Garrincha

Garrincha, storia malinconica del più grande idolo brasiliano

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In Brasile, fin dagli albori del calcio, si è sviluppata l’abitudine di assegnare a praticamente ogni calciatore un alcunhas, un soprannome che si portano avanti per tutta la carriera e che di fatto prende il posto del nome reale, spesso sconosciuto. Le origini di alcuni di questi pseudonimi sono parecchio peculiari e curiose, e quello di Manoel Francisco dos Santos, per tutti Garrincha, non è da meno.

Il garrincha, in Italia noto come lo scricciolo delle case, è infatti un tipico uccellino del continente americano, diffuso dal Canada all’estremo Sud America. A partire dallo scorso secolo, il nomignolo con cui viene chiamato in alcune zone del Brasile il piccolo volatile è divenuto, in maniera inconsapevole e casuale, particolarmente famoso in tutto il globo. Quando infatti la giovane Rosa, nei primi anni Quaranta, diede quel soprannome al fratellino Manoel, che inseguiva tutto il giorno quegli uccellini, non avrebbe mai immaginato che di lì a poco sarebbe diventato uno dei migliori esterni d’attacco della storia del calcio e il giocatore più amato nella storia del Brasile.


Un’infanzia tra lavoro, poliomielite e cachaça

Il soprannome che invece gli daranno i tifosi carioca è Alegria do povo – Allegria del popolo –, in quanto simbolo indiscusso del riscatto sociale brasiliano. Garrincha nasce infatti a Pau Grande, una delle zone più povere della regione metropolitana di Rio de Janeiro, e questo obbliga il piccolo Manoel ad affacciarsi al mondo del lavoro all’età di 14 anni, iniziando come operaio presso un’industria tessile.

Nello stesso periodo gli viene diagnosticata una poliomielite, una malattia alle gambe che gli aveva reso il ginocchio destro curvato verso l’interno e quello sinistro verso l’esterno, il bacino sbilanciato e la gamba sinistra più corta di sei centimetri rispetto all’altra. Le tradizioni degli indios brasiliani, dai quali discendeva il padre, prevedevano una cura a base di cachaça, un liquore tipico del Paese, ed è lì che Garrincha si avvicina all’alcol, un vizio che non riuscirà mai ad abbandonare.

Il rendimento lavorativo del giovane brasiliano non soddisfa il padrone della fabbrica, che più volte pensa di licenziarlo, ma quando tutto sembra andare per il peggio arriva la sua salvezza: il calcio. Il ragazzo inizia a giocare per la squadra dello stabilimento, sorprendendo tutti, compreso il proprietario, che si convince a non lasciarlo senza lavoro.

Sì, sembra assurdo ma nonostante la sua malattia alle gambe, che in teoria avrebbe dovuto penalizzarlo, quando ha il pallone tra i piedi sembra volare, un po’ come gli uccellini che inseguiva da bambino, e quasi trasforma il suo più grande problema nel suo miglior pregio, perché nell’uno contro uno è veramente inarrestabile. I difendenti non riescono mai a captare le sue mosse: la malformazione delle sue gambe e una velocità fuori dal comune lo rendono totalmente imprevedibile.


Il Fogão di Garrincha

Il suo nome inizia a girare e arriva fino a Rio de Janeiro, dove alcune squadre vogliono provinarlo. Chiede di lui il Vasco da Gama, ma al provino si presenta senza scarpe e viene rimandato a casa; dopodiché si interessa il Fluminense, ma questa volta è lui ad abbandonare loro per paura di perdere un treno, e non verrà più richiamato. Quando le speranze iniziano a diminuire, arriva la chiamata del Botafogo, questa volta si presenta al provino e non sembrano esserci problemi, anzi, i problemi li crea in campo a chi gli si oppone.

Durante una partitella contro la prima squadra viene schierato come ala destra, e a marcarlo c’è Nílton Santos, uno dei più grandi terzini dell’epoca. Il diciannovenne non è però spaventato, e umilia quello che diventerà uno dei suoi più grandi amici, mostrando una finta di corpo che lo caratterizzerà per tutta la sua carriera. Alla fine dell’allenamento il terzino va dai dirigenti e dice loro: «Tesseratelo subito, quel ragazzo è un fenomeno».

Il Botafogo lo acquista per 500 cruzeiros – corrispondenti all’epoca a circa 25 dollari –, al ragazzo invece viene fatto stipulare un contratto da 1.500 cruzeiros mensili, appena 300 in più di quelli che percepiva da operaio. Con le cifre più basse mai scritte su un contratto professionistico, il Fogão si era assicurato il calciatore più forte e amato nella storia del club.

Questo che sembra l’affare del secolo, però, visto da un’altra prospettiva, diventerà una costante ingiusta nella carriera del fenomeno brasiliano. Il Botafogo si approfitterà della sua ingenuità e della sua istruzione praticamente inesistente, rifilandogli nel corso degli anni dei contratti ridicoli e per niente equivalenti al suo talento e al suo contributo in campo, in un’epoca in cui i procuratori non esistevano.

Con i bianconeri di Rio Garrincha inizia molto bene. Nella sua prima stagione mette in mostra grandi prestazioni, superando gli avversarsi con una facilità disarmante, ed è anche il capocannoniere della squadra grazie a 20 gol realizzati in 26 incontri.

Nonostante non fosse una prima punta, manterrà delle medie realizzative molto alte nel corso della sua carriera, dovute soprattutto all’esplosività che riusciva a dare ai suoi tiri.

Il punto di forza assoluto di Garrincha, però, era senza ombra di dubbio il dribbling. Dribblava così tanto e umiliando così tanto gli avversari che, si racconta, in una gara tra il Botafogo e l’América, l’arbitro minacciò di espellerlo per quella tremenda ora e mezza che fece passare al terzino degli avversari. Terzini che peraltro, nel corso della sua carriera, iniziarono ad essere chiamati ‘João‘, ovvero un nome comune qualsiasi, poiché, a prescindere da chi lo avrebbe marcato in partita, i risultati sarebbero stati sempre gli stessi: Garrincha inarrestabile e un terribile mal di testa del difendente al termine della gara.

Dovrà aspettare il 1957 per vincere il suo primo titolo, il Campionato Carioca, ovviamente da protagonista assoluto. A questo, nel corso della sua carriera, se ne aggiungeranno altri due consecutivi nel 1961 e nel 1962. Sono questi i suoi più grandi successi con i club, ma il meglio di sé lo dà in Nazionale.


Sul tetto del mondo al fianco di Pelé

Debutta con il Brasile nel 1955, ma il suo primo grande torneo internazionale è il Mondiale del 1958, in Svezia. La Nazionale carioca non è ancora riuscita a ricucire le terribili ferite causate dal Maracanazo, e aveva iniziato un processo di europeizzazione del gioco, con l’obiettivo di renderlo più tattico e meno spettacolare, dando alla ginga – lo stile joga bonito brasiliano, per intenderci – la colpa dell’insuccesso internazionale del Brasile, in quel momento fermo ancora a zero titoli mondiali.

Proprio per questa scelta di dare una svolta tattica al gioco, Garrincha rischia più volte di non essere convocato. In campo è tremendamente indisciplinato, non può essere contenuto in degli schemi tattici. Il suo calcio è spontaneo e autentico, e così deve rimanere. Riuscirà a non essere escluso dalla lista dei convocati solo grazie all’appoggio di alcuni dei leader del gruppo, tra i quali ovviamente troviamo Nílton Santos.

A queste problematiche tattiche si aggiungevano il razzismo, che all’epoca era una piaga estremamente diffusa, e lo psicologo che la Federazione decise di assumere per quel Mondiale.

João Carvalhaes, era questo il suo nome, decise di sottoporre i giocatori a dei test attitudinali, e furono particolarmente incisivi quelli effettuati su Garrincha e Pelé, un diciassettenne poco conosciuto che era agli albori della sua carriera. I risultati non furono positivi, Pelé venne bollato come immaturo e inadeguato, mentre Garrincha, che ottenne un punteggio così basso da essere inferiore anche alla soglia minima fissata dalla teoria, risultò essere fondamentalmente un idiota. Lo psicologo sconsigliò al CT Vicente Feola lo schieramento di entrambi, e così sarà per le prime due gare.

Dopo il pareggio con l’Inghilterra, però, il capitano della Nazionale Hilderaldo Bellini chiese a Feola, a nome della squadra, di farli giocare nella gara contro l’Unione Sovietica, o il Brasile avrebbe seriamente rischiato l’eliminazione.

I sovietici – gli stessi che due anni dopo vinceranno l’Europeo in Francia – partivano favoriti, ma sarà grazie ai brasiliani, in particolare ai due ragazzini, l’immaturo e l’idiota, che la gara entrerà nella storia del calcio. In primis perché, in maniera del tutto casuale, Pelé indosserà la numero dieci, e sarà il primo a creare la mistica che oggi conosciamo attorno a quel numero, in secondo luogo perché si assisterà a quelli che Gabriel Hanot – il signore a cui dobbiamo l’esistenza della Champions League – definirà come «I tre minuti più sublimi della storia del calcio».

Era inoltre la prima volta che il Brasile schierava allo stesso momento Garrincha-Didi-Vavá-Pelé, uno dei quartetti d’attacco più forti della storia di questo gioco, da pronunciare tutti insieme e tutto d’un fiato. Saranno proprio loro quattro a far impazzire l’Unione Sovietica in quei centottanta secondi. La gara inizia e battono i rossi, ma una volta persa la palla, la rivedranno solo in fondo alla propria rete. Il pallone arriva a Garrincha che salta tre avversari con la sua solita facilità imbarazzante e stampa un siluro sul palo. La palla torna ai brasiliani, che ricominciano ancora da Manoel. Questa volta il nativo di Pau Grande serve il dieci, che trova una traversa clamorosa a botta sicura. Pochi secondi dopo, Didi vede un corridoio impressionante per la corsa di Vavá, e il Brasile è in vantaggio. Nel secondo tempo l’attaccante di Recife sigla la sua doppietta personale su assist di Pelé, per il 2-0 finale. La Seleção vince dunque la gara e ottiene il passaggio del turno da primi del girone.

Da quel momento in poi quei due dal campo non usciranno più dal campo, e trascineranno la squadra fino alla vittoria finale contro i padroni di casa della Svezia. Per la prima volta nella storia, il Brasile è campione del mondo. In quell’occasione, peraltro, il capitano Bellini alzerà per la prima volta la coppa, creando una tradizione che resiste ancora oggi.

Le due stelle della Seleçao comporranno, insieme al francese Fontaine – capocannoniere della competizione con 13 gol, ancora oggi il maggior numero di reti realizzate in una singola edizione di un Mondiale –, l’attacco della Top 11 della competizione. Partendo da Garrincha e Pelé, il Brasile inizierà il suo dominio internazionale negli anni a venire. È il definitivo ritorno della ginga.



El Mundial de Garrincha

La vittoria in Svezia non lo dissuade dai suoi vizi, e anzi, gli aumenti – seppur ridicoli – ottenuti gli fanno ancor di più sperperare denaro. Nel corso degli anni successivi ingrassa, si allena poco e ancora una volta rischia di saltare il Mondiale, ma non potrebbe essere il Mondiale di Garrincha se non rischiasse di perderlo.

Quando tutti i compagni sono in ritiro in vista della preparazione per Cile ’62, lui risulta irreperibile. Fortunatamente lo ritrova in un bar – e dove altrimenti? – il direttore del Botafogo, e riesce a farlo arrivare dai compagni la notte stessa.

Se nel 1958 Garrincha era devastante, nel 1962 lo era diventato ancor di più: aveva affinato il dribbling e soprattutto il tiro, e lo dimostrerà nel corso della rassegna iridata.

Vincono la prima gara contro il Messico ma pareggiano la successiva contro la Cecoslovacchia, dove perdono anche Pelé per un infortunio. Garrincha deve adesso essere il leader tecnico della squadra, e nella complicata gara contro la Spagna vincono trascinati da lui, diventato l’uomo su cui converge il Brasile.

Segna 4 gol in 6 partite e porta la Seleçao in finale, dove incontrano nuovamente la fortissima Cecoslovacchia, guidata da Masopust, che qualche mese più tardi riceverà il Pallone d’Oro. C’è un piccolo particolare: Garrincha quella finale non dovrebbe giocarla. Infatti, nella semifinale contro il Cile, dopo l’ennesimo contatto di una gara in cui lui aveva regalato spettacolo ma ne aveva anche prese abbastanza, commette un fallo di reazione, dando un calcetto ad un avversario, e riceve in cambio un rosso diretto. Il Brasile fa ricorso, e tramite non poche pressioni politiche, riesce anche a vincerlo.

In finale, con Garrincha in campo, non c’è storia. Seppur con 39 di febbre, è ingiocabile per gli avversari, che gli avevano preparato una marcatura a tre uomini, risultata totalmente inutile: 3-1 e Brasile Campione del Mondo per la seconda volta consecutiva.


Dopo il canto del Garrincha

Quel Mondiale da protagonista, però, rappresenta per Manoel il suo personale canto del cigno, o meglio, del garrincha. Con il suo talento immenso era riuscito sempre a compensare la sua quasi totale assenza di professionalità – dal punto di vista tattico e degli allenamenti, ma anche per la sua vita fuori dal campo –, ma ora che quelle ginocchia non riuscivano più a reggere, tutto il mondo gli cadde definitivamente addosso.

Nel 1965 lascia il Botafogo, anche per le accese discussioni avute con il medico del club, e inizia una disperata Odissea, tra Sud America ed Europa, alla ricerca di una squadra dove potesse tornare a giocare come aveva dimostrato e soprattutto guadagnare abbastanza per poter vivere serenamente. Già, perché Garrincha in carriera non aveva guadagnato molto, e quello che aveva guadagnato lo aveva sperperato, tra gestioni del denaro poco intelligenti e – soprattutto – l’abuso di alcolici.

Più per riconoscenza che per reali meriti sportivi venne convocato ai Mondiali di Inghilterra ’66, ma atleticamente non era più lo stesso giocatore, e inoltre aveva perso quella spontaneità che lo contraddistingueva. Adesso appariva pensieroso e intimorito, e i risultati ne furono una conseguenza: il Brasile uscì al primo turno e lui giocò con l’Ungheria la sua cinquantesima ed ultima gara ufficiale, nonché la sua unica sconfitta con la maglia della Seleçao.

L’autodistruzione e l’immortalità

Lascia ufficialmente il calcio nel 1973, e ha la possibilità di ricevere un ultimo saluto dal suo pubblico. Al Maracanã si presentano in più di 100.000 per un’amichevole in suo onore tra la Nazionale brasiliana, nella quale gioca anche lui, e una selezione sudamericana. Il Brasile vinse 2-1, e non poteva essere altrimenti: i verdeoro con Garrincha e Pelé in campo insieme non hanno mai perso una gara.

Quella è con ogni probabilità l’ultima grande gioia della sua vita, perché dal quel momento in poi inizierà una caduta nel baratro che terminerà solo con la sua morte.

Oltre all’alcol – costante da sempre nella sua vita – e i problemi con il denaro, ebbe non pochi grattacapi relazionali: quattordici figli – tra quelli riconosciuti –, quattro matrimoni e innumerevoli relazioni, che superficialmente potrebbero sembrare un aspetto positivo nella vita del brasiliano, che senza dubbi aveva una passione irrefrenabile per le donne, ma che in realtà contribuirono al suo sprofondare nella depressione.

Il crollo psicologico di Garrincha era ormai inesorabile. Tentò più volte il suicidio, e il 20 gennaio del 1983, a 49 anni, morì, ucciso dai suo stessi vizi. L’autopsia rivelerà che l’uomo non mangiava da venti giorni, limitandosi a riempire il suo stomaco di alcol.

L’uomo che ha insegnato ai tifosi brasiliani a ridere ha concluso la sua vita in maniera funesta. Ma quello che ha dato sui campi da calcio non verrà mai dimenticato: Garrincha è rimasto e rimarrà per sempre nel cuore della sua gente. E a tal proposito, un famosissimo detto carioca recita: «Ancora oggi, se chiedi a un vecchio brasiliano chi è Pelé, il vecchio si toglie il cappello, in segno di ammirazione e di gratitudine. Ma se gli parli di Garrincha, il vecchio chiede scusa, abbassa gli occhi e piange».

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