Campione, leggenda, mito. Parole ricche di sfumature e decisive, che toccano solo a pochi nella storia tanto densa quanto affascinante di questo sport. Gianluigi Buffon è stato tutto questo e tutto insieme, dall’inizio alla fine. Un predestinato che con la sorte ha continuamente dialogato con sguardi di sfida e rincorrendosi a vicenda, senza tener conto della cosa più inutile: il tempo.
Già, perché Buffon e il tempo hanno un rapporto-non-rapporto. Buffon ha passato l’intera carriera a fingere che il tempo, che inesorabilmente scorreva, non passasse o che, addirittura, non esistesse proprio. Ma come sostiene il filosofo tedesco Martin Heidegger, l’essere umano è tale perché dal tempo non riesce a sfuggire. Esistiamo progettando ogni briciolo della nostra esistenza, anche quando crediamo di essere privi di ansie e paure.
Eterno bambino e continuamente irradiato da un sorriso smagliante, Gigi Buffon ha sempre fatto quello che molti suoi compagni o colleghi, soprattutto oggi, hanno dimenticato di fare: giocare a calcio e non praticarlo, viverlo come se fosse una bella e in fondo anche stupida avventura.
Buffon ha vissuto il calcio sempre in modo viscerale, imprecando contro i numi e il cielo, sempre affamato di divertimento. Diciamocelo però: con il tempo ha capito che vincere fa molto meglio, ma anche dalle sconfitte bisogna trarre il lato positivo. Quell’ossessione di essere sempre sull’orlo del baratro, un po’ come il monaco in riva al mare del quadro di Caspar David Friedrich, pronto ad affrontare tra lo stupore e la paura, tra l’eccitazione e l’ansia, ogni singolo momento. Un po’ come un’aquila che vola rasente alle rocce con la dimestichezza di un esperto aviatore e l’innocenza dell’animale, un po’ come Icaro che rischia e osa pur di vedere e toccare il sole. E Buffon il sole l’ha toccato, anzi, lo ha bloccato tra i guantoni.
Provare a parlare della vita e della carriera di uno come Gianluigi Buffon è estremamente difficile e in alcuni punti persino delicato. Buffon è più di un mito generazionale, va ben oltre il simbolo di una porzione di anni della storia del calcio. Egli è una parte consistente della storia di questo sport e ne rappresenta senza dubbio alcuno un simbolo netto e forte. In questo articolo proveremo ad inquadrare alcuni dei momenti decisivi, e non per forza felici e vittoriosi, della lunga carriera dell’ex numero uno della Nazionale italiana.
Esordire non è uguale per tutti
L’esordio tra i professionisti è il sogno di tutti i bambini che praticano uno sport. Ci sono stati esordi durati qualche manciata di minuti, altri completamente dimenticabili e, infine, altri ancora rimasti indelebili nei ricordi di tutti. Quello di Buffon appartiene a quest’ultima categoria.
Siamo nel 1995 e il Parma del grande Nevio Scala è ormai da qualche anno più di una sorpresa, e stabilmente lotta per la qualificazione in Europa. Alla decima giornata di Serie A ha già raccolto 20 punti in 9 partite e ad attenderlo c’è, a pari punti, il Milan di Fabio Capello. Un paio di settimane prima, il portiere titolare dei Ducali, Luca Bucci, si è rotto la clavicola sinistra ed è costretto a saltare il big match. Il secondo portiere del Parma è Alessandro Nista, giocatore navigato reduce dalle esperienze con Ancona, Leeds e Pisa, che però non viene scelto da Scala per sostituire Bucci in questa partita. Al suo posto, viene schierato in campo un Buffon diciassettenne, allora portiere della Primavera del Parma, aggregato in prima squadra dall’allenatore proprio per le sue interessantissime qualità.
Buffon esordisce tra i professionisti il 19 novembre del 1995, e la sua prestazione è assolutamente perfetta. Il carrarese riuscirà a mantenere la rete inviolata gestendo la difesa con sicurezza, uscendo dai pali senza alcuna paura e parando qualunque tiro a giocatori del calibro dei due Palloni d’Oro George Weah e Roberto Baggio. Quel giorno, al Tardini, è nata una stella.
La prima finale di Champions League
Reduce da due secondi posti di fila con Ancelotti in panchina, anche a causa di prestazioni non impeccabili da parte di Edwin van der Sar, il 3 luglio del 2001 la Juventus acquista Gianluigi Buffon per la cifra record di 75 miliardi di lire più la cessione a titolo definitivo di Jonathan Bachini – ancora oggi è il decimo acquisto più costoso nella storia della Serie A, il quarto italiano più costoso di sempre e il terzo portiere più costoso della storia.
La Juventus torna subito a vincere lo Scudetto – che mancava sotto la Mole dal 1998 – nella famosa giornata del 5 maggio 2002, e si ripete nella stagione successiva, la 2002/2003. Proprio in quell’annata, la squadra allenata da Marcello Lippi arriva in finale di Champions League dopo aver eliminato le spagnole Barcellona e Real Madrid nei turni precedenti.
Buffon risulta essere protagonista in entrambe le partite: nella gara di ritorno contro il Barcellona, ai supplementari, ipnotizza un Patrick Kluivert solo davanti a lui, poco prima del gol decisivo di Marcelo Zalayeta; mentre contro i Blancos, sempre nella sfida di ritorno, para un rigore a Luís Figo a mezz’ora dalla fine, permettendo alla sua squadra di rimontare il 2-1 del Bernabéu.
Ad Old Trafford, ad attendere la Juventus, c’è il Milan dell’ex Carlo Ancelotti, in quella che è la prima e al momento ultima finale nella storia della Champions League tra due squadre italiane.
Nel corso di una partita molto chiusa, Buffon trova il tempo di sfoggiare tutte le sue abilità, ma una parata più delle altre spicca, e rimane ancora oggi impressa nella mente degli appassionati di calcio: cross di Clarence Seedorf dalla destra, tuffo di Inzaghi di testa e miracolo di Buffon che si stende sulla sua sinistra, apre la manona e con un colpo di reni toglie la palla dalla porta.
Lo 0-0 tiene fino alla fine dei tempi supplementari, e anche ai calci di rigore Buffon dimostra di essere uno dei migliori portieri al mondo: prima neutralizza quello di Seedorf e poi, con il ginocchio, respinge un centrale ma potente tiro di Kaladze. A sbagliare, però, sono anche i suoi compagni di squadra, e la Champions la alza la squadra capitanata da Paolo Maldini.
Si tratta soltanto della prima di tre finali di Champions League giocate e perse da Gigi Buffon, che è una delle più grandi leggende del calcio a non aver mai vinto la Coppa dalle Grandi Orecchie.
Dal tetto del mondo alla Serie B
Nel 2006, con lo scoppio dello scandalo di Calciopoli, la fiducia nel calcio italiano e nella Nazionale è ai minimi storici. Gli Azzurri, dopo aver deluso ai Mondiali del 2002 e agli Europei del 2004, hanno cambiato guida tecnica: fuori Giovanni Trapattoni e dentro Marcello Lippi. La Nazionale del CT toscano si qualifica ai Mondiali in Germania e può contare su un mix di giovani e uomini d’esperienza che fa leva soprattutto sul blocco bianconero, nel peggior momento della storia della Vecchia Signora.
Gli Azzurri superano il girone da primi e battono Australia e Ucraina nei due turni successivi, prima di incontrare i padroni di casa della Germania in semifinale. La partita è leggendaria e viene decisa dai gol di Grosso prima e Del Piero poi, entrambi nei minuti finali del secondo tempo supplementare. Poco prima dei due gol, però, Buffon compie una delle parate più complicate della sua carriera. Podolski, servito da Kehl a sinistra dell’area di rigore, controlla il pallone e, quasi da fermo, fa partire una sassata potentissima. Il portiere carrarino, molto piegato e coperto da Cannavaro, non vede partire il pallone, ma nonostante tutto con un balzo estremamente reattivo si alza e con la mano destra respinge il pallone sopra la traversa.
Nell’atto conclusivo della competizione, dopo la rete su rigore di Zidane pareggiata da Materazzi, Buffon si rende nuovamente protagonista, ai danni proprio di capitan Zizou. A pochi minuti dalla fine del primo tempo supplementare, Willy Sagnol crossa dalla destra con Zidane che stacca da solo in area di rigore. Il colpo di testa che il fantasista francese scaglia contro la porta azzurra è potentissimo, ma Buffon salta e a mano aperta mette in calcio d’angolo.
L’Italia conquista ai calci di rigore il quarto Mondiale della propria storia, Buffon viene eletto miglior portiere della competizione e chiude al secondo posto nella classifica del Pallone d’Oro alle spalle del compagno Fabio Cannavaro. Ancora oggi in molti ritengono che quel premio dovesse andare a Buffon, autore di un Mondiale da sogno terminato senza aver subito dagli avversari alcun gol su azione – due le reti subite in totale, il goffo autogol di Zaccardo contro gli Stati Uniti e il rigore di Zidane in finale.
Poco dopo il Mondiale, però, la Juventus viene retrocessa in Serie B per illecito sportivo. Nonostante le ricche offerte dalla Spagna, in particolare quella del Barcellona, Buffon – insieme ai compagni di sempre Nedvěd, Trezeguet, Del Piero e Camoranesi – decide di rimanere nella serie cadetta, entrando per sempre nel cuore dei tifosi bianconeri e nella storia del club.
Il primo Scudetto targato Antonio Conte
Dopo due annate di banter era concluse con due disastrosi settimi posti, nel 2011 la Juventus vuole tornare a competere. Per farlo, si affida alla forza del nuovo e moderno stadio, lo Juventus Stadium, e alla guida di un nuovo allenatore, Antonio Conte, storico capitano bianconero.
Conte è uno pragmatico, deciso. Reduce da una promozione con il Siena, il tecnico leccese ha le idee chiarissime e vuole assolutamente riportare la Juve ai fasti di un tempo. La base sulla quale forgerà i suoi successi è quella composta da Buffon e dal trio di difesa Barzagli-Bonucci-Chiellini, la leggendaria BBBC. Un blocco granitico e inscalfibile che farà le fortune della Juventus.
Buffon nelle tre stagioni precedenti ha giocato poco, complici alcuni infortuni agli adduttori, al menisco, alla coscia e, soprattutto, un’ernia del disco. Tutti problemi che avrebbero potuto limitarne l’atletismo e addirittura obbligarlo a concludere la carriera in anticipo. E invece il vicecapitano dei Bianconeri è assoluto protagonista della stagione 2011/2012, che vede la Juventus trionfare imbattuta in campionato con la miglior difesa – solo 20 i gol subiti, 16 da Buffon in 35 partite. Questo è solo il primo di nove scudetti consecutivi vinti dalla Juventus. Buffon, da quel momento, sembrerà ringiovanire anno dopo anno.
Quella maledetta Champions
Dopo l’addio burrascoso di Antonio Conte durante la preparazione della stagione 2014/2015, la Juventus cambia allenatore e sceglie Massimiliano Allegri, ex tecnico del Milan. I torinesi partono subito forte in campionato e dopo qualche partita staccano la Roma, trionfando con ben 17 punti di vantaggio per la quarta volta consecutiva. I Bianconeri vincono anche la Coppa Italia, che mancava a Torino da vent’anni. Il percorso più sorprendente, però, è quello in Champions League, dove trascinati dalla coppia Morata-Tévez eliminano agli ottavi l’ultimo Borussia Dortmund di Klopp, ai quarti il Monaco di Jardim e in semifinale, dopo due partite emozionanti, il Real Madrid di Carlo Ancelotti.
In finale, ad attendere la Vecchia Signora, c’è il Barcellona di Luis Enrique e del tridente delle meraviglie formato da Messi, Suárez e Neymar. Entrambe le compagini lottano per la conquista del Triplete, ma solo una delle due può raggiungere questo scopo. Il teatro per la finale è l’Olympiastadion di Berlino, dove Buffon nel 2006 è diventato campione del mondo. La partita, però, nel caldo 6 giugno, comincia subito in salita per la squadra di Max Allegri: al quarto minuto di gioco Iniesta imbuca per Rakitić, che con il sinistro porta in vantaggio i Blaugrana. La Juventus però non demorde e tiene testa al gioco rapido e pungente della squadra catalana, che però al decimo minuto torna a essere pericolosa: Suárez dalla destra mette dentro un pallone per Dani Alves, che calcia a botta sicura. Un autentico prodigio di Buffon gli nega la gioia del gol e tiene i compagni in partita.
Nel secondo tempo il portiere bianconero è ancora protagonista: su un contropiede del Barcellona Rakitić passa il pallone a Suárez che calcia bene, ma trova un grande intervento del numero uno bianconero. Pochi minuti dopo la Juventus riesce a pareggiare i conti con Morata e prova a cambiare l’inerzia della partita in suo favore, ma un contropiede nato dal famoso contatto Pogba-Dani Alves termina con il gol in tap-in di Suárez, che mette in rete dopo un grande intervento di Buffon su Messi. La Vecchia Signora prova a pareggiare i conti ma nei minuti di recupero il Barça sigilla il match con il 3-1 di Neymar. La delusione dei Bianconeri e del proprio capitano è evidente.
A fine partita, dopo aver riconosciuto i meriti degli avversari, Buffon pone le proprie aspirazioni per il futuro: «Ora l’obiettivo è mantenermi per almeno tre anni su questi livelli, poi tirar giù la serranda, salutare tutti, sperando magari di aver realizzato qualche altro sogno». Falsa modestia? Sottovalutazione delle proprie possibilità? Non sappiamo bene cosa passasse nella mente di Buffon, ma il portiere non solo manterrà lo stesso livello, ma come un buon vino riuscirà addirittura a superarlo e a portare a casa alcune delle migliori stagioni della propria carriera.
Nell’annata successiva, infatti, Buffon conquista il record di imbattibilità nella storia della Serie A, mantenendo la sua porta inviolata per 974 minuti, mentre l’anno dopo sarà autore di prestazioni decisive per il cammino europeo della Juventus. Ai gironi, è iconica la gara di Gigi in Francia contro il Lione, dove parerà prima un rigore a Lacazette e poi compirà ben tre miracoli su Tolisso e compagni.
Agli ottavi è spettatore non pagante in entrambe le sfide contro il Porto, mentre ai quarti tiene la porta inviolata nel doppio match contro il Barcellona, ipnotizzando Iniesta con un autentico miracolo nel 3-0 dell’andata. In semifinale, invece, allo Stade Louis II è superlativo su una spizzata di un giovanissimo Mbappé e su un colpo di testa di Germain che ricorda la parata su Zidane nel 2006; mentre a Torino riesce a neutralizzare un pericoloso sinistro di Falcao, venendo battuto solo da Mbappé e rompendo così un’inviolabilità durata ben 690 minuti.
Per la Juventus è la seconda finale di Champions in tre anni, la terza per Buffon dopo Manchester e Berlino. In finale, a Cardiff, c’è però da affrontare il Real Madrid di Cristiano Ronaldo. La Juve viene da cinque finali perse in vent’anni, il Real invece di finali nello stesso intervallo ne ha vinte cinque, di cui una proprio contro i Bianconeri nel 1998. Durante l’anno i torinesi hanno convinto tutti, e sembra davvero che possa essere l’occasione giusta per rompere la maledizione.
I ragazzi di Allegri partono meglio, ma in vantaggio ci va il Real Madrid con il solito Cristiano Ronaldo. La Vecchia Signora non si arrende e torna alla carica: dopo qualche minuto arriva la splendida rete del pareggio di Mandžukić, e fino alla fine del primo tempo i Bianconeri giocano decisamente meglio. Al momento del ritorno delle due squadre in campo, però, cambia tutto: la Juve crolla inesorabilmente sotto i colpi di Casemiro, Cristiano Ronaldo e Marco Asensio, per il 4-1 finale. Per Buffon, incolpevole su tutti i gol dopo una stagione straordinaria, si tratta dell’ennesima beffa.
Il portierone torna ai microfoni, e questa volta i toni sono meno speranzosi e sereni, le lacrime dolorose e sincere. Per Buffon Cardiff ha rappresentato l’ultima grandissima occasione di vincere la Champions League, una Coppa che avrebbe meritato ma che non potrà mai stringere tra le sue mani.
L’ultimo cocente fallimento azzurro
Dopo la delusione dei Mondiali 2010 e 2014, la finale persa per 4-0 a Euro 2012 e il breve intervallo del bel percorso a Euro 2016, l’Italia affronta un grave momento di crisi. La generazione calcistica da cui ci si aspettava tanto ha in realtà deluso estremamente le aspettative.
A uomini d’esperienza come il blocco BBBC, De Rossi e Candreva si uniscono un manipolo di calciatori mediocri e giovani di belle speranze ma poco valorizzati. Dopo Conte, alla guida degli Azzurri è stato scelto Gianpiero Ventura, ex tecnico del Torino che propone un calcio vecchio e non esaltante, che costerà il primo posto nel girone di qualificazione ai Mondiali. L’Italia pareggia contro Macedonia del Nord e Albania, segna poco in generale e, dopo un 1-1 allo Juventus Stadium contro la Spagna, viene schiantata e umiliata per 3-0 al ritorno. Per accedere ai Mondiali in Russia bisogna passare per i play-off, dove sono presenti tutte squadre oggettivamente inferiori all’Italia, almeno sulla carta. Il sorteggio dice Svezia, proprio il paese ospitante dell’unica – fino a quel momento – edizione della Coppa del Mondo che l’Italia non era riuscita a giocare, nel 1958.
La stampa e i tifosi si aspettano delle certezze e vogliono che l’Italia vada perlomeno a giocare i prossimi Mondiali. Ventura è sotto osservazione e c’è chi chiama a gran voce le dimissioni, ma il tecnico resta sulla panchina ed è convinto di riuscire nel proprio obiettivo. La partita d’andata in Svezia finisce con un sorprendente e umiliante 1-0 per i padroni di casa. Al ritorno, nonostante i favori del pronostico e il pubblico di San Siro come dodicesimo uomo, gli Azzurri non riescono a segnare un gol agli svedesi che, dopo un tristissimo 0-0, accedono ai Mondiali.
Calcisticamente parlando, Buffon è una vera e propria vittima di questa situazione. Il portiere, infatti, staccando il pass per la Russia sarebbe diventato l’unico calciatore a prendere parte a sei rassegne iridate consecutive, e avrebbe potuto chiudere con la Nazionale in maniera gloriosa, o quantomeno più dignitosa. Le parole di Buffon sono forti e le lacrime scendono copiose sul suo viso, generando negli italiani un misto di delusione, tristezza e compassione per un campione che ha dato tutto quello che poteva dare alla maglia azzurra e che avrebbe sicuramente meritato un finale migliore.
Quella sarà infatti la sua ultima partita ufficiale con la maglia dell’Italia. Un’avventura conclusa nel peggior modo possibile, ma comunque estremamente gloriosa. I 176 gettoni in maglia azzurra, inoltre, lo rendono per distacco il calciatore con più presenze nella storia della Nazionale italiana.
Alla fine, il tempo, è passato davvero
Proprio in virtù del paragone iniziale con il protagonista dell’opera più celebrata di Friedrich, Buffon non può che essere avvicinato per modus vivendi agli eroi romantici di fine Settecento. Alla base del Romanticismo c’è proprio la tensione continua – lo Streben – verso l’indefinito, verso l’insondabile mare di nebbia rappresentato dal futuro. E Buffon, a ventuno anni di distanza dall’ultima volta, è tornato al Parma, il club che lo ha lanciato e che lo ha portato a vincere il suo unico trofeo internazionale per club, la Coppa UEFA 1998/1999.
L’idea che ha portato Buffon al Parma è stata chiara sin dall’inizio: dopo aver escluso numerosi club di prime categorie europee e intercontinentali, l’ex numero uno Azzurro ha scelto con il cuore di tornare in Serie B per cercare di riportare i Ducali in A – dove nel frattempo era diventato l’uomo con più presenze nella storia del torneo – e puntare al sesto mondiale da terzo portiere.
Le due stagioni al Parma dell’ambizioso – e un po’ folle – presidente Krause, però, non andranno come sperato. La prima, con Maresca prima e Iachini poi, si concluderà con un deludentissimo dodicesimo posto in classifica; la seconda, invece, è terminata con una qualificazione ai play-off, dove la squadra allenata da Pecchia è stata sconfitta ed eliminata dal Cagliari di Ranieri.
Dopo un lungo e meditabondo silenzio estivo, nonostante la possibilità di continuare e le ricche offerte provenienti dall’Arabia Saudita, il portierone ha annunciato il suo ritiro dal gioco del calcio alla veneranda età di 45 anni.
Buffon è stato sicuramente uno sportivo esemplare, ma ha saputo anche mostrare come il fanciullo nietzschiano tutti i lati più puri e forti della natura umana. E il bambino di Nietzsche, dopo aver messo alle spalle le avversità e il peso del passato, gioca con la spensieratezza assoluta che solo un infante o un genio come Buffon possono avere.
Un uomo folle e allo stesso tempo deciso e serio, un esempio per intere generazioni di calciatori e tifosi, che ha affrontato ogni avversità anche a costo di rinunciare a palcoscenici migliori di quelli che avrebbe calcato restando dov’era. Perché uno come Buffon è facile da leggere dalle parate su Zidane o Inzaghi, ma è ancor più riconoscibile dai miracoli contro il Rimini in Serie B, dalle lacrime versate genuinamente e senza vergogna dopo le sconfitte più cocenti e dai sorrisi enormi e grintosi mostrati ai tifosi dopo l’ansia di un calcio di rigore di un compagno – rigorosamente vissuto di spalle rispetto al punto di battuta, e con lo sguardo rivolto verso la curva. Già, perché il calcio di rigore del proprio compagno di squadra non lo si guarda, ma lo si vive dagli sguardi di chi dà un senso a questo gioco. Un gioco da cui si può uscire con le ginocchia sbucciate e con tante delusioni, tra passi falsi e scelte azzardate, ma divertente al punto da dimenticarsi del tempo che passa.
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