve modernizzarsi o soccombere. E chi la abita deve correre con tutte le proprie forze per restare nella stessa posizione». Gli individui come Cesare Prandelli, che non riescono o non vogliono sottostare al cento per cento alla logica a cui ci siamo troppo facilmente abituati, secondo Bauman sono costretti a soccombere, ad essere spinti ai margini di una società che deve continuare ad andare avanti senza dare troppo peso all’uomo in quanto tale, ma solo al ruolo che l’uomo è destinato ad occupare.

È ironico che nel calcio questo concetto si sia trasformato addirittura in una corrente tecnica di pensiero: il cosiddetto ‘Calcio Liquido’, che ha tentato di affermarsi negli ultimi anni, richiede ai giocatori di diventare multitasking, in modo da poter occupare ruoli sempre diversi all’interno della stessa partita, così da permettere alla squadra di riorganizzarsi velocemente in moduli differenti e di adattarsi a nuovi contesti. I calciatori, anche in campo, sono costretti a lasciar sbiadire le loro peculiarità, a nascondere i propri punti di forza – e certamente anche di debolezza – così da favorirne l’omologazione. È vero, questo potrebbe sembrare un problema secondario, ma è anche in questo modo che l’individuo viene privato della sua personalità, del suo tocco proprio nel contesto che invece dovrebbe permettergli di esprimersi secondo le sue idee, pur trovandosi in un sistema codificato da schemi.

Non sappiamo se sia possibile invertire la rotta, prendere qualche contromisura per rallentare, riprendere fiato e ripensare a un sistema calcio che sia più sostenibile, sia per coloro che lo vivono dall’interno sia per gli spettatori. La macchina continua a girare, ed è talmente imponente che servirebbe uno sforzo collettivo non indifferente per ostacolarla, ammesso che lo si voglia effettivamente fare. La pandemia sembra aver gettato le basi per un ridimensionamento dell’intero movimento, perché le difficoltà economiche che quasi tutti i club stanno affrontando non appaiono risolvibili continuando su questa linea, ma è necessario che le persone, in massa, prendano coscienza dei rischi che correremmo se non ci fermassimo. Non servirebbe una singola voce isolata, ma un grido che riecheggi dal basso, formato da tante voci: ci piace immaginarlo molto simile al ritornello di una canzone dei Radiohead, ‘The Tourist‘, che dovrebbe risuonare come un mantra per tutti noi: «Hey man, slow down, slow down. Idiot, slow down, slow down».

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