Lobanovskyi

Dietro i successi del colonnello Lobanovskyi

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«Arriva il buio. Mamma, ho paura! Il lumino non basta. L’armadio scricchiola. Mamma, ho paura! L’uomo nero può anche essere biondo. Può aver segnato 14 gol, ma arriva sempre una notte in cui si vincono i demoni in sogno. Li scacci con la pistola da cowboy, la spada di Zorro, la bacchetta di una fata. Quella è la notte in cui si comincia a crescere. Mamma, stasera non si può avere paura. Dal Valeriy Lobanovskyi di Kiev, Dinamo Kiev-Internazionale». Con questo stupendo incipit, Fabio Caressa introduceva il match che, in una notte di fine autunno del 2009, ha cambiato per sempre la storia europea dell’Inter.

Il percorso del Treble di Mourinho – quantomeno a grandi linee – lo conosciamo tutti, soffermiamoci piuttosto su alcuni punti del monologo del telecronista romano: chi è Valeriy Lobanovskyi, e perché lo stadio di Kiev porta il suo nome? Perché l’uomo nero – che in realtà è biondo e si chiama Shevchenko – si trova lì, in quel preciso momento?

La risposta a tutte queste domande potrebbe essere data da una strana e incomprensibile formula: a=1/n (A1’’/A1’ + A2’’/A2’ + … + AP’/AP’).


1973 – Sotterraneo di una casa qualunque a Kiev

In pochi lo hanno visto, anche nella Dinamo, in ancora meno hanno avuto la fortuna di parlarci, fra questi c’è Simon Cooper, uno scrittore appassionato di sport che, con un’impresa sicuramente ardua, riuscì ad intervistarlo. Cooper venne portato in una stanza – tutt’altro che futuristica – dove c’erano nove cubi, e su questi venivano proiettate le partite della Dinamo. Lo strumento permetteva di capire chi e quanto spesso calpestava determinate zone del campo, quanto tempo i calciatori passavano con la palla al piede e quanto senza, persino la compatibilità dei vari giocatori, e con margini di errore minimi, a ogni calciatore veniva assegnato un livello, calcolato al terzo decimale. È l’alba della match analysis.

Se negli ultimi anni siamo stati abituati a sentir parlare di expected goals (xG) e altri termini del genere, lo dobbiamo a quello scantinato, e a quell’uomo. Ma perché lo faceva? Cosa e chi lo spingeva a farlo? Perché un uomo così tanto intelligente, nel pieno della Guerra Fredda, si dedicava ad una squadra di calcio sovietica?

1963 – Il Copernico del calcio

La difesa della Dinamo è praticamente inguardabile, subisce poco meno di 50 gol in poco più di 30 partite. I palcoscenici più importanti del calcio mondiale erano occupati dai giganti del tempo: Pelé, Garrincha, Di Stéfano, Puskás ed Eusébio. Ad est della cartina europea facevano caso in pochi, ma il calcio sovietico in quel tempo era molto interessante, e non a caso ha rivoluzionato il gioco nella maniera più silenziosa possibile, ed è strano a dirsi: URSS e quiete di solito non sono mai andate d’accordo.

Nella stagione successiva a quella difensivamente disastrosa, subentrò in panchina Viktor Maslov, un uomo di Mosca che sembrava il classico nonno sovietico del tempo. A volte indossava un cappello fedora ed andava matto per due cose: la pipa ed il rigore. Certo è che non si può dire che le innovazioni che hanno portato ad a=1/n et cetera et cetera siano state particolarmente democratiche, ma non si può neanche negare che ci siano state.

Maslov portò diversi cambiamenti nel calcio. Innanzitutto, studiando il 4-2-4, capì che se vengono arretrati gli attaccanti esterni sul livello della linea di centrocampo si ottiene più equilibrio. Sì, ha inventato il 4-4-2, e non è neanche stata la sua innovazione più importante. Infatti, riuscì ad ideare due concetti che oggi sono all’ordine del giorno: la marcatura a zona ed il pressing, dal nulla.

Oggi Maslov passa in sordina, mentre allora finì in prima pagina su un noto quotidiano di Mosca, che aprì con la frase più schietta della storia di questo sport: «Noi non abbiamo bisogno di questo tipo di calcio». Ci troviamo di fronte a un presente troppo passato per affrontare il futuro, e non è la prima volta che succede: l’uomo è fatto così, basti pensare alla teoria eliocentrica o alla digitalizzazione. La biologia evoluzionistica è una scienza che studia innanzitutto la lentezza. In un libro di storia di terza elementare leggiamo il termine homo abilis e un rigo sotto homo sapiens, ma per passare da uno all’altro ci sono voluti anni su anni, uomini su uomini. È possibile che ci troviamo davanti al Copernico del calcio e quasi nessuno lo ha mai sentito nominare?

Maslov non solo riuscì a cambiare il gioco, ma capì anche che se si predica in sostanza un altro sport bisogna anche comportarsi in maniera diversa in campo, e di conseguenza allenarsi in maniera diversa. Cambia – o almeno inizia a cambiare – i metodi di allenamento, e i risultati sono netti: la difesa diventa un bunker, la Dinamo passa dal subire 48 a 11 gol stagionali in pochissimi anni. È la profezia del calcio contemporaneo digitalizzato, e se sulla Bibbia del calcio moderno c’è scritto a caratteri cubitali – ma apparentemente non visibili – Viktor Maslov, è stata rilevante allo stesso modo, se non di più, la figura di Valeriy Lobanovskyi. Quello dello stadio, per intenderci.

Perché l’impianto è dedicato a lui e non a Maslov? Essenzialmente perché è stato più longevo e più vincente, seppur il rivoluzionario di Mosca abbia portato a casa tre Campionati sovietici e tre Coppe dell’URSS in sei anni di permanenza. Alla fine viene ricordato, molto spesso, chi vince di più.

Se Maslov è l’homo erectus del calcio contemporaneo, Lobanovskyi è l’homo sapiens, quello che ha preso le innovazioni della specie precedente, le ha perfezionate e ha dominato il mondo. Se Viktor è Copernico, Valeriy è senza dubbio Galileo, ma con ogni probabilità non avrebbe abiurato neanche davanti all’Inquisizione.

Lobanovskyi è il classico ucraino dell’epoca, gelido in volto e non il massimo della simpatia, non a caso il soprannome è ‘Colonnello‘. Cosa faceva prima di diventare il successore di Maslov? L’allievo di Maslov. Era un’ala sinistra virtuosa della Dinamo, spesso disobbediente agli ordini dell’allenatore. Il suo carattere in campo era diametralmente opposto a quello assunto da coach. Il Lobanovskyi giovane non sarebbe durato un giorno sotto la guida di quello maturo: non era una testa calda, ma la pensava in maniera diversa.


2002 Il Ferguson della Dinamo Kiev

È finita anche la seconda avventura di Lobanovskyi sulla panchina della Dinamo, per lui parla la sua bacheca a Kiev: otto Campionati sovietici, sei Coppe dell’URSS, tre Supercoppe sovietiche, cinque Campionati ucraini, tre Coppe d’Ucraina, due Coppe delle Coppe, una Supercoppa europea, tre Coppe della CSI. È stato il Ferguson della Dinamo, ma è solo merito suo?

1973 – Dietro le quinte

Il colonnello-scienziato, sulla scia dell’amico-nemico-mentore Maslov, continuò la rivoluzione nell’allenamento e nello stile di gioco, rendendo tutto scientifico. Il bioingegnere, chiamato da lui nel suo staff, arrivò a una conclusione che mette un punto nella storia del calcio: allenarsi cinquanta minuti spesso è meglio che fare una sessione lunga due ore. Qui si vede, attraverso le sue idee, e attraverso le sue giocate da calciatore, che in realtà così gelido non è.

Lobanovskyi voleva vincere, ma voleva farlo nel suo modo. Il vero scienziato è quello che cambia la storia della scienza. Non aveva perso del tutto la verve che mostrava da giovane sulla fascia sinistra, dopotutto se non si vuole comunicare il proprio lato nascosto in maniera esplicita, lo si fa attraverso comportamenti, idee, arte.

1973 – Nel laboratorio

Ed ecco che torniamo in quello scantinato di Kiev, dove fu scritta per la prima volta quella formula indecifrabile. Si chiama Sistema TTD e, a detta dello scienziato, riesce a controllare da sola l’efficacia del giocatore nei determinati contesti. Paragonò – guarda un po’, non ce lo saremmo mai aspettati da un sovietico – i calciatori ai pezzi degli scacchi, che si adattano alla scacchiera man mano che il gioco evolve. E si è evoluto, in particolar modo grazie a lui, fondamentale per completare l’opera ben indirizzata da Maslov.

Questa è la storia di come molte volte alcune persone finiscono nel dimenticatoio ingiustamente, e altre non godranno mai della fama che gli sarebbe spettata, come nel caso dello scienziato. Perché se l’uomo nero, nato e cresciuto con Kiev e la Dinamo, è lì in quel preciso istante a terrorizzare i futuri campioni d’Europa, e se la Dinamo oggi è la squadra più vincente dell’ex URSS, buona parte del merito è nascosta dietro muri già difficilmente rintracciabili. Buona parte del merito è di Anatoly Zelentsov.

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