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Il calcio, l’aggregazione e la salute mentale

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Due uomini condividono un rituale. Ogni settimana siedono allo stadio, al posto di sempre. La maglia del club è ormai cucita addosso e i colori sociali sono come una seconda pelle su di loro. Si ritrovano lì di domenica in domenica, l’uno accanto all’altro. Tifosi generici, esultano ad un gol della propria squadra e restano delusi quando le cose non vanno come sperato: le stagioni, anche delle squadre migliori, sono fatte di alti e bassi, lo sappiamo.

Non sappiamo, invece, che tipo di rapporto abbiano tra loro. Per la maggior parte del tempo se ne stanno in silenzio, concentrati sulla partita. Ogni tanto scambiano qualche parola, ma è difficile inferire se siano semplici conoscenti o amici di vecchia data. A parlare è per loro più il linguaggio del corpo: la postura delle spalle, la gestualità delle mani, l’espressione di uno sguardo. Tanto basta a farci capire che hanno personalità molto diverse: l’uomo a sinistra ha gli occhi tristi, le mani che corrono spesso sul viso con fare preoccupato, e le reazioni ai vari momenti della partita sono controllate, con le esultanze che diventano quasi un sospiro di sollievo; trasmette un certo senso di fragilità. L’uomo sulla destra sembra tutto l’opposto: ha gli occhi sgranati come quelli di un bambino, il sorriso sempre accennato e le sue esultanze sono esplosive, come se venisse caricato a molla sistematicamente. Vediamo il suo viso comparire molto meno sullo schermo, perché ad ogni esultanza è sempre pronto a saltare su e ad abbracciare il suo vicino. Alla fine, il suo volto scompare del tutto, e l’unico a presentarsi allo stadio per proseguire il rituale è l’uomo a sinistra, che poggia con cura la sua sciarpa su un sediolino lasciato vuoto.

Con questo video il Norwich ha deciso di affrontare il delicato tema della salute mentale, in occasione della settimana dedicata all’argomento. Alla fine del video appare in sovrimpressione sullo schermo questa scritta: «A volte può essere evidente quando qualcuno sta lottando per farcela, ma altre volte i segnali sono più difficili da individuare. Controlla le persone che ti circondano.». È quello che ho fatto, tornando indietro a cercare nel video segnali che dessero indizi su come quella storia, di cui conoscevo già il finale, si sarebbe conclusa. Li ho ritrovati, con qualche fatica, nascosti nel prolungamento di qualche gesto, o nelle frasi che col senno di poi non erano buttate lì per fare conversazione, ma forse un timido spiraglio per un’apertura che non si sarebbe mai verificata. Ho iniziato a disprezzare leggermente – in modo inconscio – l’altra persona, quella che era rimasta e che non aveva saputo cogliere quei micro-gesti, così concentrata su sé stessa e su quelle stupide partite. Un «io, io, io…» proiettato sulla propria settimana, sul proprio lavoro, sulla propria squadra del cuore. Certo, nemmeno io in un primo momento avevo dato importanza a certi segnali, ma dopotutto perché avrei dovuto? Non ero io la persona designata a interpretarli. Ero solo un osservatore passivo, capitato su quel video per caso e in fondo, mi sono detto, ero giustificato a prestare meno attenzione rispetto agli altri.



Mentre cercavo di razionalizzare il mio senso di colpa per non aver colto dei segnali all’interno di uno spot online, mi è tornato in mente un piccolo, delirante racconto scritto da David Foster Wallace, all’interno di un libro altrettanto delirante – Brevi Interviste con Uomini Schifosi – intitolato ‘La Persona Depressa‘. Parla di una giovane donna, intrappolata in uno stato depressivo tale da averla portata a instaurare una complessa struttura di relazioni con la sua psicoterapeuta e con un Sistema di Sostegno – un gruppo di amiche e conoscenti –, in modo da avere sempre qualcuno disponibile ad ascoltarla parlare della sua condizione. La donna è perfettamente consapevole di quanto quel Sistema possa diventare un fardello per chi si trova dall’altra parte, ma non può fare a meno di utilizzarlo. Ha un atteggiamento ossessivo nell’osservare il comportamento degli altri, ma solo se posto in relazione a lei. Aggiunge così tanti preamboli, sottotesti, parentesi e incisi al significato che una conversazione dovrebbe avere che si perde per strada dei pezzi, quelli più importanti. Non si rende conto che la sua terapeuta di lì a poco si suiciderà, o che la sua amica sta soffrendo per un tumore, perché è così concentrata su sé stessa che i problemi degli altri devono passare necessariamente in secondo piano, e i segnali della loro sofferenza vengono scambiati dal suo cervello per insofferenza nei suoi confronti. I pezzi persi per strada sono il frutto della sua mancanza di empatia.

Il racconto, incentrato su una persona che soffre effettivamente di problemi di salute mentale, in realtà ci dice qualcosa su una tendenza generalizzata che si riscontra su una scala sempre più vasta: la nostra incapacità di ascoltare e osservare, o almeno di ascoltare e osservare per davvero. C’è sempre un velo a tenerci separati dagli altri, qualcosa che impedisca la loro piena comprensione, e si è disteso a tal punto da rendere il caso patologico descritto nel testo di Wallace la quasi-normalità. Un atteggiamento del genere non è più il frutto degenerato di una mente ossessiva, ma di una diffusione quasi strutturale di una cultura del sé. Manca la predisposizione a prendere la giusta distanza dal proprio ego, fare un passo di lato e sentirsi parte complementare di un tutto. Diminuiscono i momenti e le situazioni di aggregazione spontanea, e se pure questi ci sono si preferisce condividere e ascoltare in maniera superficiale, senza mettersi in gioco davvero. Tra gli uomini poi c’è la tendenza a inspessire il velo: studio in ambito psicologico suggeriscono che gli stereotipi maschili dominanti impediscano di sentirsi in grado di parlare apertamente dei propri sentimenti, aumentando le distanze da colmare.

Prendiamo l’esempio dell’Inghilterra, dove la campagna di sensibilizzazione nei confronti della salute mentale ha avuto una risonanza particolare: secondo i dati dell’Office of National Statistics (ONS), nel Regno Unito tre suicidi su quattro riguardano uomini e questa rimane la principale causa di morte tra quelli di età compresa tra i 20 e i 34 anni. Per ogni atto di questo tipo è lecito pensare che vi siano persone che riescono a fermarsi appena un attimo prima, o che non abbiano raggiunto – ancora – livelli di malessere psicologico tali da tentarlo. Il suicidio, pertanto, risulta solo come l’estremo gesto di una condizione di instabilità psicologica che ad oggi colpisce una base di popolazione molto più ampia di quanto la punta dell’iceberg sembra indicarci: poco meno della metà (44%) degli uomini nel Regno Unito infatti ha dichiarato di aver sofferto di problemi di salute mentale.

Questi problemi sono aggravati da una condizione di inadeguatezza di fondo, che si verifica per due motivi solo in apparenza diversi tra loro: il primo è che, sempre secondo lo studio dell’ONS, circa i due terzi degli uomini preferirebbero tenere la cosa per sé se fossero in difficoltà, e meno di un uomo su quattro dichiara di essere bravo a parlare della propria salute mentale agli altri. Gli uomini sono anche molto meno propensi a parlare a un amico rispetto alle donne: il 42% delle donne dichiara che parlerebbe del proprio benessere mentale a un amico stretto, contro appena il 30% degli uomini. Il secondo motivo ha a che fare con l’incapacità di riconoscere i segnali, proprio come sottolineato dal video del Norwich: oltre la metà (59%) degli uomini non saprebbe quali sono i segnali da osservare se qualcuno di loro fosse in crisi e il 55% non saprebbe come iniziare una conversazione sull’argomento, ma la stessa percentuale sarebbe propensa ad aprirsi sul tema faccia a faccia con qualcun altro, perché sentirebbe di sentirsi sollevato o rincuorato. Le difficoltà che gli uomini trovano nell’aprirsi sono due facce della stessa medaglia, un cortocircuito che difficilmente potrebbe spezzarsi senza un punto di contatto iniziale.



Ma cosa c’entra la salute mentale con il calcio, o anche soltanto con l’essere tifosi? Perché le società calcistiche, le leghe dei diversi campionati o addirittura i nostri vicini allo stadio dovrebbero assicurarsi che noi stiamo bene o se abbiamo bisogno di un aiuto esterno? In fondo il calcio occupa una parte limitata e marginale delle nostre vite, e quando la partita è terminata, le porte dello stadio sono serrate e le televisioni spente, quando ci chiudiamo dietro la porta di casa siamo pronti a riaprire il mondo che ci eravamo lasciati alle spalle per un po’, ritrovando il bagaglio personale nascosto sotto il tappeto, come una brutta nuvola di polvere che ricompare non appena su quel tappeto ci saltiamo su.

Un primo elemento da considerare è che, se anche il calcio effettivamente occupasse una parte marginale della nostra vita la sua diffusione, per lo meno sul continente europeo, è probabilmente al suo apice: lo vediamo rappresentato ovunque e in ogni salsa, e pervade gli angoli di ogni strada. Una nebbia sottile che non possiamo fare a meno di percepire. La storia dei sei gradi di separazione raggiungerebbe il traguardo di un unico grado, se cercassimo soltanto qualcuno che è interessato al calcio. Sotto questo punto di vista, l’impegno dei club sportivi nella sensibilizzazione verso l’argomento della salute mentale potrebbe raggiungere trasversalmente più persone, anche senza che queste siano direttamente tifose di questa o quella squadra di calcio; sarebbero esposte ad un’eventuale campagna passivamente: le milioni di visualizzazioni registrate dal video del Norwich su tutti i social sono un esempio di questo fenomeno di esposizione indiretta.

Ma la diffusione di un prodotto è direttamente causata dall’interesse che quello stesso prodotto suscita, e nel caso dell’Inghilterra il prodotto calcio – se anche volessimo considerarlo mero intrattenimento – non fatica a trovare una base solida: si stima che nel Regno Unito ci siano 28,8 milioni di tifosi di calcio, e quasi la metà di questi (48%) ha avuto a che fare con problemi di salute mentale. Una campagna di sensibilizzazione all’interno degli stadi, e in generale nei luoghi in cui lo sport è praticato o tifato, avrebbe il duplice scopo di sensibilizzare la metà delle persone che non hanno mai sofferto di patologie legate alla salute mentale, e al contempo avrebbe un impatto significativo anche su coloro che invece ne sono invischiati: li aiuterebbe a prendere atto di una condizione che troppo spesso viene trascurata o relegata a momenti umorali e passeggeri, o che viene nascosta perché ci si sentirebbe soli nell’esternarla, per la paura di non essere compresi o di star esagerando nel descriverla. Paura semplicemente di dare voce a pensieri intrusivi che spesso si spera passino soltanto col tempo e la distrazione.

Avevamo già descritto in un altro articolo quanto fosse difficile parlare apertamente di depressione – il discorso è facilmente estendibile ad altri problemi di salute mentale e a diverse patologie psicologiche, basti pensare ai recenti discorsi sulla ludopatia – da parte dei calciatori. Lo stesso vale per i tifosi, dove solo il 10% vede lo sport come un’opportunità per parlare anche della propria salute mentale.

In Regno Unito, le campagne indirizzate direttamente a coloro che possono definirsi tifosi attivi dei club di diverse divisioni inglesi non sono mancate. Il 6 settembre 2023, la ONG Movember ha ricoperto i posti vuoti degli abbonamenti del Rotherham United nello Yorkshire e del Darlington nel Nord-Est con il messaggio «Where’s My Mate?». La campagna del Liverpool si è invece concentrata sulla prevenzione dei problemi di salute mentale nelle fasce di popolazione più giovani, dato che circa la metà dei casi di malessere psicologico inizia a verificarsi sotto i 14 anni. Lo spot mostra i ragazzi dell’Academy da soli in diverse parti della città che pronunciano alla telecamera i versi di You’ll Never Walk Alone.

Un’altra campagna mediatica che ha goduto di una buona risonanza è quella del Chelsea, in collaborazione con lo sponsor Three, portata direttamente all’interno dello Stamford Bridge: durante l’intervallo della partita contro il Brighton, tre ex giocatori del Chelsea – Jimmy Hasselbaink, Eidur Gudjohnsen e Gary Cahill – e tre tifosi sono entrati in campo con il numero di telefono di Samaritans –un’associazione che si occupa di prevenire atti di suicidio, schierando operatori sempre disponibili ad ascoltare chiunque avesse bisogno di aiuto psicologico – stampato sul retro delle magliette e proiettato sui tabelloni dello stadio, accompagnato dall’hashtag #TalkMoreThanFootball. Gli inglesi hanno il doppio delle probabilità di parlare di calcio rispetto al loro benessere mentale, senza restringere il campo soltanto agli uomini, dove la forbice si amplierebbe sensibilmente.



Se questo è vero, tutto sembra portarci alla conclusione che il ritrovarsi insieme per supportare la propria squadra sia soltanto una coincidenza, il far parte accidentalmente di una comunità non così unita come potrebbe sembrare dall’esterno. Si passerebbe insieme il tempo per scacciare la reciproca noia e avere qualcuno con cui chiacchierare di quello che si è visto o si vedrà, prima e dopo la partita. Ma c’è qualcosa che va oltre il semplice farsi compagnia, qualcosa che resiste alle pieghe del tempo e del cambiamento, e che rende il mondo del tifo ancora assimilabile a una vera e propria comunità, fatta di rapporti umani che si rafforzano invece di atomizzarsi. Diciassette milioni di persone – secondo un altro sondaggio condotto dalla stessa Three – oggi in Inghilterra vedono ancora la fruizione di un evento calcistico come l’opportunità per incontrarsi con le persone più vicine, o che magari riescono a vedere soltanto saltuariamente. Seguire la propria squadra diventa un pretesto, un modo per continuare a tener traccia delle persone che vogliamo tenerci strette nella nostra vita.

Il mondo del calcio viene mangiucchiato a poco a poco dallo show business, da gruppi di interesse che lo rendono un cavallo di Troia per operazioni geopolitiche e da iniziative sempre più discutibili di greenwashing; tarli un tempo invisibili ma che ora non possiamo più ignorare, con quella pancia così piena. Eppure, nonostante la sua essenza sia consumata e logora tanto quanto la sua superficie appaia luccicante, continua ad essere un simulacro di aggregazione, uno dei pochi non del tutto svuotati. Uno spazio sicuro in cui condividere emozioni, empatizzare con chi conosciamo e chi ancora non conosciamo così bene. Uno spazio in cui condividere non solo la tristezza e la felicità trasmessa da quello che vediamo in campo, ma anche la nostra intima tristezza e la nostra intima felicità.

Con questo non voglio dire che il tifo debba trasformarsi in un ambiente votato alla terapia di gruppo. Uno spazio sicuro resta sicuro anche perché ci dà la possibilità di distrarci, uscire da noi stessi per qualche ora e lasciarci andare. Rimane però un posto in cui è possibile tornare a provare emozioni pure, incontaminate nel bene e nel male, in cui le stratificazioni sociali e l’ego possono assottigliarsi fino a diventare invisibili. Quando questo succede le barriere vengono rimosse una dopo l’altra e si riesce finalmente a vedere l’altra persona, a comprenderne fino in fondo le sfumature. Diventa più facile capire se nell’altro c’è qualcosa che non va, ed è più facile fare la differenza. Basta solo ricordarsi di lasciare aperto uno spiraglio.

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