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Storie di calcio e depressione

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Se si pensa alla figura del calciatore, non possono non venire in mente i soldi e la fama che circondano queste persone, la cui professione consiste, nella maggior parte dei casi, nel fare ciò che hanno sempre amato sin da bambini. Un sogno, non trovate? Non sempre. La recente vicenda di Josip Iličić ha fatto riemergere la problematica dei calciatori affetti da depressione, che in questi anni sta acquisendo sempre più risalto poiché sempre più persone all’interno del mondo del calcio stanno ammettendo di soffrirne. Grazie ad uno studio condotto dalla FIFPro, è emerso che su un campione di 300 calciatori – 180 in attività, 120 ritirati – il 32% abusa di alcol, il 42% ha cattive abitudini alimentari e il 32% presenta disturbi depressivi.

Per approfondire l’argomento analizzeremo tre storie di calciatori che hanno dovuto affrontare il demone della depressione, di come esso si manifesti nelle sue varie forme e di come poterne uscire.


Storie di calcio e depressione – Gianluigi Buffon

Scrivere di Gianluigi Buffon non è mai facile, perché si tratta di uno dei simboli più importanti del movimento calcistico non solo italiano ma globale. Una vera e propria icona con alle spalle una carriera ultraventennale costellata di successi. Nonostante qualche scivolone extracampo, Buffon è sempre stato uno dei personaggi pubblici più riconoscibili della Nazione, ed ha sorpreso tutti nel gennaio 2019, quando – in una lettera aperta pubblicata su The Players Tribune – annunciò al mondo di aver sofferto di depressione nei primi anni del Duemila.

Nella lettera Buffon parla di come la depressione prese lentamente il sopravvento. Nei primi periodi cominciò ad avvertire una stanchezza sempre maggiore, inizialmente scambiata per un qualcosa di fisico, ma la situazione continuò ad aggravarsi fino a quando fu necessario un consulto con il medico della Juve che diede la sua diagnosi: principio di depressione. Il punto di difficoltà maggiore giunse al suo culmine prima di una partita contro la Reggina, in cui Buffon soffrì di un attacco di panico negli spogliatoi a pochi minuti dal calcio d’inizio, che, tuttavia, non scoraggiò Gigi, che nella vittoria dei suoi per 1-0 risultò decisivo con una parata su Francesco Cozza.

Quella fu una delle due cose che Buffon riconosce fra quelle che gli diedero la scossa, l’altra non ha nulla a che vedere con il calcio, bensì con un quadro. Nella lettera Buffon descrive dettagliatamente questo momento al sé stesso da giovane: «Ma poi vedrai un quadro in particolare che ti colpirà come un fulmine. Si chiama La Passeggiata. È un’immagine quasi infantile. Un uomo e una donna fanno un picnic al parco, ma è tutto magico. La donna vola via verso il cielo come un angelo ma l’uomo rimane in piedi a terra tenendola per la mano, sorridendo. È come il sogno di un bambino. Quest’immagine ti trasmetterà qualcosa di un altro mondo. Ti farà sentire come un bambino. La sensazione della felicità nelle cose semplici».

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La passeggiata, di Marc Chagall (1918)

La vicenda di Buffon è un esempio di come dovrebbe essere affrontato un problema simile. Il fatto di non provare vergogna nel soffrire di una malattia così stigmatizzata lo ha aiutato ad aprirsi con specialisti, familiari e amici, potendo così riprendere con la passione di prima la professione che ha sempre sognato di fare sin da bambino, quando ammirava le gesta del suo idolo Thomas N’Kono.


Storie di calcio e depressione – Paul Merson

Paul Merson è stato uno dei giocatori simbolo dell’Arsenal negli anni Novanta. Il fantasista nativo di Harlesden può vantare un palmarès di tutto rispetto, con due First Division, una FA Cup e una Coppa delle Coppe, oltre a due partecipazioni fra Europei e Mondiali con la maglia dell’Inghilterra. Merson, però, è ricordato dagli appassionati inglesi più per i suoi eccessi fuori dal campo che per le prestazioni vere e proprie. In particolar modo per l’abuso di alcolici, con i tabloid britannici che spesso lo sorpresero a fare serata nei pub della capitale. A queste accuse Merson rispose con una iconica esultanza in cui mimava il gesto di bere una pinta di birra.

Il vortice di autodistruzione però non si fermò qui, alla dipendenza da alcol Merson aggiunse quella dalla cocaina – una vera e propria piaga nel Regno Unito, dove il 7,4% della popolazione fa uso regolare di cocaina stando alla European Monitoring Centre for Drugs and Drug Addiction – fino al febbraio 1994, mese in cui si rese conto di aver toccato il fondo, soprattutto dopo un terribile incidente d’auto da cui uscì miracolosamente illeso. La carriera di Merson proseguì lontano da Londra, con il trasferimento al Middlesbrough nel 1997 – in cui diventò compagno di squadra con colui che è probabilmente il più grande talento stroncato dagli eccessi, Paul Gascoigne – per poi concludere la sua carriera con Aston Villa, Portsmouth e Walsall.

Nel sopracitato studio della FIFpro, uno dei principali motivi di depressione nei giocatori è l’incertezza che circonda il proprio futuro, subito dopo aver appeso gli scarpini al chiodo e abbandonato il mondo del calcio giocato. Il caso di Merson non fa eccezione, nonostante l’attività di opinionista a Sky Sport. La dipendenze da alcol – a cui va aggiunta quella sviluppata al termine della carriera, quando iniziò a giocare d’azzardo – portò Merson ad intraprendere un percorso di terapia e ad aprirsi in un’intervista al Mirror, in cui riuscì a raccontare di quando arrivò a pensare al suicidio, ma anche di come quello fu il momento in cui scelse di tornare a vivere pienamente la sua esistenza, allontanandosi definitivamente dall’alcol.


Storie di calcio e depressione – Robert Enke

Se le storie di Merson e Buffon hanno avuto un lieto fine, mostrando come si possa ricostruire un’esistenza serena dopo aver toccato con mano il fondo, quella di Robert Enke dimostra come a volte il male che si trova dentro se stessi possa prendere il sopravvento. Nel caso di Enke, successe il 10 novembre 2009, quando si gettò sotto un treno della ferrovia di Neustadt am Rübenberge.

Per capire le ragioni della malattia è necessario analizzare la sua carriera. Classe 1977, è cresciuto nel Carl Zeiss Jena, squadra della sua città natale con cui debutta nel calcio professionistico in Zweite Bundesliga, la seconda serie del calcio tedesco, per poi passare al Borussia Mönchengladbach, in cui gioca tre stagioni, concluse con una retrocessione. Nonostante l’ultimo posto nella Bundesliga 1998/1999, le prestazioni di Enke sono molto convincenti, al punto che lascia il Gladbach per passare al Benfica, di cui diventa titolare e capitano. Resta a Lisbona fino al 2002, anno in cui arriva la chiamata di uno dei club più blasonati al mondo, il Barcellona.

In Catalogna le cose non iniziano nel migliore dei modi. Relegato come secondo del titolare Robert Bonano, Enke debutta in maglia blaugrana nel primo turno di Copa del Rey contro il Novelda, una squadra di bassa classifica della Segunda B, la terza divisione spagnola. Sembrerebbe una formalità per un colosso come il Barcellona, e invece accade l’impensabile: il Novelda batte il Barcellona per 3-2, con Enke che si rende protagonista in negativo con un paio di errori in occasione dei gol degli avversari. Frank de Boer – capitano del Barcellona – darà pubblicamente la colpa della sconfitta al portiere tedesco. Quel momento rappresenta l’inizio della depressione per Enke, con il peso di quella sconfitta e del non sentirsi accettato all’interno del gruppo che minarono ulteriormente una personalità forse già fragile di suo.

Riuscirà a trovare un breve momento di stabilità interiore nel 2004, quando, dopo la terribile esperienza catalana e le brevi parentesi al Tenerife e al Fenerbahçe, torna in patria, accasandosi ad Hannover. Un momento ricordato così dalla moglie Teresa: «C’è stato un periodo, dopo Istanbul e Barcellona, in cui avevamo superato tutto, guardavamo con speranza a quello che avremmo potuto ottenere». L’esperienza ad Hannover coincide anche con il momento più alto della carriera del portiere, ma una tragedia lo colpì nel 2006, la morte della figlia Lara a causa di una malattia cardiaca, che acuì profondamente la sua depressione, fino al punto di non ritorno in quel giorno di novembre del 2009.

Dopo la tragedia di Robert Enke, per la prima volta, si è iniziato a parlare seriamente di questo problema, e nonostante siano passati diversi anni dalla sua morte, questo argomento rimane ancora un tabù. Molti sono i calciatori che hanno paura di esporsi pubblicamente, magari spaventati da una parte di opinione pubblica non in grado di accettare che una persona benestante dal punto di vista economico possa non sentirsi in pace con sé stessa. È per questo che esistono associazioni come Back OnSide, che durante la quarantena ha offerto assistenza telefonica ai giocatori della Premier League, e la Fondazione Robert Enke, fondata dalla moglie Teresa, che si impegnano nel cercare di abbattere lo stigma che circonda la depressione nel mondo del calcio, nella speranza che sempre più persone possano seguire l’esempio della Green Brigade – storico gruppo della tifoseria organizzata dei Celtic Glasogow –, che in sostegno al loro giocatore Leigh Griffiths, che si era temporaneamente ritirato per combattere la depressione, ha esposto uno striscione con una frase semplice, ma che dovremmo sempre tenere a mente: «it’s ok not to be ok».

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